Più penso al fatto che mi piacerebbe raccontare qualcosa di queste prime settimane di scuola bergamasca, più cancello quello che stavo iniziando a scrivere. Più penso che vorrei – e dovrei – iniziare a pubblicare a riguardo, più mi blocco e non comincio nemmeno. Strana cosa la mia volontà: inversamente proporzionale alla necessità e soggetta ad un fattore di imprevedibilità notevole (quando si parla di articoli da scrivere, poi, non ne parliamo!).
C’è chi mi ha detto che aspetta un diario da parte mia, del tipo «Memorie di un professore nella bergamasca»; c’è chi mi ha proposto di continuare a raccogliere le affermazioni audaci di qualche studentessa/studente; c’è chi mi ha detto minaccioso: «non sai che posti sono quelli: ti tratteranno malissimo» volendomi preparare psicologicamente ad una sorta di leva militare un po’ fuori tempo massimo. Post litteram, verrebbe da dire.
In questi giorni, in cui penso di scrivere a riguardo ma non comincio mai, nella mia testa sembra di essere in uno di quei film di Nanni Moretti in cui il regista è anche il protagonista della pellicola ma il set è l’oggetto stesso dell’opera e dunque delle riprese. E chissà se quel film sarà mai proiettato: chissà se scriverò davvero un diario (come mi suggeriva di fare Ottaviano) o chissà se annoterò qua e là qualche affermazione audace o qualche abitudine quotidiana normale in questa parte d’Italia, considerata lunare dalla sponda non papalina del Tevere.
Però un paio di cose, forse, potrei già dirle.
Ho preso servizio al liceo scientifico di Alzano Lombardo, in Val Seriana, in quella valle che un po’ tutta Italia ha imparato a conoscere e a saper collocare sulla cartina durante il periodo della propagazione del Covid.
O così credevo fosse. Alzano Lombardo e Nembro furono le due città più pronunciate dalla stampa tutta (televisioni, quotidiani, radio e quant’altro): quattro anni fa eravamo tutti impauriti perché provavamo a fare fronte ad una situazione che non sapevamo fronteggiare; eravamo chiusi in casa e avremmo voluto, invece, uscire e cercare uno sguardo amico nonostante le mascherine; eravamo in casa e il nostro sguardo si posava sui camion militari che trasportavano bare… dalle città di Alzano e Nembro.
Qualche giorno fa ho risentito – in modo del tutto casuale – due colleghi con cui ho condiviso un anno scolastico presso un istituto tecnico della periferia romana: ci aggiorniamo con rapidi messaggi per sapere se anche quest’anno avessimo avuto disguidi derivanti dal sistema di assegnazione automatico delle supplenze (il famigerato algoritmo). Rispondo loro, in due occasioni diverse, dicendo che per la prima volta ho preso servizio il 2 settembre da Gps (graduatorie provinciali di supplenza) e che ho l’incarico al 30 giugno ma non a Roma: ad Alzano, Alzano Lombardo. La reazione è stata «Ma ‘sto posto si chiama “Lombardo” perché sta in Lombardia?» e l’altro: «Ma Lombardia dove? Milano?». Provo a spiegare loro brevemente che si tratta di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, quel posto lì in cui non se la sono passata troppo bene durante il periodo del Covid. Nessuna reazione. Possibile che ci siamo già dimenticati tutto quello che è successo?
Per qualcuno forse l’atto volontario della dimenticanza rappresenta il necessario voltare pagina (positivamente parlando, si capisce); per altri (io credo di rientrare in questa seconda partizione) non è possibile dimenticare il colpo d’occhio delle strade vuote e il suono delle sirene spiegate delle ambulanze che rimbombavano per tutta Torre Maura, così come i nomi delle città di Alzano e Nembro.
Molti hanno già dimenticato ma qui nessuno lo ha fatto e quando ai ragazzi del liceo nomini la parola “Covid” o l’anno “2020” c’è qualcuno che muta sguardo: il viso diventa triste, lo sguardo subito annebbiato dalla foschia della mente e dei ricordi.
La seconda cosa è questa: una piacevole stavolta. Dopo aver notato qualche collega non molto incline alla minima socialità di condivisione degli spazi comuni (mi riferisco ai canonici e proverbiali buongiorno e buonasera), sono stato a pranzo con un collega in centro a Bergamo. Mi fa: «Se non conosci niente di Bergamo, andiamo a pranzo fuori questo sabato». Ci siamo andati sul serio, ci siamo sciolti nel parlare (forse qualche bicchiere di rosso ha aiutato) e siamo usciti dalla trattoria passandoci l’accendino, ridendo di alcune cose incomprensibili della scuola italiana, lasciando alle nostre spalle una settimana di impegni burocratici che non terminerà a breve.
E poi, ultima, c’è stata una studentessa che un giorno ha lasciato defluire tutta la classe che stava uscendo e, fermandosi sulla soglia della porta, mi fa: «Prófe, ma lei… Cioè… È venuto da Roma, fino a qui? Cioè… è venuto da Roma proprio qui ad Alzano? Proprio a questo liceo? Ma davvero? Ma posso chiederle perché lo ha scelto… se lo ha scelto?». L’ultima domanda sottintendeva un «ma non è che l’hanno mandata qui?». Le ho risposto schiettamente, ci siamo sorrisi, si è tranquillizzata ed è andata a prendere il tram per tornare a casa. Ho rimesso a posto i libri nello zaino e sono sceso giù al piano terra. Ma non sono andato al parcheggio delle auto: c’era una bicicletta rossa e nera che mi aspettava.
Magari non è un diario, però è già qualcosa.
L’inizio di qualcosa.