Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della Presidente del Consiglio dei ministri all’utilizzo di missili a lungo raggio contro la Russia, cui pure la dichiarazione condita da avverbi e da intercalari (“chiaramente”, “ovviamente”, “semplicemente”), farebbe presagire ad un prendere tempo rispetto alla reale posizione che dovrà assumere il governo italiano.
Stiamo parlando della nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione Europea: all’italiano andrà il compito di «gestire i fondi del Pnrr insieme a Valdis Dombrovskis». Mancava l’ultimo nome e nella calcistica zona cesarini c’è stato l’accordo che ha sancito l’ingresso dell’unico componente Ecr (Conservatori e riformisti europei, gruppo a cui appartiene Fratelli d’Italia) nella Commissione. Il ministro italiano avrà anche la delega ai fondi di coesione e alle riforme. La lunga fase dialettica tra le due presidenti, Ursula Von der Leyen e Giorgia Meloni, si è conclusa con l’accoglimento da parte della prima al nome di Raffaele Fitto.

In questi giorni politica e stampa sembrano aver archiviato il caso Boccia-Sangiuliano proiettandosi sulla questione della composizione della nuova Commissione Europea, nuovamente a guida Von der Leyen (Partito popolare europeo). La maggioranza esulta e il governo plaude alla vittoria nettissima che sarebbe stata percepita come tale da tutta l’Italia, tuttavia il sistema-Paese (come si sarebbe detto un decennio fa) non beneficerà effettivamente della nomina di Fitto a Bruxelles/Strasburgo.
«Andiamo al dunque: al di là delle funzioni di coordinamento dei vicepresidenti che, per l’esperienza che ho io, sono chiacchiere e distintivo. Senza chiacchiere e distintivo avevamo Gentiloni all’economia. Adesso con chiacchiere e distintivo abbiamo “coesione e riforme”», a dichiararlo è stato Pier Luigi Bersani, componente della direzione nazionale del Partito democratico, nel corso della serata di ieri [17 settembre 2024], durante la trasmissione DiMartedì, condotta da Giovanni Floris. Chiacchiere e distintivo. E ora il dibattito – o quel che potrebbe definirsi tale – si è avviluppato sulla questione delle votazioni conseguenti: «Su Gentiloni cinque anni fa esprimemmo parere favorevole anche su indicazione dell’allora presidente di Ecr [Raffaele] Fitto. Confidiamo in un atteggiamento responsabile da parte della sinistra. Poi sta a loro. Certo, risponderanno del loro voto davanti al popolo italiano», tuona Nicola Procaccini al Corriere della Sera di ieri, 18 settembre [2024]. Come se il popolo italiano fosse davvero realmente consapevolmente informato su quanto accade a Bruxelles/Strasburgo, una delle istituzioni più blindate al mondo (con tanti saluti alla trasparenza e all’accessibilità pubblica). Ma le dichiarazioni roboanti sulla stampa lasciano il tempo che trovano, Italia od Europa che sia. Nel Belpaese i quotidiani ne sono la testimonianza concreta: non c’è una dichiarazione che sia di lungo respiro o che porti con sé un poco di dibattito che vada oltre l’immanenza di questo o quel fatto. Solo due giorni fa [16 settembre 2024], a proposito di gruppi e composizioni parlamentari, La Verità, attraverso la penna di Federico Novella, pubblicava un’intervista a tutta pagina ad Enrico Costa (deputato, già ministro negli esecutivi Renzi e Gentiloni). L’ex ministro ribadiva di aver lasciato Azione ma di non aver intenzione di ritornare in Forza Italia: «Non c’è nulla di ufficiale, farò le mie riflessioni. Ma con Forza Italia ho sempre avuto un confronto costruttivo». Neanche 48 ore dopo ed Enrico Costa effettua ufficialmente il ritorno nella formazione fondata da Silvio Berlusconi.

Nonostante la conquista ottenuta a Bruxelles/Strasburgo, il paese (quello vero, non quello dei comunicati stampa) langue. Non bastano gli annunci roboanti della Presidente Meloni all’assemblea di Confindustria riguardo l’occupazione («mai così tanti italiani avevano lavorato dall’Unità d’Italia oggi») talmente alti da non avere un termine di paragone: un esercito di decine di migliaia di insegnanti precari vincitori di concorso, abilitati e in attesa di abilitarsi (ovvero idonei dei nuovi concorsi Pnrr) sono in attesa di una cattedra e un’altra morte sul lavoro si aggiunge al già imponente numero di decessi. Stavolta si è trattato di un operaio di 34 anni che ha perso la vita schiacciato da una pressa in una fabbrica del varesotto, assunto non direttamente dall’azienda ma da «una cooperativa». Ma forse per il governo non conta: l’operaio era “solo” un uomo nato in Marocco. Non era mica italiano.

Politica in stallo: ci saranno i “Draghi viola”

Se la politica non si occupa di produrre proposte alla popolazione tutta (dunque saperle comunicare), indistintamente se essa comprenda anche elettrici ed elettori dei partiti della coalizione di governo, allora fa solo parlare di sé: un’azione subita e non praticata. Se alla politica si toglie la politica, resta un vuoto. Ma i vuoti in politica non esistono e il dibattito pubblico conseguente (che sia sano e non avvelenato o volutamente intorbidito) scade e diventa irrilevante. Risibile, perfino.

È la vicenda Sangiuliano-Boccia, ça va sans dire, ad aver tenuto sotto scacco la politica, la stampa, la comunicazione pubblica tutta: scontrini, ricevute, probabili nomine, foto che avrebbero potuto essere reali ma che potrebbero essere ritoccate, materiale che qualcuno avrebbe registrato (come verrà archiviato e da chi?), telefonate che sarebbero state ascoltate ma che nessuno è in grado di riferire (“parli lui/lei”, “lo chieda a lui/lei”). E poi, decine e decine di minuti di interviste su carta stampata, su canali di tv pubblica ed emittenti private ai personaggi di questa vicenda personale, politica, intima, indiscreta e tracimante allo stesso tempo. Il caso personale/politico Sangiuliano-Boccia è stato il vero protagonista della settimana politica che si è chiusa – così come di quella che si è aperta: la coalizione di centrodestra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, a cui ultimamente si aggiunge anche Noi Moderati) si è trovata di nuovo coesa e ritrovata sugli obiettivi comuni in vista dei prossimi appuntamenti. Coesa davanti a un piatto di pasta. Ravioli, per la precisione. Il Corriere della sera di martedì 10 settembre informa lettrici e lettori che i pentaviri (c’erano anche Lupi e Giorgetti oltre al trio Meloni-Tajani-Salvini) hanno consumato «mozzarella e ravioli di pesce». Un carboidrato e un latticino valgon bene una coalizione. Il pranzo è servito, stando al già citato retroscena di Monica Guerzoni, per «convincere gli italiani che il governo» sia «compatto e lavora serenamente, al di là delle tensioni quotidiani, degli scontri sulla Rai e sulle elezioni regionali e dei (presunti) complotti».
Eppure il Governo ha una manovra a cui badare: Giorgetti invoca la solita prudenza per non trovarsi di fronte l’ira funesta di Bruxelles/Strasburgo e la coperta sembra essere sempre corta. Talmente tanto che le stime di crescita sono ancora timidamente positive e il ministro Paolo Zangrillo ha ipotizzato, verbalizzandola, la ipotesi di far rimanere al lavoro i dipendenti pubblici fino ai settanta (70) anni. Su base volontaria, s’intende, e assumendo «trecentocinquanta mila giovani entro il 2025».

Ma tutto questo non basta. Servono i “Draghi viola”, come nel celebre cartone animato della Disney, ma con la D maiuscola. Serve la nuova “Agenda Draghi” a cui il Partito democratico già plaude, sebbene il rapporto Futuro della competitività europea presentato dal già presidente della Bce e Primo Ministro italiano, riporti chiaramente la necessità di un aumento degli investimenti nel settore della difesa. Il plauso del Pd giungerebbe prima ancora d’aver letto il documento, verrebbe da dire: sono pur sempre quattrocento pagine di «realismo capitalista». Se Tajani approva quanto detto da Draghi, Lupi gli fa eco; un’eco talmente forte che giunge ad abbracciare (e a fondersi) con quanto ribadito da Gentiloni e Letta (Enrico). D’altra parte, a proposito di realismo capitalista, se il settore dell’automotive e della transizione all’elettrico non decolla, il vuoto deve poter essere riempito da qualcos’altro: chip, difesa, intelligenza artificiale e via dicendo. L’importante è condire il tutto con un po’ di retorica chiamando in causa il Piano Marshall e la necessità di uno sviluppo coeso.
L’Italia può interpretare un ruolo fondamentale in questo nuovo assetto europeo: produzione ed esportazione di armamenti, un settore in cui il nostro paese riesce a dire la sua con autorevolezza.
Con buona pace della Costituzione.

Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/politica-in-stallo-ci-saranno-i-draghi-viola

Natalità con precarietà, il nodo gordiano di Giorgia Meloni – Atlante Editoriale

Primo Def (cioè il Documento di economia e finanza) per il governo guidato da Giorgia Meloni a 173 giorni dal giuramento davanti al Presidente della Repubblica al Quirinale.

Il Consiglio dei ministri ha approvato il documento e presentatolo durante la conferenza stampa di martedì 11 aprile alla presenza della Primo ministro Giorgia Meloni e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

Cuneo fiscale sì, forse

O meglio, non nel breve termine. Secondo le intenzioni del Governo il famigerato “taglio del cuneo fiscale” (ormai una Fata Morgana che aleggia minacciosa al di sopra di ogni esecutivo da un paio di decenni a questa parte) dovrebbe poter avvenire ma «con un provvedimento di prossima adozione» come pure recita il comunicato pubblicato dal Governo a margine della conferenza stampa. «Nel breve termine, si opererà per sostenere la ripartenza della crescita segnalata dagli ultimi dati, nonché per il contenimento dell’inflazione – si legge nel comunicato –. Il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento di prossima adozione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre 3 miliardi a valere sul periodo maggio-dicembre di quest’anno». Da dove derivano quei soldi? Secondo l’adagio bizantino-economicista, proverrebbero della divaricazione che si aprirebbe tra deficit tendenziale e programmatico. L’interstizio, cioè, tra il 4,25% e il 4,5% del Pil.

La replica della stampa, in particolare di «Repubblica» di mercoledì 12 aprile, è netta:

«Provvedimenti gravosi e per adesso senza copertura, a meno che Meloni non scelga di aprire un clamoroso fronte con l’Europa sul deficit, sforando la soglia del 3,7% proprio nell’anno in cui entra in vigore il nuovo patto di stabilità. Improbabile, rischiosissimo. L’alternativa è trovare all’interno del bilancio le risorse per coprire le promesse elettorali. Tradotto: risparmi di spesa e, quindi, tagli» [1].

Poca scelta, sembrerebbe, a leggere Tommaso Ciriaco e Valentina Conte.

Ripasso: cosa significa “cuneo fiscale”?
L’espressione sta ad indicare – in estrema sintesi – la differenza tra stipendio lordo e netto percepito dal lavoratore. Cioè la somma di imposte che gravano sul costo del lavoro sia da parte del datore di lavoro (azienda privata o stato), sia rispetto ai lavoratori autonomi o liberi professionisti, nonché sui lavoratori dipendenti. È uno degli argomenti su cui le maggioranze si sgretolano e diventano fluide [2], su cui si cerca il consenso e che viene proferito dalle labbra dei capi di governo a mo’ di cinghia di trasmissione con l’elettorato. Almeno, da quando s’è iniziato a chiamarlo così.

Pil e coperta corta
I lettori di «Atlante» avranno letto l’attenzione che il nostro giornale ha riservato alla Legge di bilancio di fine 2022. Nel corso di quei mesi convulsi, in cui si sospettava lo spettro dell’esercizio provvisorio, il governo rilasciava dichiarazioni alla stampa asserendo l’improbabilità di poter (o dover) turbare mercati e istituzioni europee. L’importante era rassicurare, anche perché la coperta era proverbialmente corta, come ebbe a dire – ripreso dai giornali più venduti nel Paese in quel periodo – il ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ceriani: 

«Purtroppo abbiamo una finanziaria con pochi spazi di manovra, ma il governo ha l’ambizione di durare cinque anni».

I margini sono stretti ma i dati e le previsioni sul Pil sembrano rassicurare Meloni, governo e maggioranza, sebbene venga dato «in frenata» [3]: 

«Se infatti il Pil di quest’anno viene rivisto in leggera crescita, all’1% come obiettivo programmatico rispetto allo 0,6% fissato lo scorso novembre e allo 0,9% tendenziale, per il 2024 la correzione è invece al ribasso: l’obiettivo di crescita è posto infatti all’1,5% contro il precedente 1,9%» [4].

Pareri positivi giungono dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Alberto Quadrio Curzio, intervistato da Claudio Landi di «Radio Radicale», per cui le percentuali del prodotto interno lordo configurano tre dati molto importanti. Il Presidente ha affermato:

«Il primo fattore [è quello legato alla] manifattura: va bene e continua ad esportare […]; secondo: i servizi e il settore del turismo stanno andando benissimo, recuperando e superando i dati del 2019; terzo: la carenza di manodopera è evidente e la quantità di posti da occupare, soprattutto nel settore dei servizi, è impressionante» [5]. Sarebbe da indagarsi sul “come”, ma questa è un’altra storia. Per Quadrio Curzio, ad ogni modo, c’è anche un altro fattore riguardo il rapporto deficit/Pil per cui se dovesse venir prefigurato attorno al 4,3%, sebbene «sia presto per dirlo», bisognerà vedere cosa accadrà dopo.

E il “dopo” si chiama: rinnovo del patto di stabilità con l’Ue e Pnrr, per cui (a proposito del piano di ripresa e resilienza) il presidente dell’Accademia dei Lincei non va oltre la definizione di «grosso problema per il governo» [6].

Natalità
«Dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate», ha detto la Presidente Meloni in conferenza stampa, sebbene di questo tema non vi sia traccia nel comunicato ufficiale diramato dagli uffici di Palazzo Chigi [7]. Dunque il tema è rimandato alla prossima legge di bilancio: fine 2023. Nessuna traccia, si diceva, ma il tema viene ripreso dai quotidiani e dalle agenzie che si involano in titoli ed articoli a riguardo, a cui sono seguite le reazioni della politica plaudente.

Rimane l’incognita del “come” – e lo si vorrebbe fare proprio a partire da questa sede – magari ponendo l’attenzione alle dichiarazioni dei componenti del Governo, in primo luogo parafrasando le parole del Ministro Valditara che dava per scontata la denatalità tendenziale dei prossimi anni. Dunque annunciando meno assunzioni di insegnanti. Che ci siano più linee nel governo e che, come tutti i Salmi che finiscono in “Gloria”, poi spetti a Meloni trarre la sintesi giornalistica, politica e mediatica, parrebbe evidente. Resta difficile conciliare entrambe le posizioni per cui non pare ci sia stato gruppo parlamentare che abbia sollevato l’aporia che prevederebbe l’annunciato (futuro) incentivo alla natalità con il mancato investimento conseguente, o il quadro del lavoro precario permanga immutato. Non un fattore secondario.

Certo è che il dibattito a riguardo è tutto da rimandare al potenziale scontro che prefigurava «Repubblica» di mercoledì e il presidente Quadrio Curzio. Hic Rhodus, hic salta!

Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-natalita-con-precarieta-il-nodo-gordiano-di-giorgia-meloni/

Note:
[1] E che, ad ogni cambio di governo, ne dà per certa la cesura. Mario Sensini sul «Corriere della Sera» dell’11 gennaio 2020, riportando le parole dell’attuale sindaco di Roma, allora ministro, Roberto Gualtieri, dava per imminente tale taglio.
«Lo ha detto ieri il ministro dell’economia Gualtieri, alla Camera, annunciando, tra l’altro, l’imminente varo del decreto sul taglio del cuneo fiscale (circa 500 euro in più nel 2020 ai dipendenti con redditi fino a 35mila euro lordi)»
Mario Sensini, Gualtieri: entro gennaio decreto sul taglio al cuneo fiscale, 11 gennaio 2020, «Corriere della Sera».
[2] Tommaso Ciriaco; Valentina Conte, Risorse azzerate per pensioni e flat tax. Ora tagli o altri debiti. Europa in allerta, 12 aprile 2023, «la Repubblica».
[3] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[4] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[5] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».
[6] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».

I nodi da sciogliere tra benzina e Pnrr – Atlante Editoriale

Appare proprio lì, vicino al cursore del mouse tra le inserzioni pubblicitarie più invasive che esistano (di cui sono zeppi i siti web dei quotidiani italiani). Tra un annuncio sulle salvifiche proprietà dello zenzero contro la pellagra o la pertosse e uno riguardante gli acari sui cuscini rigorosamente in caps lock, ri-compare anche quello del 2019 di Giorgia Meloni. Lontanissimi i tempi attuali in cui si cura ogni aspetto della presenza online: il video ritraeva Giorgia Meloni intenta a fermarsi con la macchina per una sosta di rifornimento discutendo delle accise sulla benzina. 

La grande stampa nazionale e le agenzie stanno rilanciando il video da giorni perché il 2023 ha portato in dote una notizia che, in realtà, appare ciclicamente nel panorama politico italiano, economico e giornalistico d’Italia: il caro-benzina.
Solo che, stavolta, c’è di mezzo la Presidente del consiglio dei ministri e la gestione della propaganda prima del giuramento di ottobre 2022: il video è tornato ad essere molto condiviso ed è nuovamente rimbalzato nei social media. 

«È una vergogna che di 50 euro di rifornimento, 35 vadano allo stato», tuonava l’allora candidata di Fratelli d’Italia, per poi scagliarsi contro le accise imposte «da quando è stato inventato il motore a scoppio» che avrebbero influito sul prezzo finale.
Luca Squieri (Forza Italia), intervistato da «Radio Radicale», mette le mani avanti e precisa: «È utile ricordare che la manovra è stata realizzata in un periodo ristretto e due terzi delle risorse sono andate al caro bollette. Nell’ambito degli interventi precedenti c’era anche lo sconto carburante e dispiace vedere come sia venuto meno ma è stato legato alla necessità di far tornare i conti: purtroppo non c’era la copertura rispetto a quello che sarebbe stato il costo»

Anche perché ad ogni modo il “taglio delle accise”, come giornalisticamente viene annunciato, non era comunque nei programmi del Governo: «Dobbiamo auspicare che le dinamiche economiche del 2023 vadano meglio – e su questo c’è un buon auspicio – in modo tale da poter ripensare il Governo sulla diminuzione delle accise. Desiderio di tutti, ma devono verificarsi le condizioni compatibili. Non si tratterebbe di aumento delle accise ex-novo [il conseguente aumento dei prezzi] ma il venir meno di uno sconto straordinario che era stato introdotto».
Lo ha ribadito anche Giovanbattista Fazzolari a «La Repubblica»: «Non è in discussione la reintroduzione di uno sconto sul carburante» anche perché, sempre secondo il sottosegretario, il prezzo a 2,5€ al litro sarebbe una notizia falsa: «sono un pendolare e la benzina è a 1,8€» [1].
La quotazione per barile di petrolio, ad oggi, è fissata attorno ai 75 dollari statunitensi e si avvicina sempre di più quello che era stato definito «lo spettro dei 105 dollari al barile» diffuso da Goldman Sachs nell’aprile del 2005, anche se il prezzo del carburante alla pompa nel quarto trimestre di quell’anno era di 1.261,92€/l [2]. 

La grande stampa nazionale punta il lettore a far guardare il dito anziché la luna, mirando in basso piuttosto che all’analisi complessiva della questione e magari provando a spostarne il piano delle discussioni e dei dibattiti e, cioè, che il Governo Meloni si conferma in linea con quanto dichiarato (e desiderato) più volte dalla Commissione Europea.
Non stravolgere i mercati e non cedere a provvedimenti che non avrebbero potuto essere sostenuti dalla proverbiale coperta corta della Legge di bilancio. Questa è la linea che segue e che seguirà il Governo. Lo aveva detto anche il Ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ceriani nel mese di dicembre: «Purtroppo abbiamo una finanziaria con pochi spazi di manovra, ma il governo ha l’ambizione di durare cinque anni».

Lo scontro che si andava prefigurando all’indomani del giuramento del governo Meloni tra Fd’I e Unione Europea è ben lungi dal verificarsi. Mettersi di traverso con la finanza è cosa grossa e Meloni non ha la minima intenzione di infastidire i mercati. Lo sa bene Ursula Von der Leyen che, in visita in Italia nei giorni scorsi, si è complimentata con la Presidente Meloni: «È stato un piacere incontrarla. In visita della prossima riunione del Consiglio abbiamo discusso di come continuare a sostenere l’Ucraina; garantire un’energia sicura e accessibile; aumentare la competitività dell’industria UE; fare progressi sul patto per la migrazione. Abbiamo anche discusso dell’implementazione del Pnrr in Italia».
Già, il Consiglio europeo: la seduta straordinaria è stata fissata per le giornate del 9 e 10 febbraio e sarà dedicata ai temi dell’immigrazione e dell’economia per cui il Governo può tirare un sospiro di sollievo almeno per uno dei due temi che saranno oggetto dell’assemblea.
Entro quella data il Governo Meloni dovrà dimostrare che i capitoli di spesa e gli “obiettivi” del Pnrr: 149 solo per il 2023.
Basta non centrarne uno e salterebbero le «due nuove rate da 19 miliardi ciascuna»[3].
I consigli, le raccomandazioni, dell’Ue nei confronti dell’Italia nel corso di quest’anno saranno cruciali per lo sviluppo e il fluire del governo. Burrascoso o meno si vedrà. 

Note: 

[1] Serenella Mattera, Il governo nell’angolo teme la crisi di consensi. Sulle accise è scontro, 10 gennaio 2023, «La Repubblica». 

[2] Prezzi medi annuali dei carburanti e combustibili – Statistiche energetiche e minerarie – Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (mise.gov.it) 

 [3] Dino Pesole, Pnrr, Mes, competitività: l’intreccio dei dossier, 10 gennaio 2023, «Il sole 24 ore».

Più Europa o più nazionalismi/sovranismi? È la domanda che è sbagliata

Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo di Natale Salvo pubblicato su Pressenza il cui titolo era: “Elezioni 2019, Europa al bivio: più Europa o più nazionalismo?”. Ho avuto modo di interagire con lui, facendo parte della stessa redazione, spiegandogli le ragioni della mia contrarietà ad alcune sue parole d’ordine e frasi ricorrenti nel post come queste:

«[…]L’Europa è lontana dall’essere perfetta, ma non è neanche quel buco nero che tutto distrugge come viene descritta da certuni. Senza dubbio, sono evidenti i benefici ottenuti da alcuni settori e in numerose regioni grazie alle azioni politiche condotte da Bruxelles»

e ancora:

«Gli errori dell’Unione Europea: poca Europa, solo Mercati». 

Due questioni che aprono due dibattiti apparentemente paralleli ma in realtà convergenti e sovrapponibili: l’Europa, intesa come entità etnico/geografica e la costituzione dell’Unione Europea così come la conosciamo e per come si è sviluppata nel corso degli anni. Traggo spunto, dunque, dalle riflessioni messe per iscritto da Natale per produrre a mia volta delle considerazioni che partiranno da lì ma che esuleranno dal suo scritto per analizzare degli aspetti a mio avviso rilevanti.

Un conto è la geografia, un conto la politica
L’Europa come entità geografica è un qualcosa a cui nessuno può o intende opporsi o negarvi un’appartenenza. Se si rimane nel seminato delle considerazioni geografiche è facile dire che anche io, da antieuropesta, mi potrei sentire “europeo” dal momento che l’Italia condivide una porzione di un Continente con altri Stati. Ma finisce lì. Al netto delle considerazioni storiche riguardo il Vecchio continente. La questione è che si è voluto dare, e la stragrande maggioranza delle persone vi ha indubbiamente abboccato, una risposta cosmopolita a questa oggettiva speculazione geografica:

«[…] il cosmopolitismo prescide dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato ad una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che qesto può offrire, sia un’ampia libertà di movimento al di sopra dei confini statali» (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.20., 2018, Imprimatur).

Cercare di sfruttare questa ovvietà geografica per rimarcare la necessaria coesistenza e traslare il tutto in “ovvia strutturazione di una sovrastruttura sovranazionale” come l’Ue, è un atto politicamente torbido e intellettualmente disonesto.
Così come, allo stesso modo, contrapporre una risposta binaria (sì/no, pro/contro) ad una questione estremamente complessa come l’Unione Europea.

Sempre più spesso si ascoltano discorsi per cui o si è assolutamente aderenti con l’Ue e con tutto quel che ne consegue, altrimenti si è nazionalisti, salviniani, leghisti e fascisti. La generazione più colpita da questo colossale fraintendimento è la precedente a quella di chi scrive: i nati nel corso della Guerra Fredda, infatti, dopo aver attraversato la dissoluzione dell’Urss, la distruzione del Partito comunista e socialista in Italia e negli altri Paesi, hanno vissuto nell’illusione tutta positiva dell’abbattimento delle frontiere come carattere individualistico e ottimamente propulsivo della conoscenza del mondo. Una risposta cosmopolita, per dirla nei termini di Domenico Moro, ad una esigenza del capitalismo di riaffermarsi in tutto il globo, una volta venuto a mancare il blocco orientale e i paesi del Patto di Varsavia. Affermare un’europeismo oggettivo, geografico, non significa, però, essere supinamente pro-Ue: la distinzione è enorme e il fraintendimento causato dalla sovrapposizione di questi due piani ha creato una generazione la cui aspirazione massima è la conoscenza cosmopolita del mondo ad essa prossimo, intesa nel senso prima esposto. E ancora, sviluppando una tendenza al non c’è alternativa, il cosiddetto Tina (There is no alternative): il sentimento della mancanza d’alternativa, del contrappeso – se vogliamo – della presenza di un altro sistema economico, politico e sociale, ha fatto apparire come unica e necessaria la strutturazione della sovrastruttura dell’Unione europea.

«Non c’è ancora integrazione: dobbiamo avere più Europa!»
La menzogna concatenata al discorso fin qui esposto («sono nato in Europa, dunque sono automaticamente europeista-filo-Ue e filo Uem – Unione europea monetaria») è quella per cui si accetta la linea dell’Ue ma con riserve ma non nel senso di critiche all’impianto a-democratico della struttura sovranazionale così com’è, ma in quanto servirebbe una maggiore integrazione dei paesi membri dell’Unione affinché si consolidi la cosiddetta europa politica.

Il fatto che sia stata creata prima l’Europa del capitale, l’Europa finanziaria, di quella politica, non rappresenta un errore o una scelta affrettata, quanto proprio una scala di priorità di chi ha fatto in modo che si procedesse in tal senso. Criticare l’Ue significa, almeno per chi scrive, essere coerentmenete antieuropeista nella misura in cui essere europeisti significhi e si traduca con giustificare e appoggiare tutte le politiche che sono state realizzate fino ad ora, anche nei confronti di chi – velatamente – critica tale impianto perché there is no alternative (Tina).

Anche perché, citando sempre il libro di Domenico Moro, integrazione europea si tradurrebbe in «riogranizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale»:

«[…] Il combinato disposto di crisi, globalizzazione e integrazione europea, oltre a bruciare milioni di posti di lavoro, ha eliminato migliaia di imprese e di unitò produttive. L’euro, infatti, ha favorito la centralizzazione dei capitali europei, mediante fuzioni e acquisizioni tra imprese, in modo che queste potessero raggiungere dimensioni pari a quelle dei grandi gruppi statunitensi e asiatici. Ma non basta: il prossimo passo dell’integrazione europea è la creazione del mercato unico dei capitali, la cui premessa è l’unione bancaria. La riforma bancaria europea ha provocato il fallimento di molte banche, scaricandone i costi, mediante l’introduzione del bail in, sui risparmiatori che vi avevano investito, e favorito la centralizzazione anche a livello bancario. Lo scopo è, da una parte, realizzare un mercato dicapitali adeguato alle necessità espansive e di aquisizione dei grandi gruppi, e, dall’altra, favorire la quotazione in borsa e l’aumento dimensionale delle imprese, in sintesi attuare la riorganizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale». (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.25, 2018, Imprimatur)

È la domanda iniziale ad essere sbagliata
La domanda posta, in ultima analisi, fra la necessità di una maggiore richiesta di Europa o una risposta nazionalista/sovranista, è sostanzialmente sbagliata. Porre in questi termini la questione significherebbe lasciarsi attraversare dalla retorica dei grandi gruppi editoriali, al soldo del capitale transnazionale, e della propaganda pro-Ue. Il solo fatto che ci possa essere, da sinistra o ancora più precisamente da marxista, una critica netta al liberismo, all’euro e all’Unione europea così come si presenta ai nostri occhi, fa sì che la reazione sia scomposta e si inneschino dei discorsi di rossobrunismo che, oltre alla loro risibilità, lasciano davvero il tempo che trovano.
Alla grande stampa, tuttavia, interessa che vi siano solo due posizioni che emergano nell’agone politico nazionale: da una parte quella pro-Ue (Partito democratico, Radicali, +Europa etc), dall’altra la retorica anti-Ue da destra (Lega, Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle) i quali vorrebbero, comunque, un ritorno al sovranismo solo per favorire momentaneamente una piccola porzione di capitalismo nazionale che, nel frattempo, ha delocalizzato lasciando disoccupati migliaia di lavoratori “in patria”.

“Sei anti-Ue? Allora, voti Salvini”
Una delle [tante] altre risposte a tutto questo è la più geniale (diciamo così) di tutte, quella che sta facendo riemergere la questione antifascista agli (orrori) delle cronache politiche quotidiane: essere antieuropeista si tradurrebbe, agli orecchi di chi ascolta o agli occhi di chi legge, immediatamente, in un velato sostegno a formazioni neofasciste. Anche inconscio, ovviamente, che prima o poi riemergerà con tutta la sua forza. L’antifascismo che sta emergendo adesso, infatti, rappresenta una formazione di facciata di fronte al giornalismo d’accatto e parimenti uno scalpo da ostentare nei confronti della dilaniata opinione pubblica italiana.

Dichiararsi antifascisti perché (ormai l’adagio è passato) in Europa dopo la guerra ci sono stati 70 anni di pace rappresenta, in sé, una bella [e grossa] bugia.
Prima di tutto perché la guerra c’è, è stata ed è anche alle nostre porte: Jugoslavia e Ucraina, tanto per citarne solo due. Non proprio territori remoti. Senza, poi, contare di tutte le missioni militari che – ad esempio l’Italia – i paesi Nato promuovono: Afghanistan, Iraq, Libano, Niger e la lista è molto lunga.

In secondo luogo perché l’antifascismo è, di per sé, un’azione politica (oserei dire un programma politico, dato che ha prodotto la Costituzione della Repubblica Italiana, prima che essa venisse modificata nel corso del Governo Monti) che prescinde dall’appoggiare sovrastrutture che nessuno ha eletto ma che, attraverso un auto-mandato, governano su quel che rimane degli stati nazionali: antifascismo è anticapitalismo, necessariamente. Tertium non datur.
Ecco, però, emergere un antifascismo in seno alle classi dominanti le quali, non riuscendo più a contenere gli istinti bestiali del liberismo, a seguito della globalizzazione post dissoluzione sovietica, fanno appello alle classi popolari e subalterne per poter creare una sorta di “fronte comune” contro la paura, la xenofobia, il razzismo, il fascismo.
La socialdemocrazia europea, infatti, sta recitando questo copione da svariati anni e il sipario sta per calare su di essa. Il deputato umanista cileno Tomas Hirsch, a riguardo, ha dato una spiegazione magistrale del perché la socialdemocrazia è in crisi, tanto in America latina (in particolar modo nel suo paese), quanto in Europa:

«La socialdemocrazia sta scomparendo in Europa e sta scomparendo in America Latina per una ragione molto semplice: tra una brutta copia e l’originale, la gente ha preferito l’originale. […] Non è possibile cercare di “migliorare” il modello [neoliberista ndt], “umanizzarlo”, “ritoccarlo”: o sei per questo modello individualista, o sei per un cambiamento strutturale profondo della società che garantisca diritti alle persone. La socialdemocrazia non è né per uno, né per l’altro».

E non è vero che non c’è alternativa. Solo, non se ne parla, si annichilisce, si osteggia aprioristicamente con il Tina, non ci viene mostrata, un po’ come per il Mito della caverna di Platone.