Salario minimo, cosa sta succedendo? – Atlante Editoriale

Arriva il niet della Camera dei Deputati sulla proposta riguardo al salario minimo presentata dalle opposizioni. Ora spetterà al Senato della Repubblica esaminare il testo della legge delega del Governo, approvata ieri alla Camera con 153 voti a favore.
Le opposizioni parlamentari in Aula hanno contestato l’iniziativa dell’esecutivo e della proposta di legge delega di Rizzetto (Fdi) ed altri (tra cui l’ex eurodeputato Battilocchio) approvata in commissione il 28 novembre [2023]. Il Presidente della Camera, sospesa la seduta per una manciata di minuti a causa delle proteste rivolte al Governo dai deputati dei gruppi del Movimento 5 Stelle, Verdi-Sinistra italiana e Partito democratico, ha poi proseguito con i lavori decretando il risultato della votazione.

D’altra parte il compito di Conte, Schlein e Fratoianni sarebbe stato particolarmente arduo da portare avanti: la commissione lavoro aveva fatto sì che la proposta delle opposizioni fosse snaturata nei fatti; la strategia degli emendamenti prodotti da Pd, M5S e Verdi-Si non ha sortito l’effetto sperato – né avrebbe potuto riuscire in alcun modo, stante l’equilibrio parlamentare.

Lo strappo
Già nella giornata di martedì il Governo aveva annunciato che non avrebbe discusso la proposta delle opposizioni circa il salario minimo orario fissato a 9€ lordi. Cifra attorno alla quale le opposizioni discutevano da mesi: solo a seguito di un intenso labor limæ, i tre gruppi maggiori (M5S, Pd, Verdi-Si) sono riusciti ad accordarsi a riguardo. «Come soglia minima, la proposta di legge sanciva i 9€ lordi l’ora», ha spiegato a «Radio Radicale» la deputata Valentina Barzotti (M5S) che ha aggiunto: «in sinergia con la contrattazione collettiva avrebbe potuto prevedere trattamenti di miglior favore».

Di parere opposto la Presidente del Consiglio dei Ministri Meloni che ha dichiarato la propria contrarietà alla proposta di legge delle opposizioni in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica «Rtl». Meloni ha ribadito la consonanza con il parere espresso dal Cnel e dal suo presidente (Renato Brunetta) attorno alla proposta dei 9€ contestando anche parte del mondo sindacale, riferendosi – con tutta evidenza – alle organizzazioni confederali: «vanno in piazza a rivendicare la bontà del salario minimo, ma quando vanno a firmare i contratti collettivi accettano contratti da poco da più di 5€ l’ora, come accaduto di recente con il contratto della sicurezza privata».

Cosa stabilisce la legge delega?

Il testo
consta di due deleghe al Governo e non prevede un riferimento chiaro ad una retribuzione (punto su cui si fondava la contrarietà delle opposizioni) limitandosi all’espressione: «assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi». In che modo? Contrastando «il lavoro sottopagato anche in relazione a specifici modelli organizzativi del lavoro e a specifiche categorie di lavoratori» e «il cosiddetto dumping salariale», ovvero la concorrenza sleale del “gioco al ribasso” nonché estendendo «i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali di lavoro […] ai gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, applicando agli stessi il contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria di lavoratori più affine».

La proposta di legge di iniziativa popolare «non meno di 10€»

Se nell’Aula si discuteva dei 9€ e, conseguentemente, si votava la delega, fuori dalle istituzioni il dibattito correva su un altro binario. Il 29 novembre, ovvero il giorno seguente l’approvazione della delega in commissione lavoro, Unione popolare e Rifondazione comunista depositavano in Senato una proposta di legge di iniziativa popolare supportata da 70mila firme che chiedeva l’istituzione di un salario minimo di 10€ lordi l’ora. Una misura che, stando alle parole di Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista), rilasciate al «manifesto» in quei giorni, sarebbe stata una «misura coerente di lotta contro il lavoro povero e sottopagato che ci sembra più seria di quella avanzata dalle opposizioni parlamentari nel dare attuazione all’articolo 36 della Costituzione».

«Contratti collettivi? Una foglia di fico».

Nel corso delle audizioni in commissione lavoro, i rappresentanti delle associazioni di categoria hanno spesso fatto riferimento alla mancata applicazione dei contratti collettivi nazionali in determinati settori (tessile, ristorazione, ricettivo). Secondo Stefano d’Errico, segretario nazionale del sindacato Unicobas, raggiunto da «Atlante» la questione: «è la foglia di fico dietro la quale si nasconde l’attuale maggioranza». «L’applicazione del contratto collettivo non risolve la situazione sia perché ci sono dei “contratti pirata” firmati da organizzazioni sindacali di comodo (sindacati gialli), sia perché – purtroppo – anche le organizzazioni sindacali confederali (Cgil, Cisl, uil) hanno sottoscritto almeno 25 contratti nazionali in cui la paga oraria è inferiore a 9€», ha dichiarato D’Errico.
«Siamo a favore del salario minimo – ha proseguito – perché ci sono 3 milioni di lavoratori che fanno la fame (spesso lavorando a volte più di otto ore al giorno), ma anche per l’introduzione della “scala mobile” che recuperi almeno l’inflazione dichiarata. E ci sembra ridicolo anche solo il dichiarare – come pure hanno fatto esponenti della maggioranza – che attraverso un provvedimento del genere si possano abbassare i salari alti».

«C’è una grande ipocrisia attorno al salario minimo, soprattutto da parte governativa: in tutti i paesi dell’UE è presente una legge a riguardo e la cifra oraria oscilla tra gli 11€ e i 12€ lordi. Un’ipocrisia che notiamo anche tra le fila delle organizzazioni sindacali le quali, spesso, sono state talmente compiacenti con la Confindustria e col padronato da aver sottoscritto “contratti di rapina”».

 

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/cosa-sta-succedendo-riguardo-al-salario-minimo

Italia sempre più povera, Meloni pensa al premierato – Atlante Editoriale

Secondo lo studio allegato al XXI rapporto Inps, condotto da Nicola Bianchi e Matteo Paradisi, denominato “Countries for Old Men: an Analysis of the Age Wage Gap” [Un paese per vecchi: un analisi del divario salariale per età], l’Italia è uno di quei paesi in cui le cose vanno peggio circa il divario salariale (cosiddetto gap) tra vecchi e giovani. Le cause di questa situazione, per cui un giovane riesce a trovare un’occupazione stabile più tardi rispetto al 1985 e comunque meno retribuita rispetto a tre decenni fa, va ricercata nella crescente esternalizzazione cui ricorrono le aziende, così come nell’aumento dell’età pensionabile. I «lavoratori più anziani hanno hanno esteso le loro carriere occupando le loro posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite», sostengono gli economisti rispettivamente della Northwestern Kellogg School of Management e dell’Einaudi Institute for Economics and Finance.

Precarietà e somministrazione
A quanto detto, si aggiunga la questione secondo cui per il Governo, almeno stando al decreto denominato pubblicisticamente “1 maggio”, il lavoro in somministrazione può essere considerato positivo per far uscire una persona rimasta senza impiego dal limbo della disoccupazione. Stante il comunicato pubblicato a margine del precedente Consiglio dei ministri, il Governo ha stabilito che il beneficio erogato in sostituzione del “reddito di cittadinanza” possa decadere qualora vi sia un rifiuto di una proposta di lavoro «a tempo pieno o parziale, non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno e con una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi e che sia, alternativamente: 1) a tempo indeterminato, su tutto il territorio nazionale; 2) a tempo determinato, anche in somministrazione, se il luogo di lavoro non dista oltre 80 km dal domicilio».

Ma c’è un evidente cortocircuito linguistico perché secondo la ministra Calderone, intervistata da «Avvenire» domenica 7 maggio [2023], il decreto ha rappresentato «un’occasione per dare un segnale concreto del suo impegno a favore di lavoratori, famiglie, imprese e soprattutto giovani che rappresentano il futuro del nostro Paese e che vanno accompagnati nella realizzazione delle loro aspirazioni lavorative»1. E ancora riguardo le norme previste attorno al tema della precarietà: «Non abbiamo modificato la durata dei contratti a termine. Siamo intervenuti sulle causali per i rinnovi dopo i 12 mesi, rimandando alla contrattazione collettiva per la definizione delle casistiche dei rinnovi. Si tratta di una norma di chiarimento che non ha alcun riflesso sulla precarietà». E dire che quanto diramato dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi appare essere scritto in un italiano che non lascia spazio alle interpretazioni.

Presidenzialismo o premierato ‘forte’?
Nonostante le difficoltà del paese reale, Meloni si domanda, manzonianamente, se Carneade fosse realmente esistito.

Il dubbio amletico meloniano sta tutto nella domanda (tra presidenzialismo o premierato), così come nella conseguente risposta che è stata consegnata agli organi di stampa a margine del giro di ‘consultazioni’ di martedì 9 maggio [2023].

Si tratta, in buona sostanza, di una interlocuzione che Meloni ha intrattenuto nella giornata di martedì per porre alle organizzazioni parlamentari tutte la questione di come affrontare il cambiamento costituzionale cui Fratelli d’Italia aspira da tempo, vale a dire la Repubblica Presidenziale.

La Presidente del Consiglio dimostra di aver già in mente il fine delle consultazioni: non lo dice espressamente, ma leggendo tra le righe nell’intervento in piazza ad Ancona di lunedì 8 maggio è ben chiaro: «Voglio fare una riforma ampiamente condivisa ma la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato: voglio dire basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo, ma legare chi governa al consenso popolare». Il mandato, in fondo, pensa, ce l’ha già: glielo hanno dato gli elettori, dunque se il presidenzialismo può essere un ostacolo, tanto vale puntare al premierato. D’altra parte è da circa tre decenni che la pubblicistica poi e la politica prima si è attestata nell’utilizzo del termine indicante il Presidente del consiglio dei ministri sostituendolo con quello di Premier. Un utilizzo improprio – evidentemente – tanto errato quanto ideologicamente foriero di un’idea di Paese totalmente diversa rispetto a quella costruita all’indomani del 1945. ‘Gutta cavat lapidem’, dicevano i latini ed ora è giunto il momento propizio per uscire definitivamente allo scoperto. O come si direbbe in ambito politico-aziendale: “i tempi sono maturi”.

Le reazioni alle consultazioni
E la fase sembra essere davvero matura: Italia Viva e Azione, nonostante le recenti ruggini, hanno mostrato assenso e condiscendenza al dialogo con la maggioranza per quel che riguarda una riforma della Costituzione in favore di quel che (già Matteo Renzi da Presidente del consiglio) può essere chiamato con l’espressione “sindaco d’Italia”. Un premierato forte con elezione diretta del Presidente. L’opzione del presidenzialismo, per la verità, nonostante fosse il cavallo di battaglia delle destre in campagna elettorale, è stato superato dall’opzione sopra citata. Da qui il rumore di fondo della Lega, per cui sarebbe un passo indietro troppo rilevante.

I numeri ci sarebbero, contando maggioranza e Italia Viva – Azione, tanto alla Camera, dove mancano un pugno di voti) quanto al Senato (dove le manciate di voti diventano due). Prima delle interlocuzioni di martedì, Mara Carfagna, deputata e presidente di Azione nel gruppo Azione-ItaliaViva-RenewEurope, aveva risposto preannunciando quanto poi Calenda avrebbe dichiarato a margine del colloquio con Meloni: il “no” a prescindere è «un atteggiamento sbagliato […] presidenzialismo è una parola generica, che va riempita di contenuti»2, aveva affermato la presidente al «Corriere della Sera». Nonostante Carfagna si sia mostrata in passato più volte a favore del presidenzialismo, oggi si collocherebbe più a favore del premierato: «Ho visto un’Italia dove se ci fosse stato il presidenzialismo forse al Quirinale sarebbe andato Grillo».

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha rimarcato la necessità del dialogo per poter dare più forza al Presidente del consiglio, magari con una «commissione ad hoc» (nuova bicamerale dalemiana?) ma ribadendo la propria contrarietà all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Certo è, come ha riportato il «la Repubblica» di mercoledì 10 maggio [2023], che Meloni pare abbia introiettato già il ruolo: «Ascolto ma vado avanti».

Uno spettro si aggira per Palazzo Chigi. Quello del (pur immaginario) Marchese Onofrio del Grillo.

1Francesco Riccardi, Calderone: «Siamo aperti al confronto ma il decreto è a favore dei lavoratori», 7 maggio 2023, «Avvenire».

2Virginia Piccolillo, «Sbagliato il no a priori. Premierato, lo spazio c’è ma ho visto i rischi del presidenzialismo», 7 maggio 2023, «Corriere della Sera». 

 

Pubblicato su Atlante Editoriale https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/italia-sempre-piu-povera/