Vie di fuga per i rifugiati ecologici

«Fare pace con la terra è un imperativo per la sopravvivenza e la
libertà». Vandana Shiva inizia così il suo percorso di oltre duecento
pagine in difesa dell’ecosistema, evitando il più possibile ogni
tentazione retorica per dare forza alla sua critica verso un modello di
sviluppo che mette a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana
(Fare pace con la terra, Feltrinelli, pp. 288, euro 18). Nelle prime
pagine si può infatti leggere: «Il petrolio è diventato metafora e
termine di paragone per tutte le risorse nel mondo della globalizzazione
delle multinazionali, mentre le guerre e la militarizzazione sono lo
strumento essenziale per il monopolio delle risorse vitali. (…) Tutte
le risorse naturali essenziali del pianeta, che sostengono la delicata
trama della vita, sono in via di privatizzazione e di
commercializzazione ad opera delle corporations».
L’autrice usa
parole dure contro i responsabili della guerra mossa alla Madre Terra,
ma invita anche a trovare le forme per uscire dal dominante regime di
«eco-apartheid» che tiene in scacco l’intero pianeta. Tutto questo fa
scaturire una riflessione riguardo il collocamento e il ruolo
dell’ambientalismo in Italia: alcuni partiti possono anche dichiararsi
apertamente ambientalisti, possono scrivere la parola «ecologia» sul
simbolo rotondo che verrà segnato dalla matita elettorale ma «il verde,
che dovrebbe essere il colore della vita e della biosfera, è sempre più
spesso sinonimo di mercato e denaro. L’economia verde potrebbe diventare
la forma suprema di mercificazione del pianeta». Le sue parole
diventano «stilettate» se si guarda criticamente al comportamento dei
«grunen» tedeschi, sostenitori di un governo che solo con molta fantasia
e immaginazione può essere definito «amico della terra», nonostante i
passi in avanti della Germania riguardo le energie rinnovabili. Vandana
Shiva non fa tuttavia riferimento a questo o a quel partito. Esplicita è
invece la sua polemica verso la «green economy», cioè quell’insieme di
proposte che persegue la mercificazione della vita sociale mascherandola
con la retorica dello sviluppo sostenibile. Da qui l’invito alla
riappropriazione della terra, piantando quei semi che le multinazionali
hanno già brevettato, privatizzandoli. «La più grande sfida che dobbiamo
fronteggiare oggi – scrive la teorica ambientalista – è quello che ho
chiamato la rapina dei nostri beni comuni da parte delle
multinazionali». Come a dire che il sistema capitalista uccide due
volte: riduce a mero numero la persona umana e a «quantità» l’ambiente
che circonda i «numeri».
Sradicare dunque l’attuale sistema economico
in favore di uno più solidale nei confronti della terra, dell’uomo e
del suo lavoro.
Temi già ampiamente affrontati da Vandana Shiva in
altri saggi e scritti. Quello che colpisce è proprio l’uso quasi
ossessivo del concetto di «bene comune», da sempre usato da minoranze
intellettuali e divenuto invece parola d’ordine di vasti movimenti
sociali, compresi quelli italiani dopo l’esperienza referendaria contro
la privatizzazione dell’acqua e il nucleare e stella polare dei
promotori del «Soggetto Politico Nuovo» di Alba.
Non è solo
l’ambiente e la «rivoluzione ecologista» il filo rosso in questo volume.
L’attivista indiana affronta infatti anche la crisi economica, facendo
riferimento alla migrazione di popoli in altri continenti e paesi
portando l’esempio del Nafta (accordo nordamericano per il libero
scambio) che ha quasi distrutto l’agricoltura messicana.
Vandana
Shiva, parla diffusamente dei contadini messicani per introdurre la
violenta esperienza di miliardi di uomini ridotti a «rifugiati
ecologici». Dopo l’espropriazione dei loro diritti civili e politici,
sono stati espropriati del loro bene primario: la terra.
Ecco quindi
che l’ambientalismo, l’ecologia si collegano alle migrazioni dei popoli
su cui «le forze razziste e fasciste sono pronte a lucrare, spingendo i
cittadini a credere che i migranti siano la causa della loro
disoccupazione e dell’insicurezza economica, distogliendo l’attenzione
dalle strutture economiche che favoriscono le multinazionali a danno
delle popolazioni e del pianeta».
Entrando nel vivo dei comportamenti
che l’uomo deve tenere con la Madre Terra, snocciolando numeri,
rapporti internazionali, biodiversità e sdoganando decaloghi per fare in
modo che si possa fare «pace»con la Terra, Vandana Shiva spiega infine
la sua idea di «verde»: un modo di vita solidale e conviviale che fugge
le sirene del consumismo. Una proposta sideralmente lontana da quanto
sostengono molti partiti che si definiscono «verdi».

Uno sterminio assolto da cronaca familiare

«Il torto del soldato è la sconfitta. La vittoria gli giustifica tutto.
Gli Alleati hanno commesso contro la Germania crimini di guerra assolti
dal trionfo». Se vinco io i miei crimini sono giustificati dall’aver
vinto, se perdo mi si ritorce contro ogni cosa. Così dice il padre della
ragazza, voce narrante della seconda parte del romanzo di Erri de Luca
Il torto del soldato (Feltrinelli, pp. 96, euro 11). Un piccolo, grande
romanzo che ruota attorno a un rapporto di affetto filiale scosso però
dalla Storia che irrompe nella vita apparentemente normale di un anziano
uomo e della sua figlia, che decide di prendersi cura di lui, non
volendo però conoscere il passato nazista del padre. Per lei, infatti,
la gravità dei crimini commessi dal genitore non mette in ombra
l’affetto e l’amore che sente per lui.
La ragazza vuole solo scrivere
una storia personale, che nel suo svolgersi qualche volta si
interrompe: digressioni, riflessioni intime che si chiudono con un
«chiedo scusa della digressione» molto poco formale. Come scrive nelle
prime righe che introducono la seconda parte del volume, reale inizio
della vicenda, sono in realtà una tenerissima confessione: «Scrivere per
me è calzare scarpe con i tacchi a spillo. Vado piano, ondeggio e mi
stanco presto. So che m’interromperò spesso».
Nel libro si parla di
come è stata soffocata la rivolta nel ghetto di Varsavia e di come i
nazisti chiamassero «puro» ogni pezzo di territorio dopo aver cacciato,
ucciso, sterminato gli abitanti ebrei. Ma brani interi sono dedicati
alle pratiche correnti, ordinarie dell’oppressione nazista. In questo
romanzo, tuttavia, Erri De Luca ha voluto porre sotto la lente di
ingrandimento l’ossessione per la sconfitta del criminale di guerra
sfuggito alla cattura e divenuto un postino che, nel suo ultimo giorno
di lavoro, riceve in regalo il libro della kabbalà ebraica. Quella sarà
la sua ossessione: cercare attraverso quel volume le ragioni della
sconfitta tedesca. Possiede occhi solo per la kabbalà e testa solo per
poter affermare che il suo torto è stato di essere sconfitto,
concludendo sempre i suoi ragionamenti con un «è la pura verità» che
lascia poco spazio a obiezioni.
Nel ripercorre il suo rapporto col
padre, la ragazza fa appello alla memoria e evoca molti episodi della
sua infanzia, tra cui una vacanza ad Ischia, dove ha incontrato un
ragazzo sordo-muto molto più grande di lei che però le ha insegnato a
nuotare. Era tenero, quel ragazzo, possedeva una dolcezza rara per la
quale si distingueva da ogni altro essere umano. Proprio quel ragazzo
che le sfiorava la pancia per farla mantenere a galla ad Ischia, aveva
ritrovato, o meglio, crede di averlo ritrovato in Trentino, dove era
andata per un’altra normalissima vacanza. Non sapeva che
quell’appuntamento con il giovane era stato prescritto al padre dalla
kabbalà.
Ha ritrovato il viso, il sorriso e i gesti di quel ragazzo
in un signore molto più grande di lei. Aveva notato che possedeva dei
fogli scritti in yiddish; anche il padre ci aveva fatto caso e si era
irrigidito. «Non mi prenderanno vivo. Ne hanno catturati mille di noi,
ma non farò la fine di una foglia d’autunno che si arrende», pensa tra
sé e sé il padre, che crede di essere stato scoperto da quell’uomo
quando aveva pronunciato la èmet, «uno di loro».
Usciti di fretta,
padre e figlia se ne vanno in macchina. Ma il vecchio nazista continua a
ripetere di non volere essere catturato; lei invece vuole ancora vivere
e così si butta dal finestrino della macchina mentre l’anziano padre
plana con la sua macchina sui verdi campi del Trentino come fosse un
aeroplano. Da quel momento in poi, la storia è riavvolta come un nastro.
Il filo conduttore saranno quei fogli scritti in yiddish, che
scandiscono una quotidianità sul filo della memoria. E del dolore.

Una lenta morte per gli invisibili dei nostri giorni

Articolo apparso su ilmanifesto del 19 maggio 2012

Dieci autori del mondo politico e culturale per raccontare il lavoro al giorno d’oggi, dieci racconti per mostrare cosa vuol dire «lavoro» in Italia e in Europa. Argomento controverso, discusso ma mai compreso pienamente dalla classe politica attuale che ha portato il mondo del lavoro alla situazione di stato comatoso e vegetativo, dal punto di vista politico, in cui versa in questo momento. Imperversa il lavoro nero ed affanna il lavoro regolarmente denunciato, annaspa il lavoro a tempo «indeterminato» ed è sempre più in voga il contratto «a tempo» o addirittura il lavoro senza retribuzione. Leggendo il volume collettivo Lavoro Vivo (Edizioni Alegre, pp. 192, euro 14) colpiscono in particolare i racconti di Carlo Lucarelli, Gianfranco Bettin e Stefano Tassinari, lo scrittore e intellettuale militante morto la scorsa settimana. Tassinari scrive del «ricordo amaro di un’assenza» (il titolo del suo racconto) e dell’attesa di un’espressione che non vorrebbe sentire «non c’è più niente da fare», quasi da film. Un padre che se ne sta seduto a fianco al letto del figlio, pieno di fili, tubi, cavi e mascherine, un padre che ripensa al perchè il figlio si era deciso ad entrare in cantiere: «per seguire quel maledetto esempio» ovvero quello dei suoi genitori che studiavano e si pagavano gli studi. Ci vuole troppo tempo per montare un’impalcatura, bisogna impiegare poco tempo per finire il lavoro e quindi niente casco perchè «non c’è bisogno di protezioni se uno sa fare bene il suo mestiere», come dice l’ingegner Bevazzi, nel racconto di Carlo Lucarelli. Spietato Lucarelli nel raccontare ciò che succede al protagonista, alla moglie e a Domenico, ex-fidanzato della moglie defunto a causa di un incidente sul lavoro. Vengono in mente le parole della canzone «Era bello il mio ragazzo» di Anna Identici, a leggere questi racconti, vengono in mente le situazioni: «Sono grande ormai lo vedi prendo il posto di mio padre/ son capace a lavorare/ non ti devi preoccupare/ Era stanco il mio ragazzo in quel letto di ospedale/ma mi disse: “Non fa niente, solo un piccolo incidente/quando si lavora sodo non c’e’ soldi da buttare/non puoi metter troppa cura per far su l’impalcatura”. /Era bello il mio ragazzo col vestito della festa/ l’ ho sentito tutto mio, mentre gli dicevo addio». «Devo dirti una cosa», questo il titolo del racconto di Lucarelli, è una storia che si dipana pagina dopo pagina, mentre sale l’ansia: un sindacalsita giovanissimo si sta occupando di morti bianche e riprende in mano il caso di Domenico, l’ex-fidanzato della moglie del protagonista. Lo esamina: è un caso strano, sembra quasi che Domenico, o «lo Scirò» come lo chiama il giovane sindacalista dandogli il cognome, sia morto su quella Vespa perchè c’era stato appositamente messo. Era andato a casa del protagonista di cui Lucarelli non fornisce il nome e dalla moglie Maria che al solo sentire il nome «Domenico Scirò» non ha capito niente e quando il marito è poi rientrato a casa gli aveva detto che era passato «un ragazzo del sindacato» che aveva «parlato per mezz’ora ma non ho sentito niente». Maria, sommersa dai ricordi e dalle parole del praticante-sindacalista non riesce ad essere serena. Qui scatta la codardia e la viltà che vuole mettere in luce Lucarelli: l’attuale marito aveva visto la morte di Domenico in cantiere. Bevazzi, il padroncino, lo prende da parte e dice di caricare lo Scirò sulla Vespa. Passa una vita intera davanti gli occhi del marito di Maria in quel momento: «Secondo giorno. Diciannove anni. Perdere il lavoro. È già morto». Accoglie le parole del padrone. Sono passati tanti anni ma quando è troppo e la misura è colma torna a casa tremando, piangendo e, mentre inserisce la chiave nella toppa della porta di casa, pensa a cosa dire e a cosa ha tenuto nascosto per anni, solo per quel sorriso che lo ha fatto e lo sta facendo innamorare a distanza di tempo: «Maria…..Devo dirti una cosa». Tenere in un angolo la verità per proseguire con la vita «normale» certo, è un pensiero nobile, ma non se poi tutto rema contro il proprio intento. Il lavoro dei manovali, degli edili che cadono dalle impalcature perchè «ci vuole troppo tempo per montarle» è simile al lavoro nero dei «bangla» a Marghera descritto da Bettin. Uomini venuti da paesi lontani, che si piantano chiodi nei palmi delle mani o che vengono ritrovati morti dalla Polizia a mare o nei canali di scolo senza identità. È un nuovo esercito marchiato a sangue da una nuova concezione del lavoro, che lo scrittore non ama e che denuncia: il lavoro non è più sinonimo di dignità; puoi perderlo p se accade l’irreparabile, è pur sempre una morte senza identità. La morte di un «x» qualunque.

Il sogno svanito di una chiesa solidale

Articolo pubblicato su ilmanifesto del 2 marzo 2012

L’idea di una chiesa cattolica, di un clero progressista – in tutte le sfaccettature del termine – è un’idea che sembra non aver mai sfiorato gli uomini religiosi. In realtà nel romanzo di Jennifer Haigh I sospiri degli angeli (Marco Tropea, pp. 302, euro 17,50) Artur, chiamato col nomignolo di Art dalla sorella-narratrice, ha un’idea fortemente progressista: avrebbe voluto vedere una chiesa al passo con i tempi, una chiesa che si adattasse e calzasse come un guanto le sue istanze di quattordicenne appena entrato in seminario a Boston. Per un ragazzo non di città ma di una piccola cittadina come Grantham, Boston era quasi un miraggio. Il sogno della grande città però si scontra subito con la dura realtà di una chiesa fortemente gerarchica e conservatrice che del progressismo e della modernità non sapeva proprio cosa farsene. Art o Padre Breen si è sempre sentito come un pesce fuor d’acqua nella città dove ha vissuto. Per fede o per uscire dai confini della piccola città decide di prendere i voti giovanissimo, a quattordici anni. Peregrina di parrocchia in parrocchia, si scontra con le autorità clericali bostoniane, intrattiene rapporti d’amicizia con i vari fedeli e specialmente con la cuoca del Sacro Cuore. Parlano spesso lui e Fran Conlon, gli fa conoscere sua figlia Kath e il suo nipotino Aidan. Egli diventerà, ad un certo punto, la sua unica ragione di vita: se lui è presente, Art è felice; se lo deve andare a prendere a scuola, il «piccolo» parroco di provincia è felice. Via con lo scandalo pedofilia, dunque, fulmine a ciel sereno per Art che viene allontanato dalla parrocchia il giorno prima del Venerdì santo e relegato in una sorta di case popolari per mariti divorziati e magari anche senza lavoro. Sgomento e preoccupazione assalgono Art, assalgono la sorella/narratrice che non poteva minimamente immaginare tutto quello che si imputava al fratello potesse essere reale. Le stesse sensazioni di ansia che non assalgono la famiglia del sacerdote che si chiude in se stessa, diventa introversa nei confronti di tutta Grantham, non avrà più contatti col mondo reale. Tra le pagine pesanti come macigni, per accuse, ansia e poca scorrevolezza, si dipana un mondo che non si potrebbe immaginare, una situazione difficile per la quale si potrebbe essere «coinvolti anche ingiustamente», sembra dire l’autrice. Così, tra Grantham, Boston, tra le periferie delle città che non si sentono metropoli ma ecosistemi a parte, tra il mito dell’Italia, di Roma, del clero Vaticano, si dipana la triste vicenda di Art., partito da una piccola città pensando che la chiesa potesse aiutare a costruire un mondo migliore. E finito a scoprire che quel mondo migliore era solo nella sua testa e non in quella della gerarchia ecclesiastica.

Ricordi a passi di danza

«La Ballata di un amore italiano non nasce libro – spiega l’autore – ma
testo teatrale per uno spettacolo che scrissi qualche tempo fa».
(Ballata di un amore italiano, Davide Longo, Feltrinelli, pp. 111, euro
12). Longo, infatti, prima di romanziere, nasce come sceneggiatore di
teatro e di programmi radiofonici. La sua ballata prende forma durante
la frequentazione della scuola di scrittura Holden di Torino. Doveva
essere portata in teatro, ma poi è diventata «radiodramma in cinque
puntate» con tanto di voce di Natalino Balasso. Ma poi, lavorando e
meditando più e più volte sul testo, tagliando e cucendo varie parti, ne
è uscito fuori un romanzo con l’ambizione di essere innovativo, perché
alterna prosa e versi. Un prosimetro? Non proprio. Semmai, un romanzo
che vuole intervallare delle parti in prosa a delle parti in rima in cui
Renata, protagonista della scena principale delle pagine, parla con se
stessa o forse parla anche con qualcuno ma che non sta ad ascoltare. Un
dialogo con se stessa, magari una confessione.
Tutto si apre con
delle prove, il sound check dell’orchestra che accompagnerà Checco,
l’altro protagonista, e Renata per tutta la durata delle centosei pagine
del libro. Le pagine scorrono in fretta, una dopo l’altra come le
canzoni suonate dall’orchestra (a volte denominata con una punta di
disprezzo «orchestrina»), brani che riportano i due protagonisti ai
tempi lontani della loro gioventù. Passano i secondi, i minuti delle
canzoni come i ricordi e allora via con la carrellata di «amarcord» che
fa tornare Checco in decappottabile e Renata lasciata sola durante le
nozze proprio dal novello sposo. Motivi di lavoro, perdonati, ma
riaffiorano tutti, senza alcun rimpianto o nessun tipo di rimorso. C’è
solo il ricordo di qualcosa che non c’è più. «Un altro giorno è andato/
la sua musica ha finito/ quanto tempo ormai passato, passerà», scriveva
il cantautore Francesco Guccini.
Longo percorre le canzoni di
un’Italia che ha conosciuto tempi migliori, come l’amore di Checco e
Renata che però a distanza di anni rimane solido perché hanno voglia di
riscoprirsi. Lui che litiga con la famiglia di lei, la abbandona durante
le nozze, ha ancora qualcosa da dire e, mentre la cantante
dell’orchestra si destreggia tra un sol diesis e un la minore, Checco e
Renata giocano a chi si ricordava più dettagli del primo giorno in cui
si sono incontrati o com’erano vestiti alla festa di chicchessìa e via
dicendo.
Giocano a fare i ragazzi, forse lo sono ancora sotto la loro
età anagrafica che si può solo percepire. Giocano a fare gli
innamorati. Il tutto intervallato con momenti di riflessione in versi,
momenti in cui l’autore taglia con l’accetta il tempo trascorso, la
notte che Renata ha trascorso da sola a Capri perché Checco doveva
tornare indietro. Alle canzoni, ai ricordi, al tempo trascorso, ai
numerosi alcolici, si aggiunge il ballo, altrimenti che «ballata»
sarebbe?
Ballando tornano indietro nel tempo, si rivedono giovani,
attirando gli sguardi degli altri mentre ondeggiano tra una nota e
l’altra. Ma a loro non importa.