In questo mese è capitato più di qualche volta che ragazze e ragazzi delle mie classi (più le prime, per la verità) mi sollecitassero a parlare con loro della questione russo-ucraina. È una loro esigenza cercare di capire quel che succede, non già per perdere ore di lezione, quello lo fanno già normalmente stando stravaccati sul banco alzando la mano solo per chiedere di recarsi nel giro peripatetico d’ispezione della fissità scolastica (altresì noto come «posso andà ar bagno?», rievocazione dell’«annamo a pijà r gelato» di zerocalcariana memoria). È una loro esigenza, dicevo, perché tra supplenti che arrivano tardi, professori che mancano e cattedre scoperte (alla faccia dei proclami di Bianchi), il Novecento e la contemporaneità sono argomenti che raramente vengono toccati nel loro programma di studi.
Dicevo. L’attualità stringente e i ragazzi. Lunedì mi è capitato di parlarne in un quarto superiore, forse troppo di sfuggita, martedì in un terzo e oggi in un primo. Ho spiegato loro la situazione e illustrato che, in realtà, la guerra in quella zona geografica c’è dal 2013: quasi 13.000 morti, otto anni di guerra, di quotidianità sospesa e umanità interrotta, di carri armati che sparano ed eserciti schierati che sparano. Ospedali, scuole, case non più edifici ma obiettivi da guardare attraverso il vetro di un mirino per far fuoco e distruggere tutto in un attimo.
Molti ragazzi hanno giustamente fatto notare ai loro compagni e compagne, senza che nessuno glielo abbia esplicitamente comunicato, che se l’America continua a “mettere basi militari in Europa è chiaro che prima o poi la guerra, questi, ce l’hanno in mente: in Italia siamo pieni”. Una ragazza ha iniziato a dire tutto quel che sapeva mentre io l’ascoltavo per farla esporre e farla ascoltare dai compagni: ha citato le basi di Vicenza, “qualcuna in Sicilia pure, prof, mi pare”, a Livorno, «non dimenticarti la Sardegna!».
Stamattina, tuttavia, nel primo superiore, dopo aver spiegato un po’ gli avvenimenti (Nato, Russia, Usa e vari movimenti pre-attacco del 24 febbraio), una studentessa prende la parola e dice: «Prof, ma noi da che parte stiamo?».
Ma noi da che parte stiamo, prof?