Il socialismo tra la metro C e i benzinai di Torre Spaccata

Mercoledì 31 ottobre. Vado a fare rifornimento di benzina alla stazione della Q8 costruita di recente su Via di Torre Spaccata, di fronte un concessionario. C’è fila alle pompe: mi metto diligentemente dietro ad una Twingo nera il cui proprietario indugia forse un po’ troppo nelle operazioni di rimessa a posto della pompa e chiusura del piccolo sportello a lato della macchina.
Il tizio finisce il rifornimento e io metto in moto per andare più avanti e iniziare a mia volta la stessa procedura; nel momento in cui procedo lentamente cercando di allineare lo sportelletto della mia macchina il più possibile con la pompa verde della benzina, mi si avvicina un benzinaio, facendo cenno con la mano di avanzare ancora.
«Cos’è quella striscia che hai sul vetro?», mi dice il benzinaio con evidente accento dell’est indicando la macchina. Stanco della giornata di lavoro, mi avvicino al vetro dell’auto e noto la striscia, di cui quasi mi stavo dimenticando: dietro allo specchietto retrovisore ho appoggiato e legato una Striscia di San Giorgio, di quelle che vengono distribuite in Russia (prima in Urss) durante la parata del Giorno della Vittoria (Parad Pobedy).
In uno stentatissimo russo, comincio a dirgli
«Eh! Den Pobedy (giorno della vittoria)!»
«Da! Parad Pobedy!»
«Ya ne govoryu po-russki, znayu citiri slova (Sì, ma io non parlo russo: so dire solo 4 parole!)», gli dico io un po’ imbarazzato. Lui, però, non si scompone e in italo/russo mi dice: «Ma io da! Ma io sì: ho fatto dodici anni di esercito in Russia. Ho partecipato anche a parate, ecco perché ti ho chiesto della striscia: non mi sembrava possibile che uno a Torre Spaccata avesse il nastro della parata della vittoria».
«Da dove vieni?», gli chiedo interessatissimo, «Da Chisinau, la capitale della Moldova. Ti ho puntato da lontano, da quando stavi in fila dietro la macchina nera: avevo visto il nastro e ho detto ma ho visto bene o male? e invece avevo visto bene».
Era felicissimo, ma nel mentre si era formata una lunga coda alle pompe di benzina: lo saluto senza neanche presentarmi e senza chiedere il suo nome.
Qualche tempo fa (il 7 marzo 2017), invece, avevo incontrato Valentino, un suo connazionale, sulla metro C. Anche lui moldavo, anche lui ricordava con orgoglio i giorni in cui apparteneva al Komsomol, la giovanile comunista.

Uomini, compagni, fratelli

il distintivo del Komsomol
Salgo sul treno in direzione Lodi, procedo verso i vagoni iniziali e mi siedo tra un signore anziano e una signora anch’ella con cuffie ben salde dentro le orecchie. Il signore a fianco a me legge un giornale, uno di quelli che danno sui mezzi di trasporto. La musica mi ovatta e mi esclude tutto il mondo circostante ma quel signore alla mia sinistra vuole parlare con me: vedo che mi rivolge la parola, dunque mi levo prima una e poi l’altra cuffia.
«Posso farle una domanda? Scusi. La disturbo?», dice cortese. L’accento, i denti d’oro tradivano una provenienza est europea, forse ucraino, pensavo inizialmente.
«Certo, mi dica, non mi disturba». Il tizio indica col grosso indice della mano destra il minuscolo distintivo che ho attaccato sullo zaino ormai dal 5º ginnasio: «quel distintivo ce l’avevo anche io tanto tempo fa. È quello del Komsomol, sa cos’è?». 

Mi si illuminano gli occhi: «Certo – rispondo – l’ho messa ormai un po’ di tempo fa.. Ce l’aveva anche lei?»

«Beh sì, tutti facevano parte del Komsomol: l’organizzazione liceale comunista. I più piccoli erano.. Come si dice… Figli di Ottobre “Oktoberskaja”, poi i Pionieri i “Pionerskaja” e poi c’era il Komsomol. Facevamo un sacco di cose e ne apprendevamo altrettante. Era un bel periodo. Ero comunista, tutti lo erano..» e le sue rughe sul volto facevano trasparire un poco di amarezza e di tristezza per “com’erano andate le cose”. Le fermate passano veloci una dopo l’altra, dobbiamo andare entrambi al capolinea, parliamo ora del più e del meno: mi indica il giornale che sta sfogliando polemizzando:
«Sei giornalista? A proposito di giornali: qui questo giornale si fa bello perché dice sono aumentati i controlli sui mezzi pubblici e che ci sono molte più multe per chi non paga, ma come si fa a scrivere così? Io non ho mai visto un controllore e se ci sono, certo, magari qualche multa la faranno anche ma poi vengono pagate? Questi dati mica li scrivono». 
Scendiamo a Lodi, gli tendo la mano per presentarmi: Valentino, lo pronuncia all’italiana.
«È studente?», continuando a darmi del lei. «Sì, studente universitario», faccio io. 
«Auguri, buona fortuna – dice – anch’io ero studente universitario, mi sono laureato e sono diventato preside di un liceo» ma dal 2000 è qui in Italia e ha fatto i più disparati mestieri, muratore in primis, come tanti dell’est Europa prima e dopo di lui. 
Mi chiede di cosa mi occupassi, gli rispondo che mi occupavo anche di sport e che recentemente ho scritto un libro con un collega che parlava di Yashin e del calcio nel comunismo. 
«Yashin…», gli occhi si illuminano. «Quello era calcio.. ma quello di adesso ti sembra calcio? A me sembra uno schifo..».
Gli indico dove si prende il 51, autobus che devo prendere anch’io per andare alla conferenza dove sono stato incaricato d’andare. Ci mettiamo a parlare di Chechov, Dostoevskij, Gogol’ e dopo un momento di silenzio, mi fa: «Sai cos’è che rendeva saldo, stabile, vivo, il comunismo? Non come qui, questa società… come si chiama.. capitalismo!», dice dopo un secondo di incertezza.
«La convinzione che rendeva saldo il sistema, che era realtà, era che l’uomo, nei confronti di un altro uomo, era compagno, amico e fratello. Quando c’era il comunismo da me, in Moldavia, ci dicevano che nel capitalismo l’uomo era lupo per un altro uomo (homo homini lupus) e, davvero, non riuscivo a comprendere questa frase. Ora è dal 2000 che sono qui e ho capito perfettamente». 
«Certo – ormai è un fiume in piena – dopo la caduta del comunismo la gente si diceva che era felice ma chi lo era? Era felice era solo quella che prima aveva soldi e doveva – per forza di cose – mettere al servizio del paese quello che aveva. Io ero molto triste, sinceramente. Guadagnavo poco, quando lavoravo, però prendevo dei soldi. Avevo anche borsa di studio e casa, da studente. Tutto. I giovani qui non hanno nulla». 
Scende dal 51 e lo saluto rammaricandomi un poco: «Do svidanija, tovarich», scandisce scendendo lo scalino, «spero di rivederti presto! Auguri per tutto». 
E se ne va. 
Il socialismo era davvero come l’universo: in espansione.