È l’apparato che (non) cambia nella forma e nel colore – Atlante Editoriale

Margine ampio ma non schiacciante, c’è già chi si è affrettato (eccessivamente, ad avviso di chi scrive) a parlare di “rivoluzione politica interna”. Finisce 53,8% a 46,2% per Elly Schlein, al secolo Elena Ethel Schlein, vice presidente dell’Emilia-Romagna, nata in Svizzera ma anche «nativa democratica», per citare la risposta che fece discutere in diretta da Gruber a “Otto e mezzo” per cui la giornalista le chiese se si dichiarasse comunista. La risposta che ne seguì fu il balbettìo che poi fece il giro delle agenzie stampa:

«Sono una nativa democratica ma [lo sono] per ragioni anagrafiche: sono nata nel 1985 e non ho potuto aderire al Partito comunista italiano».

Il giorno seguente Michele Prospero su «Il Riformista» scrisse quello che circolava nella ‘vox populi’ dell’opinione pubblica a seguito di quanto detto da Schlein: 

«Lei che è venuta al mondo dopo Locke, Constant, Tocqueville non potrebbe dare un giudizio valutativo neppure sul liberalismo. E una stizzita astensione, nel classificare le cose e i movimenti politici, dovrebbe dichiararla anche sulle correnti democratiche o autoritarie sorte prima del fatidico 1985, quando matura il tempo del giudizio» [1].

Outsider?

Ribaltato il voto dei circoli: il parziale era del tutto favorevole al presidente emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini. C’è sempre una prima volta, anche per il Partito democratico: dalla prima tornata relativa alle primarie non era mai capitato che un segretario, più votato tra i circoli, non risultasse, poi, il segretario eletto.

Da più parti sulla stampa nazionale s’è parlato di ‘outsider’ (riguardo Schlein) per il Pd, non avendo ri-preso la tessera del partito al momento dell’elezione alla Camera dei Deputati. Ma è davvero così? 

 

La risposta potrebbe essere negativa e monosillabica. Il ‘volto nuovo’ del Partito democratico ha in Francesco Boccia il proprio coordinatore della mozione. Esponente di lungo corso, tutt’altro che “volto nuovo”, il senatore, già deputato di “Democrazia è libertà” (cioè “La Margherita), già ministro per gli affari regionali nel Governo Conte II, al «Corriere della Sera» di lunedì 27 [febbraio 2023] dice: «Schlein lavora per unire i progressisti, per tenere insieme per la prima volta la sinistra larga» ma anche «la rottura dell’alleanza coi 5 stelle ci ha fatto perdere le elezioni» [2] e il senatore punta alle elezioni europee.

Se non basta il nome di Boccia a suffragare l’ipotesi della non-novità di Schlein per il Pd, ci pensano i nomi che circolano per la composizione della sua segreteria per cui potrebbe esserci spazio per gli esponenti di Mdp-Articolo1 (Stumpo e Scotto): usciti e rientrati. Come la stessa neo-segretaria, d’altra parte: da occupante (simbolica, ça va sans dire) della sede del partito nel 2012 a fuoriuscita col gruppo di Civati, per poi fondare l’ormai celeberrima “Emilia Coraggiosa” che ha corso in alleanza con Stefano Bonaccini alle precedenti regionali. Ci sarebbe posto anche per la comasca Chiara Braga (deputata alla quarta legislatura) e per Marco Furfaro, escluso sia da Sel che dall’esperienza della “lista Tsipras”, ora potrebbe riuscire a trovare la sua collocazione.

Guai a chiamarlo “apparato”…
Stando a quel che scrive Lorenzo Salvia sul «Corriere» la neosegretaria pare abbia riferito che non avesse assicurato nulla né a Romano Prodi, né a Dario Franceschini o Nicola Zingaretti, né ad Andrea Orlando in caso di una sua vittoria. Certo è che lo stesso segretario dimissionario Zingaretti ha sostenuto Schlein fin dal 30 gennaio, così come Romano Prodi ha manifestato fin dalle prime battute il proprio apprezzamento per la nuova esponente ‘giovane’ (sebbene sia alla soglia degli -anta) tornata in seno al Partito democratico dopo l’esperienza con Possibile.

…ma anche “guai” a chiamarla rivoluzione
Schlein si è affrettata a considerare la vittoria della sua mozione «una piccola rivoluzione» [3] per il Partito democratico. La parola ormai è maneggiata da chiunque (si pensi a Gianfranco Rotondi e alla sua formazione politica “Rivoluzione cristiana”), tuttavia stride fortemente l’accostamento alla pratica di sovversione dello stato di cose presenti con quanto realizzato dalla stessa segretaria: rientrare nel Partito democratico e accasarsi con una porzione d’apparato per tentare la scalata non rappresenta certo la vittoria delle masse quanto piuttosto il prevalere di un piccolo interesse di parte.

A tal proposito vale la pena rammentare al lettore cosa disse in un confronto informale (ma diventato allora virale su internet e sulla maggior parte dei social media) con Matteo Salvini a San Giovannni in Persiceto durante le regionali in Emilia Romagna. L’allora ‘cavallo buono’ del centrodestra impiegò 80 secondi netti per rispondere all’esponente della lista “Coraggiosa” – e tentare di liquidarla – mentre la futura vice presidente di regione chiedeva come mai non si fosse presentato alle riunioni di commissione in sede europea riguardo i trattati di Dublino. La motivazione di tale incalzare è sintetizzato da quanto pronunciato da Schlein prima che Salvini si dileguasse: «Le norme si cambiano ai tavoli: è facile fare i tweet però quando c’è da cambiare le cose non vi si vede mai» [4].
Se le norme si cambiano ai tavoli, il senso ultimo della rivoluzione è svuotato fin dalle radici.

L’unica prospettiva è – come è sempre stata dalle parti di Via del Nazzareno – quella di rappresentare una parte consistente di sinistra liberale, continuando a non mostrare neanche come ‘legittima’ una posizione diversa dalla propria. Condannandola, perfino.

Prima separazione: si chiama “Tempi nuovi”

Le primarie sono un gioco al rialzo pericoloso, specialmente quando si è in un partito che ha fatto della privazione di identità e del “ma anche” la propria ragion d’essere. Le dichiarazioni di entrambi i candidati alla segreteria, però, nonostante il gioco al rialzo per apparire (anziché essere) diversi da come si comporteranno realmente, hanno causato fin da subito malumori in seno all’area cattolica.

A rompere per primo è l’ex ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni che, in un’intervista rilasciata a «Tv2000» ha affermato: 

«È un Partito democratico distinto e distante da quello che avevamo fondato […] che metteva insieme culture politiche diverse dalla sinistra al centro, con i cattolici democratici, i popolari e “la Margherita”. Oggi legittimamente diventa un partito di sinistra che nulla a che fare con la nostra storia, con i nostri valori e la nostra tradizioni». 

L’ex ministro ha poi proseguito: 

«Nel Pd rientrano Bersani e Speranza che erano usciti perché il Pd era troppo di centro ed oggi si trovano a casa loro in un partito di sinistra, noi costruiamo una nostra area per continuare ad essere orgogliosamente quello che siamo sempre stati».

La nuova ‘casa’ si chiama “Piattaforma popolare – Tempi nuovi” ma che non gli si dia la patente di partito, si chiama «network»:

«è il ‘network’ dei cattolici e democratici […] la casa di tutti quei popolari e cattolici che sono stati marginalizzati e allontanati sia dalle formazioni politiche di sinistra che da quelle di destra» [5].

La prima donna segretaria di partito: né Schlein, né Meloni

Dalla vittoria alle politiche di Meloni, alla scalata di Schlein, i quotidiani si sono sperticati in lodi tanto nei confronti dell’una quanto dell’altra esponente politica: la prima donna Presidente del consiglio dei ministri e leader di un’organizzazione politica e la prima donna segretaria di un partito di sinistra. Vale la pena ricordare che la primissima segretaria di partito si chiamava Adelaide Aglietta: nel 1976 successe a Gianfranco Spadaccia nella direzione del Partito radicale. All’età di 36 anni e con due figli (guai se allora le si fosse dato della “giovane ragazza” come più volte attribuito a Schlein nel corso dei notiziari televisivi e radiofonici) aveva ricevuto l’onore e l’onere di dirigere il Pr di Marco Pannella: «eletta all’unanimità meno un voto» [6], riporta il «Corriere della Sera» del 4 novembre di quell’anno.

E ancora: nel 2008 un’altra figura femminile di riferimento per una parte politica, quella della sinistra trotskysta, fu quella di Flavia d’Angeli: portavoce di Sinistra Critica, organizzazione in vita fino al 2013 [7] e tra le più attive della stagione della balcanizzazione della Rifondazione comunista post bertinottiana. 

Note:
[1] Michele Prospero, Se Elly Schlein punta alla segreteria del PD studi prima la storia del PCI…, 6 dicembre 2022, «Il Riformista».
[2] Monica Guerzoni, «È l’ora di nuove scelte. Rompere con il M5S ci è costato le politiche», 27 febbraio 2023, «Corriere della Sera».
[3] Redazione Repubblica Tv, Primarie PD, Schlein: “Abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione”, 27 febbraio 2023, «La Repubblica».
[4] Antonella Scarcella, Botta e risposta Schlein a Salvini: “Perché non venivate alle riunioni su Dublino?”, 21 gennaio 202, «Bologna Today».
[5] Redazione, Pd, Fioroni: “Partito di sinistra distinto e distante da noi. Nasce nuovo network cattolici”, 27 febbraio 2023, «Tv2000».
[6] s.n. La prima donna segretario di un partito, 4 novembre 1976, «Corriere della Sera».
[7] La conferenza nazionale del 2013 si divise in due documenti contrapposti con pari sostenitori e si decise per lo scioglimento. Ne nacquero due organizzazioni: Solidarietà Internazionalista (gruppo d’Angeli) e Sinistra Anticapitalista (Gruppo Turigliatto), il secondo è tutt’ora attivo e ha fatto campagna elettorale per Unione popolare alle elezioni politiche del 2022. 
 
Pubblicato su Atlante Editoriale https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/schlein-e-lapparato-che-non-cambia-nella-forma-e-nel-colore/

Libertà di stampa in Italia, il monopolio del Capitale *

La notizia è del 30 novembre [2019]: John Elkann starebbe tentando la scalata nel gruppo Gedi.  La Cir group spa (Compagnie industriali riunite), holding della famiglia De Benedetti, ha confermato: «Ci sono in corso discussioni con Exor [la holding lussemburghese degli Agnelli-Elkann] per una possibile operazione di riassetto», oppure come ha scritto «Repubblica», quotidiano di punta del gruppo, «la holding Cir è in trattativa con Exor per vendere la quota di controllo di Gedi». Senza contare il fatto che John Elkann è già vice presidente del gruppo.
Le vicende familiari di due lignaggi del tutto rilevanti del capitalismo italiano si riflettono sulle sorti dell’informazione nazionale.
Non c’è ancora nulla di certo, se non una fase di profonda interlocuzione tra le parti, cominciata – a quanto pare – a causa di litigi familiari dei De Benedetti. Secondo la ricostruzione del «Messaggero», oltre al tentativo di scalata degli Agnelli-Elkann ci sarebbe anche l’interesse di più parti ma non confermate, come il fondo Peninsula di Luca Cordero di Montezemolo e Flavio Cattaneo, così come del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré, a cui si rimanda all’articolo del 2017 di Marta Gatti pubblicato sulla rivista «Nigrizia».Gigante-Gedi: tre quotidiani e un crogiolo di testate
Numeri e nomi a parte, il Gruppo Gedi ed Exor hanno rispettivamente confermato il reciproco interesse nella fase di interlocuzione in atto e, se dovesse andare in porto l’acquisizione del gruppo, si parlerebbe di una scalata della Giovanni Agnelli BV già azionista per il 6,9% di Gedi. Al momento, come riportato da «Repubblica» in un articolo del 29 novembre [2019], il capitale ordinario della società è così suddiviso: «Cir 43,78% (pari al 45,753% della quota sul capitale volante), Exor 5,992% (pari al 6,262 della quota volante)».
Il gruppo editoriale in oggetto, tuttavia, non è solo «Repubblica», «La Stampa» e «Il Secolo XIX», che di per sé rappresenterebbe una fetta imponente dell’informazione, o come si è soliti dire in questi decenni disgraziati, del “mercato dell’informazione”. Rappresenta, tuttavia, anche una porzione imponente del flusso di notizie (senza calcolare tutti gli inserti dei quotidiani prima citati) che passano attraverso i giornali e periodici a diffusione nazionale e a pubblicazione settimanale, mensile o bimestrale, quali: «Il Tirreno», «Il messaggero» (Udine), «Il Piccolo» (Trieste) , «La Provincia» (Pavia), «Il Mattino» (Padova), «La Gazzetta di Mantova», «La Nuova Ferrara,», «La Nuova Venezia», «Il Corriere delle Alpi» (Belluno), «La Sentinella» (Ivrea), «La Tribuna» di Treviso, «La gazzetta di Modena», la «Gazzetta di Reggio» (Reggio Emilia)»; «L’Espresso», «National Geographic», «Mind», «Limes» «Le Scienze», «MicroMega», «Travellers» passando per le testate nazionali digitali come «Huffington Post Italia», «Mashable Italia», «Business Insider» e il portale «Kataweb» e senza contare le emittenti radiofoniche (Deejay, Capital, m2O). Un impero dell’informazione che può vantare 648,7 milioni di euro di ricavi.
 
RCS: l’occhio del Cairo
Andando ad esaminare gli azionisti di un altro colosso dell’informazione italiana, che da anni si contende il primato con Gedi, notiamo che l’azionista di maggioranza è Urbano Cairo col 59,831%, seguito da Mediobanca e da Diego Della Valle (rispettivamente aventi il 9,930% e il 7,624%), non meno importanti gli ultimi due azionisti: Unipol (4,891%) e la China National Chemical Corporation (4,732%). Il gruppo Rcs, tuttavia, rappresenta anche un colosso transnazionale detenendo «El Mundo», «Expansiòn» e «Marca» così come gestendo le seguenti pubblicazioni quotidiane a diffusione nazionale e digitale: «Corriere della Sera» (con relativi inserti «Economia», «La Lettura», «Corriere Salute», «Corriere Innovazione» e la Tv Corriere Tv),«Diritti e risposte», «La Gazzetta dellSport», «Buone notizie», «Il rumore della memoria» e il portale di Milena Gabanelli «Dataroom».
Le testate locali che fanno capo al gruppo sono: «corriere di Bergamo», «Corriere di Bologna», «Corriere di Brescia», «Corriere Fiorentino», «Corriere Milano», «Corriere Roma», «Corriere del Mezzogiorno», «Corriere Torino», «Corriere Veneto» senza contare i periodici cartacei e digitali (a cui si rimanda al link per evitare un lungo elenco che non porterebbe a molto).
Ultimo dato di rilevante importante, l’apertura della casa editrice Solferino, parte del gruppo stesso, ça va sans dire.
Se ci limitassimo a prendere in esame solamente i casi più grandi dei gruppi industriali legati all’informazione, ci si renderebbe presto conto che la libertà d’informazione è del tutto legata al profitto e ad interessi che tutto concernono tranne quello che dovrebbe guidare un quotidiano o un periodico. Fornire, cioè, una lettura di quel che accade, dare una propria interpretazione sui fatti, fornire la base per la formazione di una propria opinione in lettori che non sempre sono “addetti ai lavori” di quel che accade nelle stanze della politica o dei retroscena legati a questo o quel personaggio politico e avviare un dibattito che sia il più aperto e scevro dalle posizioni da “tifoseria” di questi ultimi venti/trent’anni.
La funzione della carta stampata è, nel corso degli anni, diventata del tutto altra rispetto a come la si intendeva negli anni ’80 o ’90, o come poteva essere quella di partito, quando questi non erano semplicemente dei comitati elettorali permanenti e attenti solo alla mediaticità del piatto di pasta mangiato dal leader su instagram o della foto con il tenero asinello postata su Facebook. Di fronte alla volontà di soppressione del finanziamento pubblico all’editoria, che certamente ha generato casi tutt’altro che onorevoli riguardo il suo utilizzo, l’informazione dell’Italia del 2000 rappresenta il prodotto della transnazionalizzazione delle imprese che traggono profitto dall’informazione e che gestiscono quotidiani e periodici in base all’utile che ne ricavano.
I giornali diventano, così, delle veline che molto spesso riempiono le proprie pagine di retroscena e di interviste ben calibrate a personaggi in cerca di ribalta o che devono porre in essere il proprio pensiero in articoli che spesso non arrivano al concetto e si limitano a rimanere sulla superficie delle cose. Il pensiero diventa unico ed è quello del capitalismo e dei suoi alfieri. Con buona pace di Giorgia Meloni che ritiene come il pensiero unico sia quello Lgbt. Il quotidiano resta un vettore di notizie le quali debbono, necessariamente, possedere notiziabilità altrimenti non presentano alcun margine di interesse da parte di chi la pubblica. E se non possiede interesse (leggi: possibile ritorno di profitto) per chi la pubblica, automaticamente non è da proporre al lettore. L’interesse delle aziende transnazionali ad avere un proprio gruppo editoriale sta nel fatto che, più o meno, i maggiori gruppi industriali di ogni paese hanno un legame con il mondo dell’informazione: la compenetrazione tra aziende, holding, banche, società assicurative e quant’altro, rende estremamente complicato il districarsi del lettore tra le pagine dei giornali e tra le notizie proposte: discernere la veridicità dei fatti con quanto accaduto nella realtà, formarsi un’opinione che non sia già nell’alveo di quelle già pre-confezionate dai quotidiani nazionali (e anche locali, come abbiamo visto) è molto complicato, per non dire impossibile.
L’interconnessione degli interessi dei gruppi industriali nel creare profitto là dove ci dovrebbe essere un interesse pubblico sovrasta qualsiasi buona intenzione, di cui la strada del capitalismo (non già del proverbiale inferno) è lastricatissima: le grandi acquisizioni da parte di aziende transnazionali od holdings rappresentano il volto più spietato della distorsione delle coscienze nel nostro paese. Non più formazione, bensì aprioristica distorsione. A questo si affiancherebbe il dibattito relativo al ruolo del giornalista, stante la situazione attuale, ma questa è un’altra storia.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6335