Per Lorenzo Parelli [contro l’alternanza scuola-lavoro]

Dallo scorso anno, da quando si verificò l’ennesima morte di un ragazzo nel percorso di alternanza scuola-lavoro, nelle tracce dei temi che propongo alle classi ho deciso che avrei inserito  a tempo indeterminato (al contrario del mio contratto) la questione del Pcto (ex Asl) e della vicenda di Lorenzo Parelli.

Fino a quando si continuerà con l’assurdità dello sfruttamento di manodopera scolastica a-salariata, fino a quando si parlerà della necessità di far emergere “lo spirito d’imprenditorialità di ogni studente”, fino a quando si parlerà di scuola attraverso frasi fatte e stereotipi, fino ad allora ogni anno ci sarà una traccia per ricordare Lorenzo Parelli e la sua assurda morte a 18 anni. 
Di seguito, la traccia che propongo agli studenti.
Il 22 gennaio 2022 Lorenzo Parelli, studente di 18 anni di Udine, è morto mentre svolgeva l’ultimo giorno di tirocinio-stage presso un’azienda siderurgica di zona. La notizia si è propagata attraverso tutti i media e sulla gran parte di canali informativi nazionali: condanna unanime nei confronti dell’azienda e della questione di evidente lavoro senza sicurezza.
Nei giorni successivi all’accaduto s’è sviluppato anche un dibattito riguardo la necessità dell’obbligo, per studentesse e studenti, di svolgere un certo numero di ore di Alternanza Scuola-Lavoro, così come imposto dalla legge del 107/2015 (cosiddetta “Buona Scuola”).
A tal proposito lo storico Alessandro Barbero, docente presso l’Università del Piemonte Orientale, due anni fa ha avuto modo di dire: 

«[…] Il grande movimento di democratizzazione della scuola che ha voluto l’istruzione e l’inclusione per tutte le classi sociali (cioè la possibilità di andare a studiare senza sapere a cosa servirà “dopo” quel particolare argomento di quella disciplina) ha dato una spinta enorme all’uguaglianza e alla parità tra tutti per evitare che si andasse a lavorare anziché studiare da minorenni. Imparando a conoscere anzitempo sofferenza, privazione della propria età di vita, sfruttamento, così come è successo ai nostri nonni o ai nostri padri.
Tutti, per farla breve, avrebbero dovuto studiare e diventare “studenti” nel verso senso della parola, senza l’obbligo o il ricatto di dover lavorare perché le misere condizioni di partenza della propria famiglia non avrebbero consentito l’accesso agli studi ai figli. A partire da un certo momento storico, nell’era del post-ideologico (con la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione sovietica del 1991 etc), s’è iniziato a mettere politicamente in discussione alcune questioni relative all’insegnamento e alla scuola in generale: “in fondo il latino non serve”: era utile quando a scuola c’erano solo padroni ed élite, ora non è più utile; “il libro di testo allo stesso modo è superato”: tanto c’è internet, e via dicendo. S’è arrivati a dire che, in fondo, i ragazzi nati negli anni ’80 e ’90 sono stati dei privilegiati: hanno passato tutta la loro adolescenza a studiare senza fare un giorno di lavoro e non posseggono risorse spendibili nel “mercato del lavoro”. Impostando il discorso in questo modo non se ne esce facilmente, così viene estratta dal cilindro l’idea che per essere studente non serve studiare perché bisogna anche saper fare: dimostrare di fare qualcosa realmente e non solo riuscire ad applicarsi su teorie e manuali. In altre parole: bisogna che i ragazzi tornino a lavorare, ecco “l’alternanza”: perché se tu fai qualcosa adesso è bene che ti metta da subito in testa di utilizzare quelle cose che stai imparando per il “dopo”». 

Ragiona sul fatto accaduto e sulle parole del prof. Barbero esprimendo un tuo parere in un articolo d’opinione.

Pedagogia marittima a Coccia di morto

Focene. Fossimo in una sceneggiatura ci sarebbe scritto: Focene: esterno giorno assolato, o cose simili. 
Per la precisione, tuttavia, la spiaggia era quella di Coccia di morto, un toponimo allegro e che suscita immagini del tutto gioconde alle orecchie di chi lo ascolta per la prima volta. 
La spiaggia è affollata e l’ora, circa mezzogiorno, è quella della ressa anche al chiosco della spiaggia libera attrezzata, così si dice. La fila per un ghiacciolo, un caffè, una birra, un gelato e altri generi di questo tipo è del tutto insostenibile: sembra d’essere in fila sul raccordo, un tristo presagio per il pomeriggio quando si dovrà tornare indietro e si dovrà affrontare il lungo serpentone di macchine vòlte a tornare a casa dopo la giornata di mare.
Ce ne stiamo pazientemente in coda aspettando il nostro turno, mentre la musica reggae/raggamuffin e cose affini è sparata dagli altoparlanti ad un volume eccessivo. Il ritmo in levare dopo un po’ inizia ad essere ripetitivo, così come i bassi che sovrastano in maniera spropositata la linea melodica delle canzoni. Sotto una pioggia di Babylon, Eeeeh, raaaassstaman madre e figlia intrattengono una conversazione interessantissima.
Una donna e una ragazza sono dietro di noi, madre e figlia. La genitrice è tatuata e del tutto super abbronzata, avrà avuto una quarantacinquina d’anni; la figlia è una tipica adolescente romana ‘in fieri’ di periferia con un piercing sulle gengive, anche se non saprei dire a quale lembo di pelle si attaccasse il pezzo di metallo dal momento che la posizione dell’orecchino non lasciava tradire alcun appiglio.
Figlia: «Me vojo tatuà qualcosa su a spalla, mà», la madre, pur consapevole delle nuove epifaniche esigenze dei giovani, risponde: «e che te voresti tatuà, sentimo».
La figlia, entusiasta del potenziale spiraglio assertivo concessole dalla madre nel corso della conversazione, le risponde entusiasta: «qualcosa n spagnolo, tipo ‘nada se olvida’».
«E che vordì?», le risponde giustamente la madre, ribadendo una distanza concettual-linguistica tutta a suo vantaggio.
«Vordì ‘niente se dimentica’», le risponde fiera la figlia.
«Niente se dimentica?», «Sì!».
«Ma che te voi dimentica che c’hai quindic’anni, ma falla finita».
Applausi.