Da Roma parte la resistenza contro la “scuola 4.0” – Atlante Editoriale

«Tutto è iniziato quando a maggio il Consiglio d’Istituto del Liceo Classico “Pilo Albertelli” di Roma ha votato l’approvazione dei progetti legati al Pnrr scuola e legati alla “scuola 4.0” (dunque “classroom & labs”)». A parlare è Mauro Giordani, uno dei genitori che ha promosso il dibattito e l’assemblea che si terrà oggi a Roma presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

La “pioggia di denaro”, in parte a debito in parte a fondo perduto, investirà anche e soprattutto la scuola ma non per rimetterne in sesto le infrastrutture che sovente crollano in testa agli studenti, neanche per diminuire gli studenti per classe o per assumere personale docente e non docente, bensì per avviare un processo di massiccia digitalizzazione della didattica. Dal Liceo Classico “Pilo Albertelli” di Roma è arrivato un secco “niet” e, a seguito delle iniziative all’interno della scuola, si è deciso di aprire il dibattito: appuntamento alle 16:30 presso l’aula 1 della Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Un’iniziativa di protesta o di proposta?
«Qualcuno ha scritto che si è trattata di un’iniziativa di protesta ma è il contrario: si è trattato di un organo collegiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, nell’ordine del giorno, ha discusso e approfondito. E ha espresso una posizione motivata.
Da molte parti la critica che ci è stata rivolta è stata quella di essere stati anti-tecnologici, luddisti e via dicendo. La realtà è una: l’organo collegiale, anche se pochi ci possono credere, è un organismo che discute e ragiona, in cui si cresce collettivamente.
La delibera è uscita come un punto di vista condiviso tra parte genitoriale, studentesca e docente. A seguire, c’è stato un attacco molto violento sia da parte della stampa che da parte della scuola, in particolare una parte di genitori che non era d’accordo con la decisione.
Dunque abbiamo convocato un’assemblea aperta alle componenti scolastiche (c’erano circa 150 genitori, 25 studenti, una quindicina d’insegnanti) in cui abbiamo ribadito le nostre posizioni e ragioni. Al termine di questa lunghissima e partecipata assemblea, il giudizio quasi unanime è stato a proposito della prosecuzione con la decisione assunta in consiglio d’istituto.
Questo evento ci ha fatto capire come ci sia un gran bisogno di approfondire, riflettere e confrontarsi: se si innescano processi virtuosi, si capiscono anche i processi in atto nei confronti della scuola pubblica. La verifica sul campo ci ha fatto capire, oltre alle centinaia di messaggi di solidarietà e supporto che ci sono giunti da tutta Italia, nonché di condivisione della nostra scelta, che in questo momento storico dibattere e discutere serve e sono momenti ineludibili. Abbiamo convocato l’assemblea aperta che vedrà il collegamento online per chi risiede in altre città e vorrà partecipare».

La motivazione principale emersa dal dibattito nei confronti della Scuola 4.0 e del Pnrr qual è stata?
«La riflessione è stata su due livelli: la prima sulla proposta specifica del Dirigente Scolastico, dal momento che i progetti erano davvero ridicoli (“Next Generation labs e classrooms”)1. La seconda, la critica più importante, si è concentrata nell’insieme del Piano Scuola 4.0. Siamo partiti dalla constatazione per cui così come tutto il Pnrr, la cui scrittura sappiamo essere stata appaltata dal Governo di Mario Draghi ad una multinazionale di servizi strategici come la McKinsey, così anche i contenuti del Piano Scuola parrebbe siano stati elaborati da una società privata».


Dunque, già esternalizzando di fatto il piano per i finanziamenti alla scuola?
«Questo testo non è stato scritto da persone di scuola: in tutto il documento non c’è alcun riferimento pedagogico, né con una bibliografia scientifica, né altro. Ogni riferimento è all’OCSE e al World Economic Forum. Laddove siamo andati a verificare queste citazioni, abbiamo notato che sostengono delle cose contrarie a quanto riportato nel Piano Scuola 4.0»

C’è un’approssimazione a monte, allora?
«Diciamo che c’è un’assenza totale di scientificità. Dal 2013 è stato attuato il Pnsd (Piano nazionale scuola digitale): sono state istituite migliaia di classi 2.0 e non c’è stato uno straccio di indagine conoscitiva sui risultati prodotti da questa “prima ondata” di digitalizzazione nella scuola. Anzi. I dati che abbiamo (dalle misurazioni OCSE, ai quali non riconosciamo una valenza reale, dato che siamo contro la standardizzazione e oggettiva delle conoscenze e delle competenze) testimoniano come là dove si agisce con una digitalizzazione spinta, peggiorano i risultati di apprendimento2.
Anche se sono casi non riferiti unicamente all’Italia, bisogna tenerne conto; così come del fatto che anche i paesi più avanzati, che in Europa sono stati pionieri nella digitalizzazione dell’apprendimento, stanno tornando indietro. A tal proposito vale la pena segnalare il testo “Demenza digitale” del neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer (2012, Corbaccio editore), il cui termine è stato coniato in Corea del Sud a seguito dei danni prodotti, nell’arco di 15 anni, dalla digitalizzazione massiccia sugli adolescenti»

Economia versus scuola, verrebbe da dire….
«Non c’è davvero un riferimento scientifico a risultati che sostengono che il digitale faccia bene, anzi, i pochi dati dicono il contrario. A tal proposito, siamo a conoscenza, come molti interessati all’argomento, di un documento del 2021 votato all’unanimità dalla settima commissione permanente del Senato della Repubblica, nel quale si sosteneva come, dopo aver portato avanti delle audizioni per due anni, gli specialisti (dopo aver consultato e studiato letteratura scientifica a riguardo) siano arrivati alla conclusione per cui il digitale3 danneggia l’apprendimento e, addirittura, determinava redditi inferiori per gli studenti4.

Questo avveniva un anno prima del licenziamento del decreto da parte del Ministro Bianchi che implementava la digitalizzazione nella scuola (il piano scuola 4.0) andando in direzione esattamente contraria.

Dunque la “più grande opera di trasformazione del sistema scolastico italiano”, com’egli stesso l’ha definita, è una riforma strutturale, profondissima e strategica che non solo non passa per il Parlamento, come democrazia vorrebbe, e neanche negli organi collegiali, ma va in direzione opposta e contraria a quanto il Parlamento aveva analizzato e concluso un anno prima».

L’opposizione maggiore di chi è a favore dell’investimento digitale nella scuola risiede in un’affermazione che recita più o meno così: “per una volta che arrivano dei soldi alla scuola dopo anni di tagli, conviene accettare”, è davvero così oppure no?
«C’è da dire che sono tutti soldi a debito: i nostri figli e i nostri nipoti pagheranno determinate scelte» 

Senza sapere davvero a quanto ammonti il tasso d’interesse di restituzione. Tornando a noi…
«È chiaro che la scuola italiana ha bisogno di soldi ma “che tipo di soldi” e “per fare cosa”. Nessuno dei problemi storici, principali e attuali, vengono trattati dal Piano scuola 4.0 e per mezzo dei fondi del Pnrr».

A cosa ti riferisci?
«Mi riferisco alle esigenze strutturali, alla continuità didattica, alla stabilizzazione del personale, alla possibilità di creare e utilizzare spazi idonei per la didattica e per momenti altri che consentano un benessere per gli studenti al di là della didattica… Servirebbero una montagna di soldi per un’altrettanta ingente montagna di problemi».

D’altra parte il Pnsd che evocavi precedentemente ha dato un impulso alla digitalizzazione molto forte.
«Ci sono più piani di lettura. Stiamo parlando di una montagna di soldi che, anziché andare ad interventi strutturali (in senso lato: edilizia e stabilizzazione precari), s’è preferito investire in materiale di consumo che ha una rapidissima obsolescenza tecnica. I dispositivi acquistati 5 anni fa non vanno già bene: si devono comprarne degli altri i quali, ciclicamente, dovranno essere sostituiti a loro volta. La scuola diventerebbe una grande “partita di giro” per allocare risorse pubbliche a privati che devono vendere giacenze di magazzino.
L’altro piano di lettura è quello legato ad un intervento strutturale che investe la trasformazione profonda della didattica: non è opera onesta, corretta e trasparente quella per cui si sostiene che approvare un piano tale andrebbe semplicemente ad arricchire la dotazione tecnologica della scuola e andrebbe a finanziare qualche progetto. Il sottobosco di obblighi che non possono essere elusi da parte della scuola non è minimamente citato da nessuna parte e concerne evidentemente alla formazione obbligatoria dei docenti. Nonché alla loro classificazione in sei distinte categorie (da A1 a C2). Classificazione strutturata sulla base dei risultati nell’ambito delle competenze digitali. Da settembre, se non prima, i docenti saranno costretti a frequentare determinati corsi che non necessariamente aggiungono un “quid” all’insegnamento della disciplina. Ma questo perché si pensa al superamento delle discipline. La nuova idea che sta alla base del tutto è che il digitale sia una modalità di pensiero e non un semplice strumento: è una mutazione antropologica, si sta parlando dell’evoluzione dei soggetti in crescita e ha a che fare: con l’evoluzione del pensiero critico, ha a che fare con la classe come comunità ermeneutica all’interno della quale si costruisce collettivamente il sapere. Isolando il soggetto di fronte alla macchina, utilizzando la stessa anziché la molteplicità di forme di mediazione delle conoscenze che si hanno nella scuola, si ha un isolamento e una passivizzazione. La macchina diventerebbe perlopiù veicolo di contenuti sotto forma di software proprietari che la scuola dovrà comprare e i docenti dovranno utilizzare (per cui verranno conseguentemente retribuiti e gerarchizzati). Finirebbe il pluralismo della scuola italiana».

Il fondamento costituzionale della scuola, in sostanza.
«Ci sarà una monotematicità digitale. Gli insegnanti da erogatori di conoscenze devono diventare ‘talent scouts’. L’insegnante sarà colui che appronta l’ambiente digitale per poter permettere allo studente di acquisire conoscenze attraverso altre vie. Per noi questo è stato il problema centrale: la trasformazione in profondità della didattica del processo insegnamento-apprendimento; la snaturazione del ruolo del docente; la capacità di pensiero critico che viene inficiata».

NOTE:

1Dal documento prodotto: «1. Next Generation Labs. Questo progetto prevede lo sviluppo delle “professioni digitali del futuro” che gli studenti el Liceo Albertelli dovrebbero acquisire: “esperti in Video Making, Produttori di Musica Digitale, Curation Manager (cura le nuove uscite nelle playlist, sic), Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor, Digital Media Curator…”. Secondo il testo del progetto, le relative “competenze digitali specifiche” sono: “saper girare video con uno smartphone, saper realizzare filmati e pillole per i social con attenzione crescente ai contenuti per le Instagram stories, saper analizzare i dati e i trend di ascolto streaming dei brani musicali…”. Per queste nuove competenze si sarebbero spesi 124 mila euro, di cui oltre 12.000 per “progettazione, spese tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”: crediamo che esse mostrino un’estrema povertà di contenuti e stridano con gli obiettivi di un liceo, cioè insegnare a tradurre dal greco, a comprendere la storia e la fisica, avere una capacità critica e un metodo di studio, non a usare Spotify e Instagram.
2. Next Generation Classroom. Prevede l’acquisto di digital board, tablet e stampanti al fine di trasformare le aule scolastiche in “ambienti ibridi” di apprendimento: questo nuovo assetto dovrà determinare a cascata “innovazioni organizzative, didattiche, curricolari, metodologiche” che si adeguino alla “velocità delle comunicazioni” che caratterizza la nostra società. Molte parole vengono spese “sul benessere emotivo e lo stimolo relazionale, sullo sviluppo dell’empatia” degli studenti o sul “rendere protagonista l’alunno che si avvicina sempre di più alla scelta consapevole del proprio ruolo nella società”, senza che però vi sia alcuna spiegazione o evidenza su come i dispositivi digitali possano concorrere a questi obbiettivi. Neanche una parola invece è riservata alla profondità delle conoscenze che sono necessarie per comprendere – e non solo subire – una società sempre più complessa. La nostra scuola è già dotata di 41 smart TV, 7 proiettori, 49 PC Notebook, 41 PC Desktop: pertanto ci sembra irrazionale ed antieconomico sobbarcarsi collettivamente un debito di circa 150.000 € (di cui 15.000 solo per spese di “progettazione, tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”) per ulteriori attrezzature multimediali che hanno una vita media brevissima e che quindi acuiscono, anziché arginarla, la percezione di vivere in un mondo effimero».

2«[…] nonostante i considerevoli investimenti in computer, connessioni Internet e software per uso didattico, ci sono poche prove concrete che un maggiore uso del computer tra gli studenti porti a punteggi migliori in matematica e in lettura».

3Il documento è reperibile qui: <https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/42324.htm>.

Nel testo si legge: «i sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacita` di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica. Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche. E` quanto sostengono, ciascuno dal proprio punto di vista «scientifico», la maggior parte dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle forze dell’ordine auditi. Un quadro oggettivamente allarmante, anche perché evidentemente destinato a peggiorare».

4Più precisamente, il documento recita: «Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri».

Articolo pubblicato su «Atlante Editoriale»: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-da-roma-parte-la-resistenza-contro-la-scuola-4-0/

Classe digerente [o “fegati dirigenti”]

In un’appassionata discussione, quanto pigramente sopportata dalla maggioranza dei presenti, relativa alla somma di fondi che andrebbero elargiti tramite l’approvazione di progetti e voci di spesa in ambito dell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), a un certo punto prende la parola un collega. 

Uno di quelli giusti, uno di quelli che ai lavoratori ci tiene “nonostante il sindacato”, confederale ça va sans dire. Uno di quelli ‘militanti’ che distribuisce la stampa della propria organizzazione con pedissequa abnegazione e ossequioso rispetto di strutture gerarchicamente settarie ma all’apparenza perfettamente ben oliate nell’organizzazione.

Prende il microfono. Ringrazia i presenti per il dibattito, come ad attribuirsi capacità di sintesi a seguito delle sue parole e in forza di esse.
Dice che di quanto detto fino ad ora, riguardo cifre e voci di spesa, non ci ha capito nulla ma che sa benissimo una cosa: “la tecnologia si domina”. L’uomo è in grado di farlo, manifestando una invidiabile fiducia più che positivista.
Dice che gli studenti che forma la scuola secondaria di secondo grado sono “forza lavoro” e che fuori dalle mura scolastiche “andranno comunque a lavorare e faranno arricchire altri” ma che “è un’altra storia e si aprirebbe un capitolo troppo lungo”.
Dice anche che, in fondo, tutta questa verve passatista non la capisce: “non amo molto Pasolini e quello che diceva sul passato era sbagliato”. Non bisogna rimpiangere per epoche che ci si è lasciati alle spalle da almeno un quindicennio o più; peggio ancora se il passatismo è rivolto ad epoche non conosciute, rimpiangendone esoticamente (o letterariamente) i fasti o quel-che-fu

Insomma: i ragazzi forza lavoro. Alla malora chi pensa che l’istruzione serva davvero a qualcosa, che possa essere e rappresentare un percorso di crescita per migliaia di ragazzi, di sviluppo della consapevolezza di sé, dello spirito critico e – scusate se è poco – per imparare quel che precedentemente non era conosciuto. 

E menomale che è uno di quelli che si dichiara pervicacemente marxista e che, nella sua organizzazione gerarchica, ne rappresenta anche un dirigente di primo piano.

Classe digerente, più che dirigente.

Poveri noi.
(E poveri figli).

L’immagine a corredo dell’articolo rappresenta l’Hotel Uzbekistan di Tashkent.

«Il Governo difende gli interessi di una parte. Rdc? Con 3/4€ l’ora non si va da nessuna parte: subito salario minimo» – Atlante Editoriale

L’altra manovra/1: Parla Maria Vittoria Molinari (Asia-Usb)

Siamo agli sgoccioli, dell’anno e della Legge di bilancio. Lo spettro dell’esercizio provvisorio, temuto e agitato da più parti, sembra essere stato allontanato e scacciato dal governo a suon di voti di fiducia e modifiche alla manovra.
La “manovra coraggiosa” è solo un ricordo della prima conferenza stampa: il Governo, d’altra parte, si è sempre sincerato di non causare troppi malumori nei confronti dell’UE e dei settori produttivi (Confindustria).
Per dare una lettura diversa della manovra, abbiamo voluto intervistare Maria Vittoria Molinari dell’Asia-Usb di Tor bella monaca, che nel quartiere di Roma est coordina la sede territoriale di via dell’Archeologia (comprensiva di sportello sindacale e di Caf).

Ad inizio mese USB e i sindacati di base tutti (dal SI Cobas all’USI) sono scesi in piazza per denunciare la Legge di bilancio e il finanziamento all’industria bellica: “Alzate i salari, abbassate le armi”, come mai questo titolo?

La questione centrale rimane il salario: ci si muove all’interno di un meccanismo di produzione e di un sistema economico che continua a fare dell’Italia il paese in cui i salari sono diminuiti. Nonostante di quel che ha scritto l’Istat ultimamente: sono cresciuti rispetto a cosa? A quale situazione di partenza?
Tutte le misure prodotte da parte di ogni governo che si è alternato al potere nel corso di questi ultimi trent’anni hanno attaccato il salario delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come giudichi questa manovra?

Rappresenta l’interesse di una parte, cioè: di gruppo sociale che intende rappresentare la Meloni. L’introduzione della flat tax così come attuata, l’attacco al Reddito di cittadinanza, stanno significare solamente una cosa.

Quale?

“Difendiamo una parte della società e tartassiamo l’altra”, così da espandere la platea del cosiddetto “esercito industriale di riserva”.


Tu vivi una realtà lavorativa, nonché di attivismo sindacale, molto peculiare, cioè quella di Tor bella monaca. Dal tuo punto di osservazione (sportello sindacale USB e Caf) ti ritrovi con quanto viene detto in questi anni sul Reddito di cittadinanza e sull’assegno di disoccupazione (Naspi). Combacia con quanto accade nella periferia romana?

Da queste parti, il Reddito di cittadinanza ha permesso alle persone di poter mangiare e non sto scherzando. Il contesto lo conosciamo tutti: il connubio tra disagio sociale e povertà si è acuito sempre di più col passare degli anni e molte persone, attraverso la misura ora contestata del reddito, hanno avuto possibilità di poter acquistare beni di prima necessità.
È vero che noi agiamo in un territorio con tantissimi problemi, anche più grandi di quello legato a reddito; siamo in uno dei municipi più grandi di Roma nonché quello più povero ma c’è anche da dire che molti lavoratori prendevano l’integrazione, insomma: la variabile di problematiche e di casistiche è molto molto più fitta della narrazione imperante che vorrebbe il percettore medio del beneficio “seduto sul divano senza voglia di lavorare”.

Nell’immaginario collettivo, però, si è ormai fatta strada questa tesi.

Dobbiamo destrutturarla completamente. Si sono sentiti numeri e dati completamente senza cognizione di causa, nel corso di questi mesi, volti a creare questo clima e quella specifica narrazione di cui parlavi. S’è sentito di percettori del reddito arrivare a 1.200€ e 1.500€: numeri assurdi!

È irreale arrivare a percepire quelle cifre?

Chi arriva a quella cifra è: una famiglia numerosa (quindi con molti figli e sicuramente piccoli) ma con almeno uno disabile. Altrimenti si prendono 500€ o più, ma sempre parametrato con i componenti del nucleo familiare.
Si danno numeri che non capisco se li danno perché non conoscono la misura di cui parlano, oppure perché stanno creando il clima della guerra fra poveri.

C’è anche l’altro capitolo del governo, ovvero quello legato al lavoro: chi percepisce il reddito – si dice – è meno predisposto a voler lavorare: è così?

Assolutamente no. Mi spiego meglio: al nostro sportello si rivolgono persone che percepiscono il reddito e che desiderano avere un’occupazione. Il punto centrale è che si vuole togliere questo beneficio così da rimpolpare le fila di quell’“esercito industriale di riserva” di cui parlavo prima e sfruttare meglio. In sostanza: per avere più manodopera ben disposta a farsi sfruttare.

Torniamo al tema del salario minimo, in sostanza.

Parte tutto da lì, così come il conflitto tra il capitalismo italiano in alcune fasi della discussione e delle modifiche della Legge di bilancio: il contrasto tra Banca d’Italia e Confindustria nasce proprio da questa tematica. Per l’unione degli industriali il reddito è una misura da contestare perché, altrimenti, gli imprenditori non avrebbero grandi disponibilità di personale che può essere sfruttato a basso costo. Stiamo parlando di salari che, spesso, partono da 3 o 4€ l’ora.
Da anni, prima con la campagna “Schiavi mai!” poi ora con la questione legata al salario, ci battiamo per una giusta paga: il nuovo governo ha suonato il De profundis a questo tema.
Riguardo a tutto ciò va detto che sta affacciandosi anche l’altro tema, quello dell’automazione: ci sono dei settori dell’industria per cui una macchina riesce a sostituire il lavoro di 5 o 10 persone.

Intendi la transizione dall’industria metalmeccanica alla cosiddetta “meccatronica”?
Precisamente. La disoccupazione che verrà generata da questa “svolta” come verrà gestita? Milioni di disoccupati. Come campano? Letteralmente.

Oltre a questo, riguardo la manovra ha altre ombre riguardo i fondi del Pnrr, per cui già settori della società civile si stanno mobilitando (penso alla campagna lanciata dall’associazione Openpolis). Secondo te il “Piano di ripresa e resilienza” rappresenta davvero un fattore positivo?

A tal proposito c’è da dire questo: qualche tempo fa qui a Tor bella monaca avrebbe dovuto esserci la presentazione del piano per Via dell’Archeologia (130 milioni di euro) [1].
La difficoltà dei comuni, allo stato attuale, non è solo quella di poter mandare avanti la progettazione, ma anche quella di reperire le materie prime per i rincari causati dai fattori che ben si conoscono (guerra, inflazione etc). Come restituiremo questi soldi? Intendiamoci: finalmente intravediamo qualcosa di positivo per l’R5 e per le Torri. Ma il Pnrr è un finanziamento in parte a fondo perduto e per molta parte a debito. C’è chi sta tornando a parlare del Mes: torneremo a indebitarci di nuovo. 
Note:
[1] Roma, con fondi Pnrr interventi a Corviale, Tor Bella Monaca, Tor Vergata e Santa Maria della Pietà – Adnkronos.com

Articolo pubblicato su «Atlante Editoriale»