Il controllo sociale ai tempi del virus, nonché del “capitalismo della sorveglianza” *

Il «manifesto» di oggi [14/03/2020] pubblica un articolo siglato da Andrea Capocci (An. Cap.) che racconta di come la Corea del Sud stia agendo per fronteggiare la pandemia Coronavirus: «La Corea del Sud è un paese abbastanza simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati, contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46. Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due contesti analoghi?».
I numeri posti al di sopra dell’articolo consegnano al lettore un momento di riflessione riguardo il dilagarsi del contagio nel paese diviso al 53esimo parallelo: «in Corea del Sud ci sono 8.000 casi censiti contro i 15.000 dell’Italia ma i morti qui sono solo 71»


La connessione tra controllo e Coronavirus 
Il controllo sociale, come riporta il titolo dell’articolo, è stato utilizzato per abbassare i numeri del contagio ed evitare la massiccia propagazione del CoVid-19: «Per capire con quali persone un paziente è entrato in contatto […] sono stati usati i tracciati gps dei telefoni, i dati sull’utilizzo delle carte di credito, le telecamere a circuito chiuso. […] Per ottenere queste informazioni sono state integrate le banche dati della polizia, delle società telefoniche, delle assicurazioni sanitarie, delle autorità finanziarie».
La diffusione del contagio può essere fermata, dunque, qualora si entri nella vita di tutti i giorni della popolazione, in questo caso sudcoreana, che nel corso degli ultimi dieci anni si è largamente dotata di uno smartphone ad uso personale o lavorativo. 
La questione sembra essere ininfluente ai fini del dibattito politico o pubblico, tuttavia, spesso abbiamo avuto modo di ascoltare – da amici, colleghi di lavoro, parenti – frasi simili a questa: “non importa che io venga tracciato, le mie mail spiate o accenda costantemente la posizione e Google mi mandi resoconti della mia “attività”: non ho nulla da nascondere”. 
Sentenza priva di ogni senso, o meglio, con un significato ben preciso: la totale inconsapevolezza dell’“utilizzatore finale” di dispositivi elettronici a cui è obbligatorio associare un account Google, iCloud e, prima che terminasse il supporto sui propri dispositivi, Windows mobile
L’Ovra o la Gestapo ne sarebbero stati felicissimi. 

Ma facciamo un passo indietro. 

Al momento della diffusione del virus Mers-CoV *, a ridosso del 2012, la Corea del Sud ha registrato il maggior numero di casi dopo l’Arabia Saudita: all’epoca il governo fu criticato per aver negato la concessione di informazioni, come ad esempio i luoghi visitati dai pazienti per contenere il contagio del virus.
La legge è stata modificata al fine di autorizzare gli investigatori ad entrare nei dispositivi elettronici della popolazione: nell’articolo del giornalista Capocci del «manifesto» non è stato fatto cenno alle aziende produttrici dei sistemi operativi degli smartphones proprio perché, a causa di un analogo caso di emergenza di coronavirus, il Governo sudcoreano è corso ai ripari modificando la norma.
Nei dispositivi elettronici della popolazione sudcoreana – riporta la BBC – arrivano notifiche come questa: «Un uomo di 43 anni, residente nel distretto di Nowon, è risultato positivo al coronavirus».
«Questi avvisi – scrive Hyung Eun Kim della BBC coreana – appaiono in continuazione sugli smartphones della popolazione indicando dove una persona è stata infetta e quando […] non viene fornito alcun nome o indirizzo ma spesso si riesce a ricollegare conoscenze, luoghi visitati e, dunque, ad identificare le persone: in molti casi si sono ricostruiti adulteri consumati in hotel a ore»**.
Il problema legato alla discrezionalità di queste informazioni è tema di indubbio interesse e alla portata di qualsiasi lettore che sappia andare oltre la stupidità della stantìa frase “non ho niente da nascondere”: il mondo transnazionale legato alla interconnessione di utenze mail e navigatori gps inseriti in dispositivi telefonici, unite da un lato alla pratica sempre più diffusa da dedali di “aziende terze” che si preoccupano di profilare gli utenti e, dall’altra, la crescente attenzione da parte dei governi democratico-liberali, desta più di qualche interrogativo.
È evidente che, nel corso degli anni, l’utilizzo degli smartphones, giustapposto all’affinamento, al perfezionamento degli usi che un utente può farvi, alla sempre più duttile utilità dei sistemi operativi ivi installati, ha assunto un ruolo sempre più predominante nella vita della popolazione.
Il sistema che ne è venuto fuori è quello di una pervasività totale all’interno delle nostre vite: il capitalismo entra, così, a gamba tesa in ogni aspetto della giornata di ogni singolo individuo.
Basta concedere l’accesso della posizione del proprio dispositivo e quello del microfono e il gioco è fatto: la profilazione è totale e ogni nostra azione è monitorata in ogni singolo istante.

Spesso riteniamo come la connessione dati sia indispensabile per la vita di tutti i giorni, anche per le operazioni più semplici legate a necessità immediate: falso.
Il bisogno indotto da strumenti sempre più pervasivi nella nostra quotidianità ha fatto in modo che si arrivasse a percepire come necessaria l’interrogazione a Google in un qualsiasi aspetto della nostra giornata: che sia l’indicazione stradale o che sia la trasmissione dei dati personali per il contrasto del coronavirus. La risultante è, tuttavia, quello di una massificata profilazione di utenti informatizzati che posseggono uno smartphone e che, in questo specifico caso nordcoreano, hanno contratto il virus.
Si potrebbe certo sostenere che l’azione messa in atto dal governo sudcoreano è senza dubbio efficace: si notificano a tutti i dispositivi connessi ad internet notizie certificate dal Ministero preposto al fine di informare cittadine e cittadini riguardo il contagio di una data persona in una certa zona del paese.
La partita di giro è molto più imponente di quel che si voglia pensare: in cambio del proprio servilismo a sistemi operativi a cui abbiamo concesso l’uso della nostra intimità (voce e iride due aspetti su tutti) e delle nostre azioni quotidiane, possiamo essere informati sulla progressività del contagio del coronavirus, al netto degli “effetti indesiderati”, come quel che è avvenuto il 18 febbraio a seguito di una notifica che riguardava il contagio di una donna di 27 anni.
La donna lavorava allo stabilimento Samsung di Gumi e la notifica «ha riportato che alle 18:30 di sera del 18 febbraio» si sarebbe incontrata con una sua amica che aveva partecipato al raduno della setta religiosa Shincheonji***, il vettore di maggior diffusione del contagio nel Paese: «il sindaco di Gumi ha diffuso il suo nome su Facebook e i residenti della città, in preda al panico, hanno iniziato a commentare sulle reti sociali in preda all’odio e alla psicosi: “dacci l’indirizzo del suo condominio”»****.
È arrivato, dunque, il momento di prendere in considerazione l’atto della disconnessione per avviarne un serio dibattito, da marxisti.

Middle East Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria del Medio Oriente, detta anche “influenza dei cammelli”, responsabile della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus.
** Hyung Eun Kim,
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?
, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.
*** Il vettore di maggior diffusione del contagio
del virus è legato ad una congregazione cristiana che in Sud Corea è
considerata una setta, come ha riportato l’agenzia «Reuters» nei
primi giorni di marzo: «Il governo di Seoul ha aperto un indagine [1
marzo 2020 ndt] sul leader di una setta cristiana (Shincheonji
– Chiesa di Gesù al Tempio del tabernacolo e della testimonianza)
al centro del micidiale scoppio del coronavirus nel Paese» secondo
il governo sudcoreano «la chiesa era responsabile del rifiuto di
cooperare con le autorità al fine di fermare la malattia
»
dal momento che «una grande maggioranza degli oltre 4.000 casi
confermati di coronavirus, il numero più alto dopo la Cina, è stata
collegata alla Shincheonji, setta di cui è capo il fondatore Lee
Man-hee». Secondo il primo cittadino di Seoul Park Won-soon, se Lee
e gli altri leader della chiesa avessero collaborato, si sarebbero
potute mettere in atto efficaci misure preventive per salvare vite
che in seguito sarebbero morte in seguito alla contrazione del virus. 

Shangmi
Cha,
Murder probe sought for South Korea
sect at center of coronavirus outbreak
,
«Reuters», 2 marzo 2020,
<https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-southkorea-murder/murder-probe-sought-for-south-korea-sect-at-center-of-coronavirus-outbreak-idUSKBN20P07Q>.
**** Hyung Eun Kim,
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?
, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6425

Corone senza re e senza regina

L’informazione ai tempi del CoVid-19, o più comunemente chiamato Coronavirus, dà anch’essa i segni di uno squilibrio del tutto evidente. Nel gennaio di quest’anno, l’opinione pubblica mondiale è stata scossa dai fatti che provenivano dalla Cina, a causa delle notizie riguardanti gli inizi del contagio dovuto dal Corona e anche dalle impressionanti immagini testimonianti la costruzione dell’ospedale di Wuhan, la città-simbolo della nuova pandemia. L’ospedale Leishenshan è stato costruito in 12 giorni, Huoshenshan in 10, tutto per far fronte alla rapidissima diffusione del nuovo CoVid-19: il primo nosocomio citato ha avuto l’immediato compito di fornire 1.600 posti letto supplementari per la città.
La costruzione di queste strutture ospedaliere ha fatto il giro del mondo: la Repubblica popolare cinese ha voluto trasmettere le immagini in ogni angolo della Terra per dimostrare la propria azione nei confronti di tutti gli altri paesi che proprio in quei giorni iniziavano a familiarizzare con quello che, nelle terre ben conosciute da Marco Polo, si è fronteggiato fin da subito.

                                 https://twitter.com/XHNews/status/1225786019825405952

Della Repubblica popolare cinese possiamo pensare tutto e il contrario di tutto: si tratta del primo stato comunista al mondo governato da un solo partito (il Partito comunista cinese) che ha mantenuto l’architrave statale socialista-comunista pur aprendosi – di fatto – all’economia di mercato, sviluppandosi anche imperialisticamente (citofonare Africa orientale), nonostante il mantenimento dei piani quinquennali, della produzione statale e soprattutto di massicci investimenti statali in ogni ambito della propria politica.
In nessun momento della vita dello stato cinese degli ultimi trent’anni vi è stato un taglio lineare, progressivo o «ai fini di razionalizzare la spesa» – come piace dire ai media italiani – che abbia colpito la sanità. Nessun taglio e nessun conseguente ripiegamento dello stato in funzione di un’intromissione di privati nell’architrave statale della sanità.
Il fatto politico e sociale è questo, ci piaccia o meno. 
La reazione italiana e dei media di prima serata ha rappresentato la negazione della realtà, come spesso i telegiornali delle venti sono soliti fare. Il Tg1 del 11/03/2020 ne è la riprova, così come l’approfondimento che ne è seguito, denominato Speciale Tg1, a cui ha preso parte il massimo dirigente dell’Istituto Spallanzani e un docente di Psicologia all’Università del Molise.
Parte il servizio di prima serata: la Lombardia è al collasso. La telegiornalista parla del progetto della regione per far sì che l’ex fiera di Milano, a due passi da San Siro, si possa trasformare in un mastodontico reparto di terapia intensiva. Al momento, però, i lavori non sono ancora iniziati.
E allora via al valzer dei potrebbe sorgere qui, a breve nascerà, il Presidente della Regione avrebbe individuato quest’area. Di certo ci sono solo i condizionali, di estremamente sicuro solo un pugno di illazioni. La telegiornalista prosegue: «la Fondazione Fiera vorrà fare come a Wuhan in Cina: costruire tutto in tempi record».
Nonostante in Cina non esista alcuna Fondazione che possa interferire con la sanità statale, nonostante in Italia si stia mettendo in atto proprio il contrario di quanto strutturato nella Repubblica popolare. Nonostante tutto è stato detto. Perché una cosa è certa: di fronte alla completa inanità delle istituzioni pubbliche e avendo provato sulla propria pelle l’autonomia regionale post-titolo V, un esempio e un termine di paragone è necessario. Anche se è ontologicamente agli antipodi.