Lo sfruttamento nel carrello della spesa *

Il tema dell’analisi della produzione e della filiera che sta dietro ad un certo prodotto che mettiamo nel carrello quando decidiamo di recarci presso un supermercato della Grande distribuzione organizzata (Gdo), è già stato sviscerato e problematizzato da diverse pubblicazioni scientifiche e della pubblicistica. Tra di essi c’è certamente da segnalare il valido e puntuale saggio di Fabio Ciconte e Stefano Liberti, pubblicato quest’anno.

Entrambi giornalisti e saggisti, hanno dato alle stampe per Laterza il volume denominato Il grande carrello – chi decide cosa mangiamo, andando ad indagare il comportamento pervasivo della Gdo nelle abitudini alimentari delle italiane e degli italiani. Tra le questioni sviscerate con dovizia di particolari vi è quella dell’illusione del consumatore che acquista un prodotto marchiato dalla grande catena presso cui si è recato per fare la spesa con l’illusione che sia un qualcosa di diverso da quello poco distante sull’altro scaffale. «Finiamo – si legge in una parte del saggio – per comprare prodotti diversificati nel marchio e nel marketing ma in realtà identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre un’omologazione al ribasso» (Il grande carrello, p. 57, Laterza).

E questo è del tutto vero se pensiamo alla fase che il mondo globalizzato sta vivendo da decenni: la compressione dei diritti e dei salari si riflette anche sulla produzione e sul modo di acquistare i prodotti dai produttori da parte della Gdo. Interessante e condivisibile è il punto che i due autori terminano il discorso sulle aste e, in particolar modo, sul comportamento dell’azienda Eurospin il cui comportamento ha favorito una «guerra fra poveri: da una parte gli agricoltori che non ci stanno più dentro; dall’altra i consumatori, che vogliono spendere sempre meno […] l’asta al doppio ribasso è l’ultima frontiera della trasformazione del cibo in commodity […] Senza voler stabilire un legame diretto tra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi, è indubbio che questa prassi favorisce lo sfruttamento, perché crea un collo di bottiglia che impedisce agli agricoltori di fare reddito e li obbliga in un certo senso a cercare mezzi alternativi per rimanere nei costi» (Il grande carrello, p. 68, Laterza).

È una correlazione intima e conseguente, invece, quella del legame fra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi: è il caso di porre questa relazione come necessaria in un’analisi di critica complessiva – e particolare – nei confronti del sistema capitalista nella fase attuale di crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo ha necessità di porre ai limiti della schiavitù una parte consistente della popolazione al fine di mantenere il proprio status non solo per se stesso e per le classi sociali più alte ma, paradossalmente, soprattutto per il proletariato e sottoproletariato. Là, dove la scure del sistema più iniquo e ingiusto del Mondo ha colpito più di tutto e più di tutti, ovvero i diritti legati al mondo del lavoro, ai servizi pubblici e alla salute, quello del cibo è un fattore che non può essere sottoposto a defaillances, il capitale non può permetterselo.

È storicamente, e letterariamente (si pensi all’episodio dell’assalto ai forni contenuto nei “Promessi Sposi” del Manzoni), diffuso che il popolo affamato si pone di traverso ancor di più al potere costituito che lo opprime che fino a poco tempo prima creava le condizioni affinché la classe subalterna fosse ancora più tale e permanesse nella sua condizione di indigenza. Il capitale ha dunque il compito di creare tanto il consenso quanto il dissenso: attraverso lo sfruttamento proto-schiavile di una fascia determinata di persone, quali immigrati irregolari impiegati nel lavoro bracciantile, riesce a mantenere la facciata del costo contenuto dei prodotti agli occhi del proletariato e del sottoproletariato. Da un lato permette a vaste fasce di persone di approvvigionarsi a costi oggettivamente bassi; dall’altra fa in modo che la rabbia sociale prodotta dalla mancanza del lavoro, dalla compressione dei salari, dalle tasse sempre più alte, si scarichi verso quella parte di popolazione (perlopiù composta da immigrati irregolari) che popola periodicamente i ghetti del foggiano fuori dai centri urbani (che un tempo si sarebbero chiamate baraccopoli), in Campania o in Calabria.

Il proletariato, infatti, avendo come unico orizzonte il fine del mantenimento del proprio nucleo familiare a costi piuttosto contenuti, non bada – necessariamente – alla filiera o al come un tale prodotto riesce ad arrivare sugli scaffali del supermercato a lui più vicino, tanto più se è uno che gli fa spendere poco per ottemperare al compito della spesa.

Contenere il cosiddetto malcontento popolare almeno da un punto di vista alimentare, evitando che il costo dei prodotti più cari a strati più bassi della popolazione lievitino, è il compito attuale del capitale: una porzione sempre più ingente di popolazione, bersaglio della campagna elettorale e degli slogan come “prima gli italiani”, è quella che accetta condizioni semischiavili di lavoro e al contempo il ricatto – da parte di padroni italiani, s’intende – della denuncia alle autorità, dunque il conseguente rimpatrio, qualora dovesse alzare la testa.

Incanalare l’odio sociale contro soggetti più fragili è diventato, oramai, sport nazionale dell’Italia del XXI secolo: cercare di contenere la rabbia sociale e nel frattempo avallare chi indica quegli sfruttati nell’ambito della politica e delle campagne elettorali sempre più esautorate di ogni reale contenuto politico, è la lotta del capitale. Stanare chi indica e creare coscienza di classe contro gli indicatori è il compito dei comunisti.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6332