Non c’è più il manifesto di Lenin a Santa Maria del Soccorso. È stato strappato del tutto, fino agli ultimi brandelli. Per tre settimane il muro è rimasto “pulito” da ogni affissione.
È il giorno dopo il 25 aprile, in cui un lungo fiume di persone ha invaso le strade tra Villa Gordiani e Quarticciolo. È il giorno dopo la lieta marea.
In una delle due scuole in cui presto servizio quest’anno il ponte non è il 25 e il 26 aprile ma il 29 e 30, dunque mi incammino verso l’entrata della Metro B alle 7:30. Mentre cammino verso l’ingresso faccio un controllo delle cose toccandomi le varie tasche della giacca e dei pantaloni una dopo l’altra: moderna e attualizzata versione del tuca tuca di Raffaella Carrà. C’è tutto, anche la mascherina FFP2: per insegnare alla sezione ospedaliera serve ancora, nei reparti dell’ Umberto I è ancora obbligatoria.
Finito il servizio torno indietro con pensieri e sguardi avvolti dalle pagine di Meneghello e dai racconti di Malo, ma purtroppo arriva il momento di scendere. Salgo le scale per riemergere alla luce del sole e noto sull’altro muro di destra, quello che dà verso l’uscita di Largo Viola, un altro manifesto. È scritto a vernice rossa e a caratteri cubitali: «W Mario Fiorentini». Non c’è la firma: la scritta è rossa. Mi fermo immobile, anche questa volta, oltre i cancelli dell’uscita della metro e resto a contemplare la scritta rossa qualche secondo. Non vedevo un manifesto per Mario Fiorentini da un po’ e vederne uno mi ha fatto respirare aria fina di montagna.
È proprio vero, penso, quello slogan che ci ripetiamo (benché ovunque
collocati, dispersi e divisi): quando muore un compagno o una compagna
ne nascono altri cento. E vanno in giro ad affiggere i manifesti in ricordo di Mario Fiorentini.
Lo spirito di chi crede non si abbatte facilmente, come nella scena di Italiani brava gente in cui i nazisti e i fascisti, tedeschi e italiani occupanti le zone limitrofe al Don, stuzzicano un gruppo di civili russi facendo cantare loro L’Internazionale a mo’ di sfregio. Ma loro l’hanno cantata davvero e quasi non si fermavano neanche coi colpi dei mitra tedeschi.
Lo scorso anno, prima della partenza per la Bolivia, ci [a Maria e me] è stato regalato un libro [grazie Giusi!] scritto da Luca Bonalumi attorno alle disavventure rivoluzionarie di Antonio Caglioni a Viloco e nel paese che l’ha ospitato per molti decenni. Una volta giunti dall’altra parte del mondo, siamo andati a conoscere Antonio Caglioni e abbiamo trascorso del tempo con lui, pur alloggiando a Cairoma (cittadina vicina a Viloco).
L’introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo – a parere di chi scrive – rientra tra i pregi piuttosto che nell’ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.
Don Emilio nell’introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente – dopo varie ore di fuoristrada – riescono ad arrivare là, “alla fine del mondo”, a cinquemila metri d’altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e – c’è da immaginarselo – c’era una stellata meravigliosamente impressionante, data l’assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d’ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.
Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: “ma che si ruberanno mai, qua” (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.
Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.
Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d’introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se – in piena notte – prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.
«[…] Mi fanno alzare dal letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento. Bontà loro, niente manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè? Siete stanchi e la strada è lunga”»1.
Ma chi era Miguel?
Michael Miguel Nothdurfter era un italiano-sudtirolese di Bolzano che ha avuto una vita piuttosto intensa, una di quelle storie da raccontare, sebbene il tragico epilogo che ha avuto, ovvero ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia boliviana.
Scrive ancora don Emilio nell’introduzione al libro di Bonalumi:
«[…] Alle tre di notte cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo
trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono) altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti, impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario, nella casa di padre Antonio2, in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già profumo di promozione».
Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.
A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.
Il comandante Gonzalo va alla guerra La vicenda di Nothdurfter viene raccontata dettagliatamente da Paolo Cagnan in un libro pubblicato nel 1997 [Il comandante Gonzalo va alla guerra, erremme, 20.000 lire, 175 pagine] ed è colmo di riferimenti, racconti, testimonianze raccolte in loco, chilometri macinati tra le città boliviane.
«Caro Fratello, il tempo speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a vederli anche i miei occhi si appannavano»3.
Nothdurfter giunge in Bolivia il 26 agosto del 1982 dopo aver contattato la Compagnia del Gesù richiedendo di entrare a farne parte. Prima di questa sua decisione c’è stato il diploma di liceo classico e l’aspirazione a diventare prete:
«All’ultimo anno del liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori di una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.
Parte per Londra e segue il primo anno di noviziato al «Mill Hill» per poi approdare a Roosendal, in cui trascorrerà il secondo anno.
Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:
«La mia opzione politica è un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»6.
Le parole di Michael sono macigni: sta cercando di essere e di porsi come cerniera tra il mondo dell’utopia socialista e quello del cristianesimo agìto, reale, praticato e non clericalizzato in rigide strutture opprimenti.
Seguire l’insegnamento di Cristo significa uscire all’esterno e aprirsi al mondo e non rimanere ancorati alla realtà del noviziato, scrive ancora Michael nell’aprile 1984 da Cochabamba:
«In confronto al “popolo semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata. […] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”, pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo “giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare, ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo significa, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […] Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada nella Compagnia del Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo, siamo pronti a cercarla altrove»7
A maggio dello stesso anno scriverà al fratello Othwin di aver abbandonato i Gesuiti.
L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.
Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:
«In Bolivia le rivoluzioni sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179 negli ultimi 130anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre presidenti in uno stesso giorno»8.
Certo, sono passati ventiquattro anni da quando Nothdurfter è arrivato in Bolivia, ma la situazione non pare essere cambiata più di tanto: sono gli anni post golpe di Garcia Meza (1980-1981) in cui viene creata una nuova parola per indicare quel governo. Narcodictadura.
Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.
Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.
Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.
Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.
Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:
«D’ora in poi ti scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini “estremiste”»9.
Non c’è altro tempo da perdere: i poveri sono sempre più poveri, i ricchi vedono accrescere sempre di più il loro patrimonio, la sinistra è divisa, la politica strizza l’occhio ai grandi capitalisti e affama il popolo.
«[…] La sinistra boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si salva. Per questo motivo bisogna costruire qualcosa di nuovo. […] Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno, innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza ideologica. Io, però, sono deciso – assieme alla mia organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso, poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.
E ancora, l’anno successivo:
«Mi trovo più o meno d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio, però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una necessità imperiosa»11.
Inizia a militare davvero: aderisce prima ad un partito, poi ad un secondo entrambi marxisti, rivoluzionari e nazionalisti ma nessuno di essi ha quel che fa per lui, che ormai è diventato pienamente boliviano e non è più Michael ma Miguel. Abbandona entrambe le organizzazioni e decide di creare un gruppo insieme ad altri fuoriusciti. È la fine del 1988 e l’inizio del 1989. Il Muro di Berlino sta già scricchiolando e l’Unione Sovietica è a un passo dalla fine, ma questo, Miguel, ancora non lo sa né vedrà la fine dello stato sovietico.
Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.
«Considero un compito principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.
Il 1989 è l’anno del primo “esproprio proletario” con cui Michael Nothdurfter e il suo gruppo di rivoluzionari, che nel frattempo s’è coagulato attorno a lui.
La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz).
Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:
«Nestor è il fratello dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime: il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è
comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex dittatore Hugo Banzer»13.
Poi arriva davvero il colpo: il sequestro riesce e dura mesi senza che la famiglia dell’industriale sia realmente interessata a riavere Lonsdale. Attorno al sequestro e al suo epilogo ci sono un mucchio di cose che non quadrano e che sia il libro di Paolo Cagnan sia i due docufilm prodotti espongono come criticità attorno al fatto. Tra i fatti che non tornano14 ci sono: Lonsdale presenta dei fori da arma da fuoco che non quadrano con le dichiarazioni della polizia, Miguel venne accusato subito (anche perché straniero, dunque elemento ancor più perturbatore del “semplice” fatto di essere un rivoluzionario15) di aver ucciso l’industriale ma senza una prova concreta, non ci sarebbe stata trattativa tra polizia e sequestratori e le forze dell’ordine hanno sparato subito anche di fronte a uomini che si stavano arrendendo e poi… il volto di Miguel, sfigurato dai proiettili «al punto da rendere impossibile l’identificazione attraverso i tratti somatici». Le autorità boliviane «hanno voluto impedire il nascere di un nuovo mito guerrigliero».
Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.
«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una cronaca di una morte annunciata».
Eppure Miguel, in una lettera-testamento ai genitori e alla famiglia, racconta il suo percorso, dalla partenza all’epilogo (senza essere troppo esplicito) ma che restituisce un animo in cerca di giustizia, libertà, equità e solidarietà. Di questo, penso, è bene occuparsi nell’analisi della vita di Nothdurfter e di quanto è accaduto nella vicenda del sequestro Lonsdale: andare alla ricerca, insieme a Miguel, di quanto l’occidente fosse malato allora e di quanto non sia cambiato oggi; di quanto il primo mondo sfrutti, di quanto sia impelagato in una riflessione di giustificazione e autoassoluzione senza la minima autocritica. Non assolvere Miguel per la sua guerra, ma stare dalla parte della sua anima e del suo spirito. Lo spirito di un uomo innamorato della vita a tal punto da voler ingaggiare una lotta senza quartiere contro le ingiustizie che rendono il povero ancor più schiacciato da un capitalismo selvaggio e da una borghesia sfrontata e superba. Talmente innamorato della vita da aver deciso che valesse la pena anche perderla, pur di continuare nella sua lotta.
Dalla lettera-testamento, scritta nell’agosto 1990 da Miguel ai suoi genitori:
«[…] So bene che nessuna delle persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi. […] Dopo la guerra fredda
arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama “guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e “stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci, soverchiante e iniquo: il neoliberismo. La principale questione è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.
La teologia della liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina hanno così poco a che vedere con Stalin…
So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di commettere degli errori».
NOTE
1Luca Bonalumi, Il prete che mirava in alto, p.10, 2016, Edizioni Gruppo Aeper, Torre de’ Roveri (BG).
2Nelle medesime pagine don Emilio, a proposito della stretta sorveglianza delle autorità di polizia nei confronti di don Antonio, accenna alle vicende del libro di Bonalumi scrivendo: «[…] al posto di controllo, i gendarmi notano al volante un certo padre
Antonio, da tempo sotto stretta sorveglianza per le tante vicende raccontate in questo libro; Riccardo, un volontario italiano ben
conosciuto per i numerosi progetti in atto insieme a uno sconosciuto».
3Da una delle lettere scritte da Michael al fratello Othwin contenuta sia nel libro di Cagnan che nel documentario «Der Pfad des Kriegers» di Andreas Pichler, 2008.
4Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.21, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
5Avendo avuto esperienza diretta dei trasporti e delle strade boliviane, quella di Nothdurfter non è stata un’iperbole.
6Lettera al fratello Othwin scritta a Cochabamba e datata 31 dicembre 1982.
Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.28, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
15Nelle sue ultime lettere si definiva “guerriero”.
16«Sento profondamente il silenzio dentro di me, la solitudine imposta dal mio destino [aveva definitivamente rotto con la sua ormai ex fidanzata], questa congiunzione di fattori e circostanze. Mi sono scappate alcune lacrime ma non mi arrendo al mio dolore. Il guerriero non può evitare la sofferenza ma non si lascia mai sopraffare da essa». 18 agosto 1990.
Tornare a scuola dopo le vacanze di Pasqua significa che l’anno scolastico è in pieno declivio. Tutti si sono lasciati alle spalle i mesi più duri di gennaio, febbraio e marzo: aprile e maggio indicano che giugno è alle porte. Rien ne va plus.
I più severi diranno che non si tratta di un momento facile: siamo ai proverbiali sgoccioli e gli studenti dovrebbero iniziare a sentire la pressione, il fiato sul collo dei consigli di classe di aprile, dei colloqui pomeridiani con i genitori. Dovrebbero, per l’appunto.
Al tecnico sono perlopiù dediti a indossare magliette a maniche corte dalla discutibile colorazione: è cambiata la stagione e, sebbene abbia ripreso a piovere, non appena la temperatura inizi ad aumentare si diminuiscono gli strati di vestiario e si è pronti per la passerella d’istituto, meglio nota come ricreazione.
Ma in questo periodo c’è anche un altro avvenimento che inizia a palesarsi negli istituti scolastici di ogni ordine e grado: l’avvento dei rappresentanti editoriali.
Sempre più simili ad agenti immobiliari, varcano la porta dell’istituto con una valigia a rotelle come se stessero andando a prendere il treno dalla stazione di Milano Centrale, ma alle loro spalle c’è solo la remota fermata “La Rustica U.I.R.”.
Si dirigono sorridenti al gabbiotto dei bidel…personale Ata chiedendo dove sia ubicata la sala insegnanti: vi si dirigono con passo deciso e prendono possesso dell’unica grande scrivania presente in ogni sala docenti da Luino a Mazara del Vallo (occupata in gran parte da computer fissi, raccoglitori ad anelli con le circolari, fogli con le firme del giorno e stampe di varie comunicazioni sindacali). Posizionano i libri, ancora nel cellofan, come al mercato avrebbero fatto con le cassette dei carciofi: ci sono edizioni più nuove ogni anno che sono migliori di quelle dell’anno scorso e di quelle dell’anno in corso. Gli autori dei libri che propongono sono gli stessi di quelli dell’anno precedente, le parole utilizzate all’interno anche, l’interlinea – perfino – rimane invariata ma «quest’edizione è stata rivisitata e migliorata».
Lo è tutti gli anni e guai a chiedere in cosa lo sia stata: il rappresentante potrebbe prenderti per sfinimento. La loro arma più tremenda è un bloc notes in cui hanno scritto i cognomi degli insegnanti di quella scuola: che siano tre o trecento, loro li conoscono tutti sia di nome sia, talvolta, di persona.
Al cambio dell’ora si verificano delle scene simili a quelle del Secondo tragico Fantozzi in cui Calboni trascina la signorina Silvani e Fantozzi (per l’appunto) a Courmayeur iniziando a salutare tutti pur non conoscendo nessuno: i rappresentanti delle case editrici più grandi sono l’alias vivente di Calboni.
Tutto questo ad eccezione dei supplenti: i signori nessuno dell’anno scolastico, coloro che anche la burocrazia, spesso, ignora.
Una salvezza, pensi ingenuamente.
Sono le 10:50: è ricreazione. Suona la campanella e tu, mestamente, torni in sala insegnanti, ignaro del fatto che subito dopo la prima ora siano entrati sgattaiolando i rappresentanti e si siano piazzati al centro della scrivania presente nella stanza. Vedi un uomo in giacca e cravatta che sta intrattenendosi con una collega: non hai mai visto quel volto, sarà sicuramente un rappresentante. Vuoi evitarlo per una ragione: vuole convincerti ad adottare nuovi testi per il prossimo anno scolastico. Ma tu l’anno prossimo non ci sarai.
Lui, l’agente immobiliare dell’editoria scolastica, ti incalzerà: «ma lei ha potere decisionale anche sulle adozioni del prossimo anno scolastico, professore! Le consiglio, a tal riguardo…», mentre dice così, di solito, prende dal tavolo un volume dai colori sgargianti e attacca bottone fino a prenderti per lo svenimento, fino a farti strappare un «grazie per questa proposta, ci penserò su».
Fili via dal corridoio in direzione del bar che, finalmente, ha riaperto (una delle gioie dell’anno scolastico).
Prendi tempo con un caffè e chiacchierando del più e del meno con la collega di francese: è ancora lì, lo vedi con la coda dell’occhio, ma per fortuna è sufficientemente distante dalla porta d’ingresso della sala insegnanti.
Decidi di bere l’ultima goccia del caffè ed entrare nella sala insegnanti a testa bassa, brandendo già la chiave dell’armadietto forzato in più parti dal bidel…personale Ata che te lo ha aperto con un arnese metallico l’unico giorno in cui ti sei dimenticato la chiave (generalmente c’è una sola chiave e se un giorno la dimentichi hai la sola chance del piede di porco).
Dai le spalle all’ingresso e guardi la serratura di fronte a te, inserisci la chiave e mentre apri l’armadietto senti dei passi dietro di te, passi di scarpe col tacco, passi di camicia inamidata con le iniziali cucite e cravatte salmonate che manco Gianfranco Fini quando era ministro.
È finita: ti ha trovato.
«Scusi, lei è un professore?»
Un’antropologa va alla ricerca del suo passato e si pone sulla via di Sister Deborah [Utopia, 18€, 136 pagine]. Santona, guaritrice, sacerdotessa di un culto che annuncia la venuta di un Messia. Ma non è un Messia qualsiasi: è donna ed è nera. Quella bambina ruandese di etnia tutsi non conosce il suo futuro-presente di antropologa in un’università statunitense, sa solo che la sua mamma la portava da Sister Deborah quando la sua salute peggiorava «e i medicamenti materni si rivelavano impotenti, la malattia persisteva e il male si aggravava». Salute cagionevole, vicini maligni e invidiosi, streghe e stregoni «che vogliono il male per il gusto del male», la piccola si recava a Nyabikenke accompagnata dalla mamma per cercare di trovare una spiegazione a quella sequela di malesseri che l’attanagliavano. La sacerdotessa non solo liberava dal male di donne e bambini: brandiva una canna metallica la cui impugnatura, d’avorio, era incisa «come su una moneta, la figura di una donna nuda che allatta due bimbi aggrappati ai suoi fianchi e seduti sulle cosce». Madre Africa che allattava i suoi liberatori. Deborah avrebbe profetizzato la venuta di un Messia: una meravigliosa donna nera che avrebbe liberato tutte le donne ruandesi dalla schiavitù familiare e imposta dalla società patriarcale in cui vivevano per dar loro una terra fertile e prospera. Perché se il Dio esiste – sostengono gli evangelici neri del romanzo – è senz’altro nero. E senza il minimo dubbio sarà una donna, portata grazie ad una nuvola che sosterà sopra al Ruanda. La Messia scenderà e libererà le donne. A metà tra una enigmatica figura femminile e una vera e propria sacerdotessa-guaritrice che parlava con lo spirito durante i suoi stadi di trance e di perdita dei sensi, Sister Debborah faceva parte della missione nera che aveva scelto il Ruanda per la propria predicazione. I neri americani erano tornati nel loro continente: l’Africa li stava chiamando fin dall’altra parte dell’Oceano. La missione dei “preti bianchi” era da superare e da smascherare: ultima propaggine del potere coloniale che ancora negli anni sessanta del Novecento ottenebrava le sorti del popolo ruandese. Le donne di Nyabikenke correvano a ri-battezzarsi secondo il nuovo rito nero-americano: bastava una iriba (un abbeveratoio per le vacche) in cui immergersi nude e un pagne (un telo di cotone colorato o a tinta unica) per poi rivestirsi. Lo spirito sarebbe sceso su di loro e, allora sì, avrebbero potuto iniziare a predicare: «le battezzate si rivolgevano alle altre donne: “Lasciate a terra la zappa, guardate piuttosto il cielo: osservate le nuvole”». La loro salvezza sarebbe giunta dal cielo per portare alle donne nere: mille anni di felicità, prosperità e la liberazione dalla tossicità maschile e dal colonialismo.
«Aveva in cima [alla canna] un pomello d’avorio sul quale alcune di loro avevano visto una di quelle raffigurazioni che solo un congolese privo di pudore avrebbe potuto scolpire. In effetti era rappresentata una donna completamente nuda che allattava il suo bimbo. […] in effetti poteva trattarsi della canna della regina delle donne».
Le missioni bianche perdevano terreno e le autorità coloniali non riuscivano a contenere il potere e la predicazione di Sister Deborah: la fusione tra lo spiritualismo e il panteismo africano con il cristianesimo evangelico avevano creato un unicum fortissimo e peculiarissimo.
Il libro di Scholastique Mukasonga scorre via facilmente, benché un occidentale non riesca a comprendere pienamente quel che l’innervatura dello spiritualismo africano comporti nella vita delle persone (uomini o donne che siano), che si tratti di un condizionamento psicologico o di una fede pura e sincera. Perché, in fondo, il crogiolo di divinità, spiriti e tensioni religiose dell’Africa è territorio tuttora inesplorato e troppo spesso liquidato con superficialità da studi occidentali che vi si accostano. Un romanzo, quello di Mukasonga, a due voci che termina con la ricerca di Sister Deborah da parte della bambina diventata antropologa. Ma il mondo che lei ha lasciato da piccola è molto cambiato, così come anche Sister Deborah, la sua vicenda e la sua sorte.
Lo spunto per scrivere qualcosa su Fiori italiani è arrivato ieri. Avevo finito di leggerlo mentre ero a La Paz, nei pomeriggi ‘paceñi‘ dei primi fine settimana in cui tutta la città pareva che all’unisono avesse reclinato la testa sul guanciale (giusto per un paio d’ore). Pensavo e ripensavo a quello che avevo letto (di cui devo essere molto grato a Massimo, vicentino doc, di avermi fatto scoprire la figura di Luigi Meneghello) c’era qualcosa che covava ma che rimaneva ben al di sotto degli strati di pan di spagna freudiano.
Ieri ho avuto uno scambio con un interlocutore – collega, si direbbe – della secondaria di primo grado. Mi chiede perché non mi avessero ancora chiamato per un incarico, perché il mio nome, dunque, non sia stato riportato nei primi due bollettini di convocazione pubblicati dall’Ufficio scolastico regionale. Gli spiego che mi hanno saltato in una classe di concorso – di nuovo, come lo scorso anno – ma che stavolta ho presentato reclamo e ho contattato il sindacato, così da capire come muovermi.
«Ma per le scuole medie, invece, perché non ti hanno chiamato?», dice guardando da un’altra parte. «No», rispondo con un sospiro (già sapevo dove si voleva andare a parare), «non le ho proprio inserite le medie nelle Gps». L’interlocutore allarga le braccia come in segno di resa: «Eeh ma allora non è che vuoi proprio lavorare, eh». «Non ho capito», rispondo basito. «Ma, almeno le medie, mettile!» a questo punto viene interrotto dall’altro interlocutore che dice, serenamente, ma col tatto di una scavatrice a otto benne: «è che non ha famiglia, può anche non lavorare». Paternamente, il secondo prosegue: «è che si entra più tardi di ruolo alle superiori: io sto ancora su sostegno, ma sono di ruolo e non mi caccia nessuno, poi al massimo farò il passaggio su altra classe di concorso». Iniziava a sibilare nelle mie orecchie una voce familiare che diceva “amico caro..”. Il primo interlocutore continua: «ma con le medie lavori subito, se non le metti nemmeno significa che non ti interessa di lavorare». «No guarda – provo a ribattere – il problema è un altro: non mi sento in grado di lavorare con i ragazzi delle medie: ho bisogno di altro, dico sul serio, farei solo danni alla secondaria di primo grado». «Ma che danni e danni! Ma tu co le medie devi aprì il libro e dì “dai, ragazzi, aprite il libro a pagina 7 e leggiamo”, così devi fa!», come a voler sottintendere: “Li fai sta zitti un’ora, te passa la giornata e c’hai lo stipendio”. Se ne va voltandomi le spalle con aria di sufficienza perché “non ho famiglia” e dunque “non ho esigenza di lavorare”.
Si potrebbe aprire un lunghissimo – e forse noiosissimo – dibattito sull’affermazione per cui se una persona nontiene famiglia, non abbia reale esigenza di lavorare, dunque non ha quella voglia di “sgomitare” che sarebbe il contemporaneo istinto di sopravvivenza proprio delle metropoli del XXI secolo. Se una persona convive, non ha impellenze per i figli: fa quel che vuole con serafica calma, aspettando il posto giusto e il cadavere del nemico sul letto del torrente. Evidentemente non è così, ma loro non sanno dei dottorati tentati in circa quattro anni, tutti respinti o con motivazioni futili, o per un punto in meno o perché “dia retta a me, non è il suo turno”, oppure “lei vuole creare dibattito nella società scientifica: aspetti di avere una quarantina d’anni per questo”. E varie altre porte in faccia di cui ancora ho il solco sulla fronte (sul naso no, data la dimensione).
Ma basta con le doglianze. Andiamo al punto vero.
Lo strumento di trasmissione del sapere con cui il collega in materia scientifica, di ruolo presso un noto istituto comprensivo romano, imposta il lavoro, segue una teoria scientifica codificata dal già senatore Antonio Razzi: «fatt li cazz tuoi» (andando a chiudere il cerchio della frase che iniziava a ronzarmi in testa “amico caaaro…”). “Prendi il posto e fingiti morto” o – alla meglio – fai passare la giornata e tutto passa, alternativa statale a “prendi i soldi e scappa”: nessuno guarderà il tuo operato, nessuno ti giudicherà per quello, l’importante è che tu sia ineccepibile da un punto di vista formale. Mentre la conversazione volgeva al termine, il pensiero correva subito alle pagine di Fiori italiani e al suo incipit: «Che cos’è un’educazione?».
«Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori”, disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”». [p. 47]
La mente corre ai professori che ha avuto S., protagonista del romanzo, nel corso del suo percorso, dalle elementari alle superiori, nonché al sistema scolastico dell’epoca fascista in generale, plasmato dal regime con dovizia di particolari ideologici ma che alla sostanza e alla “fioritura” non badava affatto.
«Per gli Agonali, che parevano allora aspetti concreti della vita come
gli Stivali, tutti gli alunni di una determinata città, in gara tra
loro, svolgevano per iscritto temi di interesse pubblico del tipo :
“L’Italia ha finalmente il suo Impero” (dove ci sarebbero da discutere
tre idee principali: “ha”, “finalmente” e “suo”) con la solita tecnica
di identificare le risposte alle domande in esse implicite: Chi ha
finalmente l’Impero? (L’Italia.) Che cos’ha finalmente l’Italia?
(L’Impero.) Di chi è ciò che l’Italia finalmente ha? (Suo.)» [p. 112-113]
«Si soffriva per la mancanza di idee e di convinzioni, non già per il tentativo di indottrinarci. I pochi che ci provavano facevano ridere, mentre la mancanza di idee non era ridicola, era tragica». [p. 137]
E se Meneghello si chiedeva [p. 67]:
«Ci saranno pur stati maestri e genitori che avevano delle riserve [sul tipo di messaggi e contenuti veicolati dai libri di testo del regime fascista, ma dov’erano? Il bambino è padre dell’uomo: ma chi è il padre del bambino?».
Nel caso specifico del colloquio avvenuto, il padre del bambino non c’è: s’è acclimatato al “si fa così” e alla sopravvivenza del mondo spietato di questa contemporaneità. L’interesse non è il vivaio quanto piuttosto il mantenimento di un’unica pianta: la propria. La speranza risiederebbe nella fioritura del “bambino-padre-dell’uomo” sperando che incontri insegnanti disposti a mettergli un po’ d’acqua nel vaso di tanto in tanto. Perché non importa cosa si fa in classe, l’importante è stare – per loro -. Che si producano danni irreparabili al termine di quel percorso di studi, non è un problema che li riguardi, dopo una certa data. Sarà questione che si affronterà al liceo: “ma tanto io insegno alle medie”. Lo spirito erinnico di Razzi continua a volteggiare.
Così, mi è tornata in mente una supplenza – breve, per fortuna – prima dell’incarico annuale che ho svolto un paio d’anni fa in una scuola bene del centro di Roma: vedevo il Tevere a un passo, di fronte a me grandi vie a due corsie portavano il flusso di automobili alla tangenziale o dentro l’intestino della città. Il mio io periferico era curioso di entrare in contatto con quel mondo, distante da Torre Maura poco più di una ventina di chilometri ma sideralmente lontano da svariati punti di vista. Entro in una classe e dico loro di togliere i telefoni e di poggiarli sulla cattedra, come faccio di solito. Lamenti, frasi sprezzanti dette sottovoce “ma io mica so se è legale, sta cosa, mo me nformo”, contrarietà plurime: «E ‘r suo ndo sta prof?!», chiede una ragazza vestita di rosa dalla testa ai piedi. Mentre me lo chiede lo sfilo dalla tasca e lo rivolgo a “schermo in giù” sulla cattedra: tutti i dispositivi sono lì. Dopo quattro secondi netti i ragazzi cercano distrazioni: c’è chi inizia a contare le penne, chi smania sulla sedia, chi rivolge lo sguardo da una parte all’altra facendo impazzire le pupille, una ragazza in particolare inizia a disegnare su un foglio ma poi inizia a pigiarci sopra le dita. Mi avvicino: aveva disegnato lo schermo di uno smartphone con tanto di applicazioni. (*)
Il fiore va annaffiato, ma esistono i fiorai in grado di potare, anziché recidere?
(*) Non mi soffermo in giudizi o critica nei confronti del piano di digitalizzazione e “nuova didattica” (im)posto dal Governo dal momento che credo traspaia evidentemente come sia molto critico nei confronti di un provvedimento abominevole.
Nel complesso sportivo “Camoco Chico”, nella zona del Macrodistrito Maximiliano Paredes, le attività legate allo sport di base si susseguono incessanti. Ad ogni ora del giorno è possibile vedere le squadre di calcio femminile che si allenano, i bambini (coi loro cappelli per proteggersi dal sole ustionante che batte a 3600 metri d’altezza) che si dispongono in campo secondo le indicazioni dei loro allenatori, atlete e atleti nelle piste poste al lato della struttura. Capita anche di vedere qualche partita ufficiale del variegato mondo dilettantistico-amatoriale di La Paz: oltre alle attività che in Italia verrebbero considerate “di base” (scuola calcio e campionati conseguenti per adolescenti a diversi livelli di capillarità territoriale) si tengono anche le leghe seniores, ovvero per chi ha compiuto dai 37 anni in su. Insomma: calcisticamente parlando tutto sembra scorrere in quella che è a tutti gli effetti una tranquilla, fresca e assolata giornata di metà settembre.
Il punto è, sempre calcisticamente parlando, che la Bolivia ha evidentemente vissuto tempi migliori per quel che riguarda il mondo del professionismo legato al calcio a 11 maschile. Da metà agosto tutti i campionati professionistici, compresa la Liga (cioè la massima serie) sono stati interrotti: stop totale. Un mese nefasto per il calcio boliviano che già da tempo languiva e non godeva di buona salute a causa di dichiarazioni incrociate tra presidenti ed esponenti di primo piano delle federazioni calcistiche di calciatori e dell’organizzazione generale.
La punta dell’iceberg è stata rivelata il 30 agosto [2023] quando il presidente della Federazione boliviana di calcio, Fernando Costa, ha convocato una conferenza stampa denunciando – ma senza fare nomi – una ramificazione piuttosto articolata di corruttela alla base del calcio boliviano. Stando al quotidiano del vicino Perù «La Repùblica» il presidente Costa ha denunciato «tangenti e partite truccate» dietro cui si nasconderebbe «una rete di corruzione composta da dirigenti, ex dirigenti, calciatori e arbitri». In Europa «El Paìs» ha parlato apertamente di «terremoto nel calcio boliviano», a proposito della conferenza della Federazione calcistica tenutasi nella città di Santa Cruz. Ma come ogni avvenimento imponente, le cause sono da ricercare prima del fatto accaduto. Un altro passo indietro è necessario.
Partite truccate: la piovra e la cupola
Il primo a dichiarare pubblicamente un fatto simile è stato l’ex presidente boliviano Evo Morales Ayma, ora presidente del Palmaflor (modesta squadra di bassa classifica) che rappresenta un mondo piuttosto influente in Bolivia: i cocaleros. A fine 2022 Morales diventa presidente della squadra di Cochabamba e da quel giorno detiene la doppia carica di presidente del sindacato dei cocaleros (cioè i coltivatori di coca) e della squadra di calcio la cui proprietà è riconducibile all’organizzazione di cui sopra. Il 30 agosto Federico Molina su «El Paìs» scriveva: «Morales, per conto del Palmaflor, aveva dichiarato che la sconfitta di Coppa [contro il Blooming] si sarebbe verificata a causa del “gioco al ribasso” di alcuni giocatori» prima del fischio d’inizio. Parrebbe un’accusa di combine. Molina ha ricordato che queste parole sono state pronunciate dall’ex presidente boliviano nell’ambito delle interlocuzioni tra la federazione calcistica boliviana e l’organizzazione sindacale di cui Morales è presidente riguardo la mancata erogazione degli stipendi ai giocatori del Palmaflor. Accusa e fuoco incrociato. Un litigio, quello tra Palmaflor e Blooming, che non ha mai smesso di cessare: nel marzo di quest’anno le due compagini si sono rese protagoniste della prima partita al mondo durata per tre tempi anziché due, con la terna arbitrale che ha concesso 42 minuti e 11 secondi di recupero. «Niente giustifica il recupero così imponente» commentava «Espn», portale digitale sportivo panamense il giorno successivo della partita: il Blooming stava conducendo la gara ma tra VAR, discussioni tra giocatori, sostituzioni che sarebbero durate un tempo molto più lungo del normale, si è arrivati a disputare tre tempi. Tra pozzanghere e pioggia incessante, decisioni dubbie e tensione alle stelle, la terna arbitrale (tutti paceños) è stata successivamente sospesa. Stessa sorte è toccata al personale addetto al Var (della federazione di Cochabamba). A tal proposito, Morales si è sentito in obbligo di rivelare che qualcosa non stava andando per il verso giusto, o che comunque avrebbe dovuto funzionare diversamente. I quotidiani boliviani allora avrebbero parlato di “presunta mafia”, un termine che riesce ad essere universale anche a distanze siderali dall’Italia. Che Morales abbia messo semplicemente le mani avanti? Non ci è dato saperlo. Almeno non ora. Secondo il quotidiano digitale «la Opiniòn»: «A metà agosto, il presidente del Club Palmaflor del Trópico [Morales] ha affermato pubblicamente che “ci sono giocatori che si accordano per truccare le partite”», il riferimento è al confronto di coppa col Blooming. E ancora si legge: «“Ho delle informazioni, purtroppo non tutti i calciatori sono corretti. Ci sono alcuni che negoziano sottobanco”».
Poi, il proverbiale patatrac. La Federazione sindacale dei calciatori professionisti boliviani (Fabol), proprio nei giorni di massima tensione di fine agosto, ha respinto la dichiarazione in un comunicato ufficiale, ha chiesto a Morales di provare concretamente le affermazioni esternate, si è dissociata dalle parole dell’ex presidente ma ormai si era sul piano inclinato in cui la biglia può solo schizzare verso il basso. Fernando Costa ha dato l’annuncio della sospensione del campionato: provvedimento sostenuto con 14 voti favorevoli, 1 astenuto e 2 contrari tra i club partecipanti alla massima serie [17]. Tutto annullato: coppa e campionato di clausura. La classifica congela The Strongest prima, Nacional Potosì al secondo posto, Bolivar al terzo e Always Ready di El Alto al quarto.
«Un paio di anni fa pensavamo di aver toccato il fondo», recita il comunicato di Erwin Romero, presidente della Fabol, «pensavamo di non poter andare peggio e invece nulla è impossibile e ora siamo molto peggio di prima. È di dominio pubblico che il narcotraffico ha trafitto il nostro calcio e la stessa federazione ha denunciato l’esistenza di possibili reti di scommesse illegali e partite truccate». Possibili, ma ancora non certe. Si attendono, ora, i verdetti della Fifa, interpellata dal presidente Costa, e della Conmebol per sapere se e quando il campionato possa riprendere e in che condizioni.
Riecheggiano i fatti del novembre 2018 nelle parole di Romero. In quella circostanza la federazione chiese aiuto alla Fifa per sanare una situazione emersa direttamente in campo: Pedro Chàvez, calciatore paraguaiano allora in forza al Guabirá, disse ad un rivale come tutti sapessero che le scommesse erano affare del Real Potosì. Le dichiarazioni fecero il giro di tutto il mondo, finirono anche su «El Paìs»: «[i giocatori] Non vengono pagati da quattro o cinque mesi e rischiano la vita nelle riunioni». Chavez ritrattò, il Potosì non ammise nulla e anzi rigettò le accuse.
¡Vergonzoso!
Già Carlo Emilio Gadda nel “Pasticciaccio” descriveva che una catastrofe non è mai «la conseguenza o l’effetto d’un unico motivo, d’una causa al singolare». La verità è che una catastrofe porta con sé «come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». Vien da sé, alla luce di quanto letto, che lo scandalo più imponente dell’ultimo decennio che ha investito il calcio boliviano non poteva arrivare in un momento peggiore: il 14 settembre la verde doveva disputare una partita importantissima valida per le Qualificazioni mondiali allo stadio “Siles” di La Paz contro i campioni del mondo dell’Argentina. La partita finisce 0-3 per l’albiceleste (senza Messi) e nemmeno l’altitudine (lo stadio è a 3.600 metri d’altezza) ha giocato a favore della rappresentativa boliviana. Débâcle su tutta la linea. Durissimo il giornale «El diario» il giorno dopo la pesante sconfitta: «la selezione boliviana è la peggiore delle Qualificazioni sudamericane per il Mondiale del 2026. In due partite un solo gol fatto e ben otto subiti. Gli errori dei giocatori durante la partita sono stati una costante di una squadra disordinata, improduttiva e senza la minima attitudine alla motivazione. A tutto questo si aggiunga il poco criterio dell’allenatore che non ha pianificato correttamente la partita». L’ultima volta che la nazionale della Bolivia ha partecipato ad un torneo internazionale è stato nel 1994, da allora sembra non avere fine la lunga notte che tormenta il calcio boliviano.
Primo elenco di “cose strane”, che ho visto in Bolivia.
La doccia con la resistenza elettrica In Bolivia pare le case non siano dotate di scaldabagno o di altri apparecchi per riscaldare l’acqua a fini di abluzioni igieniche. I soffioni delle docce dunque hanno collegati dei fili scoperti collegati ad essi (mi perdoneranno gli elettricisti per la spiegazione ma sono un umile umanista che non capisce nulla delle leggi di Ohm e affini). Il trucco per non perdere la vita è lavarsi ponendo il corpo al di sotto di un’immaginaria Linea Gotica tra il getto d’acqua e la tua testa.
L’acqua che però «es Coca Cola, senor» A La Paz l’acqua del rubinetto è meglio non berla. Le due marche più famose sono la Villa Santa (azienda boliviana) e Vital, questa è prodotta della Coca Cola. Quando vai a comprarla in una qualche “tienda”, il venditore tiene a specificare che quella che costa un boliviano di più è migliore perché «es Coca Cola senor». Come a dire: te sto a vende la Coca Cola, eh, mica robetta. E tu stai lì come Max Collini quando nota la marca “Danone” dietro i wafer Tatranky.
«No es carne, es pollo» La Bolivia non è famosa per il cibo. Ci sarà un motivo per cui la Bolivia non è così famosa per il cibo, o no? In un paio di occasioni ci è stata proposta della carne ma, rifiutandola e preferendo delle verdure (specialmente i primi giorni), ci è stato risposto più volte così: «Ma no, non è carne: è pollo!». Avremo poi scoperto col passare dei giorni che il consumo di pollo, specialmente tra gli strati più popolari della popolazione, è decisamente massivo e che se stai male con lo stomaco non è che ti mangi il riso bianco come in Italia ma il brodo di pollo.
Poche premesse perché altrimenti questo post rischia di diventare un
polpettone dei miei da quindicimila battute e non è il caso. In questo caso le ‘poche premesse’ consisterebbero nell’evitare completamente di contestualizzare la circostanza politico-sociale degli anni ’60/’70 in Italia. Sul Partito comunista italiano e i rapporti con la sinistra extraparlamentare, sulla galassia comunista che esisteva (non sopravviveva: esisteva!) ed era espressione di un movimento molto più largo. Su tutto questo, transeamus.
Nel mondo dell’extraparlamentarismo c’era vita e c’era fermento:
«Negli anni settanta i giovani non erano ancora stati massacrati dalla televisione immondizia, si credeva di poter cambiare le cose e ci si provava in tutti i modi. C’erano tante speranze, molti contenuti e avevamo delle prospettive; avevamo territorio fertile per potere inventare, azzardare, sperimentare. Trovo, purtroppo, che i giovani del duemila, nonostante abbiano tanto talento, molti più mezzi in confronto a trent’anni fa, hanno più difficoltà ad esprimersi e a trovare gli spazi». [1]
Il dedalo di riviste musicali d’avanguardia (oggi probabilmente verrebbero considerate ‘di nicchia’), dei relativi gruppi, nonché di festival musicali era davvero imponente e fittissimo agli occhi di chi, condannato anagraficamente, non ha avuto modo di conoscere quel panorama culturale, sociale, politico e musicale.
Il “Festival del proletariato giovanile” organizzato dalla rivista «Re nudo» tra il 1971 e il 1976 (in realtà ci furono altre due edizioni per i due anni successivi fino al 1978 che si discostarono completamente dallo spirito iniziale) è un esempio lampante di quello a cui si fa riferimento:
«Il periodico di Andrea e Marina Valcarenghi era dedicato alla cultura underground dell’epoca: musica, politica, fumetti, pratiche sociali alternative (chi non ricorda le prime “comuni”?), droghe e sesso. Re Nudo si fece promotore di una serie di raduni pop, i “Festival del proletariato giovanile”, lanciando lo slogan “facciamo che il tempo libero diventi tempo liberato”. […] Arrivarono in diecimila, nonostante le previsioni meteo non
incoraggianti. Si accamparono con tende e sacchi a pelo, tantissimi
senza neppure quello, ma con una gran voglia di stare insieme e
ascoltare musica. “Perché la musica è cultura, e la cultura deve essere
libera e non ci sarà censura, né recinto, né polizia che potrà impedire
tutto questo, cioè quello che è successo a Ballabio: diecimila ragazzi
sdraiati su un’erba senza muri, né recinti, né biglietti”, così
scriveva Carlo Silvestro su Ciao 2001 n. 42 del 20 ottobre 1971». [2]
Venne definita la Woodstock d’Italia.
Nell’edizione del 1975 si tenne, oltre a quella di Parco Lambro (Milano), anche un’altra festa nazionale del proletariato giovanile: quattro giorni dal 18 al 21 settembre a Licola, nell’area metropolitana di Napoli.
La kermesse venne chiamata da tre sigle: Cps, Cub, Cpu. Rispettivamente: Comitati politici studenteschi, Comitati unitari di base, Comitati politici unitari, ovvero le sigle che componevano il movimento studentesco di allora e che erano vicini ad Avanguardia operaia, Lotta continua, Partito di unità proletaria per il comunismo/il manifesto.
«L’altra novità del periodo è il consumo collettivo della musica in grandi raduni collettivi che stanno a metà tra l’intrattenimento musicale e l’assemblea politica. non a caso in questo periodo spesso sono le stesse organizzazioni dell’estrema sinistra a organizzare questi grandi incontri: Licola, Parco Lambro, Villa Pamphili sono i “luoghi” dove si ritrova la maggior parte delle formazioni e dei protagonisti del movimento progressive». [3]
Il prog è il genere di quella fase storica. Almeno alle orecchie del me tredicenne a cui un compagno di scuola fece ascoltare “In a gadda da vida” nel cortile gigante del Liceo Kant di Roma. Sonorità lisergiche, intenzioni parimenti psichedeliche ma comunque tese tutte alla sperimentazione e al voler dimostrare la forza del movimento giovanile di quella fase. Contestazione, certo, soprattutto ricerca di nuove forme. In altre parole: altroché riottismo, rivoluzione.
Giusto per non lasciare idealmente “vuota” la sezione di contestualizzazione del confronto ideologicamente e politicamente muscolare tra Pci ed extraparlamentari, va segnalata «l’Unità» dell’11 luglio 1976: la pagina 16 è interamente dedicata al festival della Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) che si sarebbe tenuta a Ravenna. In apertura gli Inti Illimani, Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Giovanna Marini ma anche I gatti di vicolo miracoli, Eugenio Finardi e un certo Francesco Guccini.
«[…] C’è chi ha detto che Ravenna vuole essere una risposta a Licola, a Parco Lambro, alle “feste del proletariato giovanile” organizzato da gruppi extraparlamentari. C’è anche chi ha parlato di sfida, di dispetto, Ravenna evidentemente vuole essere qualcosa di diverso: vuole essere l’inizio di una discussione, di un dibattito, di una riflessione sulle “feste” giovanili, su questo modo di stare insieme, di comunicare. Dice Gianni Borgna della Fgci: “Noi abbiamo sentito la necessità di fare questo primo festival nazionale dei giovani proprio perché in questi anni sono state moltissime le iniziative di questo tipo […]”. Detto questo è necessario chiarirsi un po’ le idee su cosa devono essere in concreto queste feste. Se c’è il dato nuovo generazionale rappresentato da iniziative che richiamano l’attenzione dei settori più avvertiti dell’opinione pubblica (non è un caso che le manifestazioni come quella di Parco Lambro siano finite sulle prima pagine di giornali e riviste), se tutto questo è sintomatico della crescita di un movimento bisogna pure, dicono i dirigenti della Fgci, che, da comunisti, diamo una risposta agli interrogativi che nascono […]». [4]
Che ci si creda o meno, Alan Sorrenti inizialmente fu un esponente del prog italiano e sperimentòmoltissimo nei suoi primi due dischi: “Aria” e “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto”. Non solo: veniva invitato a molte rassegne alternative, per usar linguaggio contemporaneo, proprio perché rompeva con la tradizione del cantato fino a quel momento.
Dal Corriere della Sera del 13 giugno 1974:
«”È inutile che protestiate – sbraitava al microfono Massimo Villa, presentatore del Quarto Pop Festival di Re nudo – perché non rispettiamo il programma stabilito, perché l’amplificazione non è perfetta, e così via. Sono gli aspetti di una organizzazione necessariamente empirica ma che è l’unica possibile se vogliamo rimanere affrancati dai padroni della musica”. […] Sempre ieri si sono esibiti i St. Just, i Biglietto per l’inferno e Alan Sorrenti che ha ottenuto un grande successo col suo inconsueto “cantar gorgheggiando”». [5]
Che c’entra Alan Sorrenti con le feste del proletariato giovanile? La domanda potrebbe apparire provocatoria, così come l’eventuale cinica risposta: “potrebbe non saperlo neanche lui“.
Come accennato prima, Sorrenti inizialmente aveva abbracciato la sperimentazione musicale diventando (suo malgrado? ex post forse sì) un cantante di nicchia e quasi d’avanguardia, per certi versi. Canzoni lunghissime, vocalismi e gorgheggi, tematiche oniriche e non.
Lo invitarono al festival di Licola nel 1975 ma non andò bene per niente.
«Alan, che allora faceva progressive, eseguì un brano vocale sperimentale che durò sette minuti, il brano era anche interessante per le sue sperimentazioni, ma dopo circa due minuti iniziarono i primi fischi, dopo due minuti e mezzo le prime monetine sul palco, dopo quattro volarono le zolle di terra e dopo sei abbiamo dovuto interrompere il concerto e portare via Alan con il servizio d’ordine perché rischiava il linciaggio; il pubblico aveva inteso come provocazione quel brano così lungo e particolare». [6]
Lo stesso Sorrenti al «Mattino» ebbe modo di ricordare:
« […] dopo i fischi presi al Festival della gioventù studentesca di Licola del
‘75 dove venni sommerso dalle lattine, sino a dover interrompere
l’esibizione. Per qualcuno ero troppo sperimentale, per altri troppo
politico: non ero un militante, ma un esploratore, volevo andare oltre
il prog di “Aria” e “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio
deserto”. […] Ai corifei di Lenin, Marx e Mao anche quello era sembrato un tradimento
della causa [Sorrenti nel terzo LP aveva inciso “Dicitencelle Vuje”]. Mi
piaceva lavorare sulle mie radici, sulla mia cultura. Ma anche guardare
al mondo: ero stato in Nepal, ero tornato dall’Africa con registrazioni
preziose per il mio prof. di etnomusicologia al Dams, Roberto Leydi, e
la voglia di aggiungere ritmo alle mie armonie vocali, ero pronto per
l’America, terra promessa di noi rockettari della periferia del
villaggio globale». [7]
Stoccata finale a parte, l’incontro con gli States consegnò una produzione completamente diversa: da lì nacque “Figli delle stelle”.
«Da quel momento non mise più piede nei circuiti alternativi, andò in America e poi passò alla musica pop con “Figli delle Stelle”». [8]
Locandina del film autobiografico diretto da Carlo Vanzina
Tutta questa storia solo per scrivere della singolarità dell’evento in sé: Sorrenti al festival del proletariato giovanile, dagli extraparlamentari, mentre gorgheggia e viene portato via col servizio d’ordine.
Figlio delle stelle che forse, in quel caso, erano anche un po’ meteore. O zolle di terra.
[C’è ancora tempo per un riferimento di nicchia. In “Pane e Tulipani” di Silvio Soldini, 2000, il figlio lontano di Fernando Girasole si chiama Alan: «mia moglie all’epoca nutriva un debole per Alan Sorrenti».]
Note [1] Pasquale Miniero, basso e chitarra del Canzoniere del Lazio intervistato nel libro di Gerardo Casiello, Riprendiamoci la musica, Iacobelli editore, 2022.
[3] Felice Liperi, Storia della canzone italiana, Rai Eri, 2016. [4] Paolo Gambescia, Nove giorni insieme tra musica e politica, «l’Unità» 11 luglio 1976.
[5] M.L.F. Più folk che pop per i quindicimila di Parco Lambro, «Corriere della Sera», 1974.
[6] Gerardo Casiello, Riprendiamoci la musica, Iacobelli editore, 2022.
[7] Federico Vacalebre, Alan Sorrenti e i «Figli delle stelle»: «Quel disco fu uno choc per tanti», «il Mattino», 28 ottobre 2017.
[8] Gerardo Casiello, Riprendiamoci la musica, Iacobelli editore, 2022.
Entro in un’edicola e mi fissano tutti: dall’edicolante all’anziano che compra “Il giornale di Vicenza” è tutto un muovere i muscoli del collo in direzione di questo tizio stranissimo che entra con lo zaino in spalla e il sigaro spento tra le labbra. Arriva il mio turno, chiedo il giornale ma quello che cerco non ce l’hanno. Colpa della distribuzione, dicono. Poi l’edicolante mi fa: «Ti te somigli proprio a queło esssisssiano, come se ciama…», e un altro dietro che faceva finta di leggere le prime pagine di quotidiani che arrivano – invece – solo ad Altavilla (“Le ali della libertà”, ad esempio): «Patrick Zaki», pronuncia sornione e senza minimamente distogliere lo sguardo dai suoi titoli. «Ecco!», proferisce in tono di trionfo l’edicolante, tendendo la mano aperta verso di me, come a dire “avevo la risposta sulla punta della lingua”.
Ostinato, vado anche all’altra edicola alla fine della cittadina alla ricerca del benedetto quotidiano. Pongo la stessa domanda, ricevo la stessa risposta. «Eh no, xe cołpa dełła distribussione», manco qua c’è. Rassegnato mi avvio alla macchina ma una voce mi inchioda sull’uscita. Un’anziana loquace signora, in evidente cerca di orecchie che la ascoltino, due quotidiani in mano e Famiglia cristiana sotto al braccio, mi fa: «Ti xe uguałe a mio nipote Fiłippo. Ma più di lui sai a chi somigli?». Avevo già capito dove volesse andare a parare ma, proditoriamente, difendendomi come gli istrici mostrando gli aculei, dunque accentuando ancora di più la calata romana, dico: «E se o sapessi, signò: dica». Noncurante di aver avuto a che fare con un terrone, riprende i fili del suo pensiero, fissandomi sempre negli occhi: «A queo esssisssiano, come se ciama…» E l’edicolante: «Xe vero, xe identico a Zaki!!!». Già me lo vedo, domani, il comune di Altavilla esporre il cartello giallo e nero di Amnesty International: «GRAZIE ITALIA ABBIAMO RITROVATO PATRICK ZAKI CHIEDEVA UN GIORNALE VAGAMENTE DI SINISTRA AD ALTAVILLA».
Continua la lotta incessante per la ricerca, dunque l’individuazione e l’estrazione, delle terre rare. Stavolta non accade in America Latina (celebre ormai lo scambio di tweet tra Elon Musk e l’allora presidente boliviano Evo Morales) ma in Groenlandia. La società australiana Energy transitions minerals Ltd (già Greenland minerals limited) vorrebbe procedere per vie legali per il progetto di ricerca di terre rare a Kuannersuit (Kvanefjeld in danese).
In una nota diffusa dall’agenzia Reuters il 20 luglio [2023]: «La società Etm ha dichiarato [giovedì 14 luglio ndt] di aver presentato un’istanza di reclamo presso il tribunale di Copenaghen» affinché si stabilisca riguardo il «diritto legale di poter ottenere una licenza per lo sfruttamento»1 del bacino di Kuannersuit (Kvanefjeld).
Stando al quotidiano groenlandese «Sermitsiaq»:
«La richiesta di risarcimento presentata dalla Etm al tribunale arbitrale della Danimarca è di 76 miliardi di corone danesi» in conseguenza del rifiuto del governo groenlandese di procedere affermativamente con qualsiasi tipo di attività estrattiva. L’istanza è «lunga più di cinquecento pagine e comprende fino a mille appendici»2.
Nel comunicato stampa prodotto dalla società si legge che il soggetto della controversia sarebbe la società Greenland Minerals controllata al 100% da Etm e sarebbe titolare «di licenza di esplorazione»3, legata all’individuazione di terre rare a Kuannersuit.
Ma andiamo con ordine.
Kuannersuit è il sesto giacimento di uranio al mondo, ma è anche il sito più ricco di terre rare di tutto il globo. Secondo stime effettuate dalla stessa società Etm4 si sostiene che vi si possa trovare «oltre un miliardo di tonnellate di risorse minerarie nell’area»5 in particolare il neodimio, materiale importantissimo perché impiegato nella realizzazione di nuove tecnologie nonché di auto elettriche. Proprio per questo DonaldTrump, già Presidente Usa, aveva pubblicamente dichiarato l’interesse all’acquisto dell’intera isola, suscitando indignazione da più parti, non solo in Groenlandia.
Inizialmente il partito socialdemocratico Siumut, ininterrottamente al governo del paese dal 1979, aveva acconsentito all’interlocuzione con la società nonché a generici progetti di individuazione ed estrazione. Due anni fa, 2021, le elezioni le vince il partito di sinistra radicale e indipendentista Inuit Ataqtigiit (Ia). In Italia Ia viene subito catalogato come “ambientalista”: in realtà Inuit Ataqtigiit (che tradotto significa “ComunitàInuit”) vince grazie ad una piattaforma nettamente di rottura con il precedente esecutivo socialdemocratico. Mute Egede, che ‘allora’ di anni ne aveva trentaquattro, era stato designato come candidato di Ia e durante la campagna elettorale ebbe modo di dichiarare la propria contrarietà – nonché quella del partito – ad ogni progetto di attività estrattiva nel Paese anteponendo la questione perfino all’indipendenza integrale dalla Danimarca. Il regime di autogoverno, per una volta, non venne troppo contestato: prima la salute, si era detto in quella campagna elettorale. Una volta al governo Ia ha chiuso completamente la questione arrivando a promulgare una legge apposita6 contro le attività estrattive. La norma (Act 20) è ora contestata dalla società australiana per cui viene affermata la non scientificità da parte dell’azienda che «dopo quattordici anni di lavoro in collaborazione» viene messa alla porta.
Si legge ancora nell’articolo pubblicato da «Sermitsiaq»:
«Secondo la società [Etm], il Naalakkersuisut [Governo autonomo] ha confermato per iscritto nell’aprile 2020 che Energy Transition Minerals soddisfaceva i requisiti per ottenere la licenza. In questo caso si fa riferimento al fatto che il Ministero delle risorse minerarie» avesse acconsentito e approvato le relazioni sull’impatto ambientale e sull’uomo. «Tuttavia, questo non equivale all’ottenimento di una licenza», chiosa Lindstrøm nell’articolo, «ma solo a un altro passo nel processo verso [l’elaborazione di una] decisione».
C’è di più: secondo il governo groenlandese, stando alle fonti di «Sermitsiaq», il tribunale arbitrale di Copenaghen presso cui si è rivolta la società Etm non ha la competenza per giudicare il caso.
Duro il commento di Ia:
«È vero che la collaborazione ha avuto luogo [coi governi passati ndt] e che è stata fornita una base normativa che consentirebbe l’utilizzo dell’uranio in Groenlandia. Ma in nessun momento si può affermare che la società abbia una giustificata aspettativa di ottenere un permesso per lo sfruttamento dell’area», ha dichiarato Naaja Nathanielsen, componente del governo.
NOTE:
1s.n., Australia’s Energy transition files claim for Greenland rare earth project licence, 20 luglio 2023, «Reuters», <https://www.reuters.com/business/energy/australias-energy-transition-files-claim-greenland-rare-earth-project-licence-2023-07-20/>.
2Merete Lindstrøm, Kuannersuit: ETM har opgjort erstatnigskrav til 76 miliarder, 20 luglio 2023, «Siumut.ag», <https://sermitsiaq.ag/kuannersuitetm-opgjort-erstatningskrav-76-milliarder>.
3Qui il testo della dichiarazione [in inglese]: https://wcsecure.weblink.com.au/pdf/ETM/02688604.pdf.
4Questa la stima di minerali che venne realizzata nel 2015 da Etm e rintracciabile sul sito dell’azienda stessa: https://etransmin.com/wp-content/uploads/Mineral-Resource-Table-February-2015-ETM.pdf.