Europee ed egoismo: anticamera del presidenzialismo [Atlante editoriale]

Foto di Elimende Inagella su Unaplash

C’è speranza? Forse sì. Ma la speranza passa per l’autocritica che, al momento, non parrebbe essere all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. 

«Gli elettori europei hanno parlato. […] Si ipotizzeranno vecchie e nuove maggioranze, si inizieranno anche le trattative per nominare i nuovi vertici. Si cercherà lo schema classico: un presidente della commissione al Partito popolare europeo, un presidente del consiglio ai socialisti del Pse, un altro rappresentate ai liberali e qualche altro strapuntino per i sovranisti considerati frequentabili. Si approverà un’agenda europea piena di slogan già vecchi ma ripetere la solita stanca liturgia della politica europea non ha senso». A scriverlo è stato David Carretta, giornalista tra gli altri del Foglio e di Radio Radicale, all’indomani dei risultati delle europee in Italia.

Che la struttura (politica) europea non potrà più essere la stessa risulta evidente, perfino ai più sostenitori dell’UE così come si è mostrata nel corso di questi decenni e il risultato elettorale non è, in effetti, tra i più scontati (come invece parrebbe essere stato dalle parti di Libero, Giornale e La verità). Da mesi politica e giornali parlano dell’onda nera che avrebbe travolto l’Europa e in effetti, al netto dell’astensione dal voto, così è stato.

L’Europa – o meglio: il suo establishement – dovrà mettere in discussione se stessa per far sì che riesca ad essere percepita nei confronti degli elettori e dell’opinione pubblica, ma l’autocritica non parrebbe all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. Antonio Tajani, eco del Ppe in Italia, non parrebbe porsi sul chi-va-là dell’astensionismo o del clima generale di un Presidente (Macron) che scioglie le camere e indice le elezioni nel suo paese nel corso dei primi exit polls: «Noi siamo il Ppe, primo partito: saremo centrali ed essenziali», come ha dichiarato nel corso della notte elettorale al Corriere della Sera

Respinti all’uscio 

Evitando la ripetizione di percentuali raggiunte dai partiti e dalle liste, dati che il lettore potrà trovare visitando qualsiasi sito di quotidiani allnews, scorrendo sul proprio smarphone tra le Google news o anche accendendo una televisione, in questa sede proviamo a tracciare un profilo diverso di questa tornata partendo da chi non sarà rappresentato al Parlamento Europeo, nonostante tutti i pronostici. Il riferimento è all’area liberal-democratica: le due liste che facevano riferimento a Renew Europe (e all’Alde), ovvero Stati Uniti d’Europa e Azione, si fermano al di sotto del quorum. I due rassemblement liberal-democratici non hanno convinto pienamente coloro che si sono recati alle urne e molti commentatori hanno notato che le due liste hanno finito con l’annullarsi.

Perché «i due rassemblement»?

Perché sia Stati Uniti d’Europa che Azione miravano a rappresentare un variegato mondo liberal-democratico, ora con sfumature socialiste liberali ora con nostalgie da Prima Repubblica (Psi e Pri erano alleati rispettivamente con Stati uniti d’Europa e con Azione). L’operazione ha finito col rappresentare una propagandistica testimonianza, come spesso accadeva per le liste della sinistra radicale (o comunista) da essi spesso dileggiate per la ripetuta mancanza di consensi necessari ad accedere all’Europarlamento. Le matrioske liberali non hanno funzionato e sono state sonoramente bocciate, nonostante i nomi scesi in campo a supportare i cartelli elettorali (Renzi e Caiazza su tutti). Allo stesso modo, cambiando fronte, l’operazione della lista Santoro (Pace terra dignità) è sembrata l’ennesimo tentativo di una sinistra che non sa elaborare un progetto di lungo periodo: gli elettori hanno preferito premiare l’alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana (Avs), intrisa di moderatismo e realpolitik data la riproposizione di candidati provenienti dal Partito democratico (Orlando e Marino su tutti) ma anche di Ilaria Salis su cui si dovrà vedere ora il confronto diplomatico con Budapest come procederà. 

«Prima io» 

La destra gongola e Meloni si lascia andare sui social con la pubblicazione di un selfie con la V di vittoria, gesto che fu caro a Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo il parlamentare Fd’I Donzelli, raggiunto la notte del 9 giugno [2024] dal Corriere della Sera, l’operazione di Meloni di candidarsi in tutti i collegi, compresa quella di indicare il voto per Giorgia non è stato altro che «un atto d’amore nei confronti di tutti gli italiani». Il deputato ha proseguito: «[Meloni] non lo ha fatto per sé, non ne aveva bisogno […] tranne la manifestazione del 1 giugno a Pescara non ha tolto un solo minuto al suo lavoro di Governo».

Per sé sicuramente no, tuttavia per il partito certamente. E il discorso vale tanto per lei quanto per la segretaria del Partito democratico. Il bottino delle preferenze di Giorgia Meloni detta Giorgia fa urlare di gioia un già sgolante Nicola Porro che, sul suo blog, mette nero su bianco: «da sola “Meloni detta Giorgia” vale più del Movimento Cinque Stelle nel suo complesso (2,2 milioni di voti) ma anche più di Lega (2 milioni) e Forza Italia (2,2 milioni). Più di un terzo dei voti di FdI porta il nome del leader».

Il messaggio è chiaro. Le elezioni europee erano una sorta di elezione di mid term in salsa italo-europea: tanto più è forte la Presidente del consiglio (che è leader di Fratelli d’Italia), tanto più sarà imponente la sua campagna sul referendum riguardo il presidenzialismo. I rimpasti c’entrano poco e non sono all’ordine del giorno. Quantomeno per ora.

Egoismo. Questo è stato il fattore maggiormente presente e imponente nel corso di questa bassa (si veda la polemica sulle parolacce) campagna elettorale. Ideologia assente (jamais!) e dibattito completamente annichilito dall’onnipresenza leaderistica della figura forte di partito che puntava tutto su di sé.

È l’anticamera del presidenzialismo: un referendum permanente su una figura. Che sia Giorgia detta Giorgia o Elena Ethel Schlein detta Elly la medaglia ha due lati identici. 

Chi ne fa le spese sono gli elettori. Quelli che a votare ancora ci vanno, s’intende.

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Un anno di Meloni, la presidente-camaleonte [Atlante Editoriale]

Il 24 novembre si concludeva l’iter del Mes alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. Durante il question time al Senato, va in scena il battibecco tra Matteo Renzi (ex Presidente del consiglio, ex segretario del Partito democratico e ora rappresentante del gruppo Italia viva – il centro) e l’attuale presidente del Consiglio dei Ministri: «lei racconta se stessa come fosse Cenerentola ma lei non è Cenerentola né la Bella addormentata, né Biancaneve: è la presidente del consiglio e si trova guidare il paese e non sta governando la situazione economica delle famiglie»1.

Ma Giorgia Meloni nei fatti non è niente di tutto questo, è piuttosto un camaleonte.

Il primo a dare questa definizione è stato il sito «politico.eu» nel novembre di quest’anno: «mentre in precedenza [Meloni] chiedeva all’Italia di abbandonare l’euro e prendeva di mira ripetutamente “i burocrati di Bruxelles”, Meloni oggi sembra essere in buoni rapporti con la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen […] e lavora a stretto contatto con lei anche il primo ministro olandese Mark Rutte». Rutte che, assieme a Wilders ora molto più pervicacemente, è stato tra chi diceva «non daremo soldi all’Italia» nel corso della crisi da coronavirus.

Trasformismo tanto e tale (il fantasma di Agostino de Pretis volteggia ancora sui Palazzi!) che ha portato la Presidente del Consiglio a dichiarare: «[Von der Leyen] lavora molto e sa ascoltare, non è difficile collaborare con lei. Poi, certo, tenere tutto insieme non deve essere facile. Il governo europeo è una costante mediazione tra le indicazioni dei singoli governi e gli equilibri politici che si impongono al Parlamento europeo».2

Bisogna sempre tener conto di quel che si può e quel che non si può fare, sembra voler dire: il referendum per uscire dall’Europa e tornare a battere moneta non è più tra le possibilità politiche che rientrano nell’ordine della concretezza. «L’Euro ha prodotto un fallimento: non abbiamo adottato la moneta unica ma il marco tedesco. Stiamo tirando la carretta per qualcun altro» e ancora «Uscire [dall’Euro] presenta alcune incognite, restare offre la certezza che andrà sempre peggio»3, era quello che dichiarava nel 2014 Giorgia Meloni a Monica Guerzoni del «Corriere della Sera». Allora il partito puntava all’8% e il Movimento 5 Stelle era ancora a trazione di Beppe Grillo.

In nove anni è cambiato tutto, al di là delle semplici frasi fatte. E, d’altra parte, Fratelli d’Italia non si chiama più “Fratelli d’Italia – Alleanza nazionale” bensì solo “Fratelli d’Italia”. La fiamma nel simbolo c’è sempre e serve per ricordare a tutti il punto di partenza della storia del partito, pur con tortuosi salti e cambiamenti di posizioni politiche degli ultimi due anni: vale e conta nell’ambito della propaganda elettorale (permanente).

C’è da dire, ad ogni modo, che la natura camaleontica di Meloni non ha per nulla scalfito il consenso in termini elettorali (o di proiezioni e sondaggi): l’opposizione sembra essere bloccata e paralizzata tra lo scontro personale, quello ideale attorno ad una ipotetica narrazione dell’Unione Europea, nonché delle procedure d’Aula.
A proposito dei decreti legge, il dato sembra essere implacabile: in quattro mesi sono stati pubblicati diciotto decreti legge dal governo, ad ottobre erano già quarantotto. L’esecutivo si è sostituito al Parlamento e al dibattito in Aula si è preferito l’approvazione in Consiglio dei ministri. Una divisione di poteri che si è andata a superare nei fatti diventando, piuttosto, una somma di poteri. Chiara Braga (capogruppo Pd alla Camera) aveva affermato in un’intervista a «La Repubblica» come ci fosse
«un’emergenza democrazia». «Il governo ha posto la questione di fiducia su 20 decreti […] La metà delle leggi approvate dal Parlamento sono decreti», si leggeva nell’intervista del 25 ottobre [2023].

Certo è che tra fiducia e decretazioni d’urgenza le ultime otto legislature non hanno brillato per democrazia e dibattito parlamentare: i governi appoggiati dal Partito Democratico hanno anch’essi abusato della decretazione d’urgenza (Prodi, Gentiloni, Letta, Renzi, Draghi), per non parlare del governo Conte nel mezzo della pandemia da coronavirus (i Dpcm enunciati alle 18:00 in diretta tv).
Si tratta del riflesso di governi che avrebbero voluto accentrare su di loro decisioni e responsabilità per lasciare al Parlamento i resti di un dibattito già condizionato. Allo stesso modo il discorso può essere esteso per il malcostume del cosiddetto “decreto milleproroghe” per cui a fine anno si giunge alla confermazione di proroghe attorno ai più disparati campi d’intervento del legislatore, comportamenti normativi, pratiche relative alla burocrazia e amministrazione che da straordinaria diventerà ordinaria nei fatti. È avvenuto anche a fine 2023.

L’interpretazione che da’ Piero Fassino attorno all’accentramento di poteri di Giorgia Meloni (a proposito di rigidità e procedure d’Aula), in un articolo che ha pubblicato su «Huffington Post», non solo non convince ma lascia perplessi sulla strategia – semmai dovesse essere ravvedibile – dell’opposizione:

«È forse per dare forza a una linea di isolamento che la Presidente del Consiglio ha indossato negli ultimi tempi toni particolarmente aggressivi. C’è da chiedersi perché? […] la spiegazione c’è: ed è che l’on. Meloni non si sente “riconosciuta” perché sa che la storia politica da cui proviene – e da cui non ha mai preso le distanze – non appartiene alle radici della Repubblica democratica, né alle radici dell’Unione europea. E anziché fare i conti con questo limite, l’on. Meloni ha imboccato una linea di destabilizzazione. Lo ha fatto proponendo l’elezione diretta del premier [che sia un lapsus, on. Fassino?], ispirata da un rapporto plebiscitario leader-popolo che sovverte l’architettura costituzionale, emargina Parlamento e partiti, esalta la intermediazione sociale».

Da qualche tempo il partito democratico sta seguendo il consiglio di Dario Franceschini, secondo cui, proprio riguardo «la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia», non c’è necessità di esprimere sempre la propria contrarietà quanto, piuttosto, proporre un’alternativa entrando nel dibattito egemonizzato dalla Presidente del Consiglio. È così che si va strutturando la contro-proposta del Pd al premierato: il cancellierato à la tedesca. Impercettibili sfumature di una tonalità di colore piuttosto uniforme e sovrapponibile a quella dei fratelli d’Italia. Il premierato lo vorrebbero tutti anche e soprattutto per quel premio di maggioranza che andrebbe delineandosi ma nessuno – dalle parti opposte dell’emiciclo – ha  il coraggio di ammetterlo.

E, infine ma tornando al principio, bisogna iniziare a registrare anche la mutata predisposizione nei confronti di una parte del centro: c’è da considerare, insomma, anche la liason a distanza con Italia viva, che tanto ha fatto tremare i vertici di Forza Italia. La prima organizzazione ospitata ad Atreju, la seconda invitata solo per tramite di Antonio Tajani (ma più in virtù della carica che ricopre nel Governo). Le baruffe per qualche editoriale di Matteo Renzi sul «Riformista» assomigliano più all’atteggiamento di chi si sta cercando sottobanco senza ammetterlo, così come anche la battuta in Aula sugli aiuti che potrebbero giungere dall’Arabia Saudita per conto dell’ex sindaco di Firenze.

Il fine di Meloni è «un sano bipolarismo» – magari a trazione Fdi – così da egemonizzare una parte del centro e far sì che l’ex compagine moderata, ex berlusconiana, orfana di quel che fu l’Udc venga attratta naturalmente per istinto darwiniano di sopravvivenza.

Le posizioni politiche cambiano ma Meloni non ha intenzione di mostrarsi per quello che compie davvero agli elettori: mantenere il velo di Maya è l’imperativo categorico per far sì che il consenso non si sgretoli. Non è così che ha finito per essere irrilevante il campo della sinistra radicale?

1 Monica Guerzoni, Il duello con Renzi in Aula. «Non faccia la Cenerentola». E lei: ci aiuti per la benzina con il suo amico bin Salman, «Corriere della sera», 24 novembre 2023.

2 Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia, 2023, Rizzoli.

3 Monica Guerzoni, Meloni punta molto in alto: valiamo l’8 per cento, 20 maggio 2014, «Corriere della Sera».

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È l’una di notte e tutto va MES

Le modifiche al Meccanismo europeo di stabilità sono state ratificate. 

Il Senato approva la risoluzione di maggioranza con 104 voti favorevoli. Stando alla stampa, però, le modifiche non sono state all’ordine del dibattito quanto piuttosto la querelle a distanza che si è innescata tra Meloni e Conte.

La prima rimprovera al secondo di aver ratificato le modifiche al meccanismo europeo di stabilità quando l’esecutivo guidato dall’attuale Presidente del Movimento 5 Stelle si era già dimesso. Il giorno dopo le dimissioni arrivò la firma che dava il placet di approvazione riguardo le modifiche del Mes; ovvero «quando era in carica per i soli affari correnti», ha tuonato la Presidente Meloni nel corso dell’intervento alla Camera dei Deputati. Al Senato, invece, ha mostrato il fax di Di Maio, allora componente del Governo. Un’accusa – parrebbe di capire – significativamente grave: un colpo di mano a porte chiuse.

Ma il voto in Parlamento ci fu due mesi prima e, anzi, nel corso della seduta della Camera del 2 dicembre 2019 l’allora presidente Conte diceva

«Il nuovo trattato non solo evita pericolosi automatismi ma introduce anche il common backstop, che garantisce risorse addizionali per gli interventi del Fondo di risoluzione unico previsto dal Meccanismo di risoluzione unico, rendendo più robusto il supporto in caso di crisi bancarie».

Praticamente la posizione sostenuta – sfumature a parte – dal Presidente di Forza Italia (nonché vice di Meloni) Antonio Tajani.

Chiarezza sul Mes

A metà tra il fax di Luigi di Maio e la polemica tra Camera e Senato del 12 e 13 dicembre, c’è sempre il mare dei fatti; o, comunque, delle posizioni e della concretezza materiale delle cose. Nell’epoca post ideologica (che in realtà ne ammette una sola, quella del mercato) in cui il dibattito politico non è ancorato ad altro, se non ad immanenze di cui sempre meno si conoscono contenuti e risvolti (come è successo e sta succedendo sul Piano nazionale di ripresa e resilienza), c’è il rischio che il discorso sul Mes (e sul Patto di stabilità) rischi di essere tutt’altro che concreto; come invece è. E un riavvolgimento del nastro è più che necessario.

Nel 2012 la sezione italiana dell’«International business times» parlava dell’inizio di una possibile «dittatura europea». Quello che viene definito semplicisticamente come fondo salva Stati, in realtà è una organizzazione intergovernativa: «regolata dal diritto pubblico internazionale, con sede in Lussemburgo […] che emette strumenti di debito per finanziare prestiti e altre forme di assistenza finanziaria» oltre a concedere «prestiti nell’ambito di un programma di aggiustamento macroeconomico», «acquistare titoli di debito sui mercati finanziari primari e secondari», «fornire assistenza finanziaria sotto forma di linee di credito» e «finanziare la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie tramite prestiti ai governi dei suoi Stati membri». Il principio del curare la malattia con altra malattia: cercare di risolvere il debito facendo altro debito. Maurizio Turco, segretario del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito ebbe a definire il Mes come «l’esempio più chiaro, accecante, della degenerazione dell’Unione Europea» [1].

Una degenerazione rappresentata dal fatto che il primo trattato con cui si ratificò il Mes sancì la nascita di un’organizzazione che si fa fatica a definire democratica. Secondo Alessandro Volpi di «Altreconomia» la riforma che l’Italia ha aspettato a ratificare con i passaggi alle Camere da parte della Presidente Meloni non sarebbe piccola: «riguarda la modifica del trattato originario che serve a far salire il valore delle banche». Quindi solo a vantaggio delle «quotazioni bancarie». Affermazioni che ricordano quelle che ebbe a dire l’ex Primo Ministro Massimo d’Alema durante il momento più cupo della crisi greca secondo cui la popolazione locale non avrebbe beneficiato degli aiuti europei, eccezion fatta per gli istituti bancari del paese: «di questi soldi i greci non sentiranno neanche l’odore: questo meccanismo non può durare a lungo».

La strategia di Meloni
Se perfino dalle parti del quotidiano francese «Le Monde» giorni fa ci si è accorti che la Presidente del Consiglio goda di enorme popolarità, pur procedendo esattamente al contrario di quanto aveva sostenuto in campagna elettorale, ci deve essere qualcosa che non va. Tanto nel Paese quanto nella maggioranza di Governo. Lo spirito dei referendum targati Fratelli d’Italia per «uscire dall’Euro» (così come della proposta di legge per l’Italexit) è stato sepolto da tempo, sostituito dalla politica di realtà e dalla necessità di non turbare la Commissione Europea. Oppure non c’è niente di strano e quel quid che “non va” è semplicemente il riflesso di un paese sempre più sfibrato che ha introiettato il dualismo tra l’azione propagandistica e l’ammissione della sottomissione politica in sede europea. E chissà che la «madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia» non faccia leva proprio su questo progressivo lacerarsi per poter riuscire là dove altri non hanno potuto nemmeno avvicinarsi.

[1] Maurizio Turco, Stati Uniti d’Europa. Adesso!, «la nuova liberazione», giugno 2018, Roma, <https://www.partitoradicale.it/wp-content/uploads/2018/06/NuovaLiberazione-1.pdf>.

Salario minimo, cosa sta succedendo? – Atlante Editoriale

Arriva il niet della Camera dei Deputati sulla proposta riguardo al salario minimo presentata dalle opposizioni. Ora spetterà al Senato della Repubblica esaminare il testo della legge delega del Governo, approvata ieri alla Camera con 153 voti a favore.
Le opposizioni parlamentari in Aula hanno contestato l’iniziativa dell’esecutivo e della proposta di legge delega di Rizzetto (Fdi) ed altri (tra cui l’ex eurodeputato Battilocchio) approvata in commissione il 28 novembre [2023]. Il Presidente della Camera, sospesa la seduta per una manciata di minuti a causa delle proteste rivolte al Governo dai deputati dei gruppi del Movimento 5 Stelle, Verdi-Sinistra italiana e Partito democratico, ha poi proseguito con i lavori decretando il risultato della votazione.

D’altra parte il compito di Conte, Schlein e Fratoianni sarebbe stato particolarmente arduo da portare avanti: la commissione lavoro aveva fatto sì che la proposta delle opposizioni fosse snaturata nei fatti; la strategia degli emendamenti prodotti da Pd, M5S e Verdi-Si non ha sortito l’effetto sperato – né avrebbe potuto riuscire in alcun modo, stante l’equilibrio parlamentare.

Lo strappo
Già nella giornata di martedì il Governo aveva annunciato che non avrebbe discusso la proposta delle opposizioni circa il salario minimo orario fissato a 9€ lordi. Cifra attorno alla quale le opposizioni discutevano da mesi: solo a seguito di un intenso labor limæ, i tre gruppi maggiori (M5S, Pd, Verdi-Si) sono riusciti ad accordarsi a riguardo. «Come soglia minima, la proposta di legge sanciva i 9€ lordi l’ora», ha spiegato a «Radio Radicale» la deputata Valentina Barzotti (M5S) che ha aggiunto: «in sinergia con la contrattazione collettiva avrebbe potuto prevedere trattamenti di miglior favore».

Di parere opposto la Presidente del Consiglio dei Ministri Meloni che ha dichiarato la propria contrarietà alla proposta di legge delle opposizioni in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica «Rtl». Meloni ha ribadito la consonanza con il parere espresso dal Cnel e dal suo presidente (Renato Brunetta) attorno alla proposta dei 9€ contestando anche parte del mondo sindacale, riferendosi – con tutta evidenza – alle organizzazioni confederali: «vanno in piazza a rivendicare la bontà del salario minimo, ma quando vanno a firmare i contratti collettivi accettano contratti da poco da più di 5€ l’ora, come accaduto di recente con il contratto della sicurezza privata».

Cosa stabilisce la legge delega?

Il testo
consta di due deleghe al Governo e non prevede un riferimento chiaro ad una retribuzione (punto su cui si fondava la contrarietà delle opposizioni) limitandosi all’espressione: «assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi». In che modo? Contrastando «il lavoro sottopagato anche in relazione a specifici modelli organizzativi del lavoro e a specifiche categorie di lavoratori» e «il cosiddetto dumping salariale», ovvero la concorrenza sleale del “gioco al ribasso” nonché estendendo «i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali di lavoro […] ai gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, applicando agli stessi il contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria di lavoratori più affine».

La proposta di legge di iniziativa popolare «non meno di 10€»

Se nell’Aula si discuteva dei 9€ e, conseguentemente, si votava la delega, fuori dalle istituzioni il dibattito correva su un altro binario. Il 29 novembre, ovvero il giorno seguente l’approvazione della delega in commissione lavoro, Unione popolare e Rifondazione comunista depositavano in Senato una proposta di legge di iniziativa popolare supportata da 70mila firme che chiedeva l’istituzione di un salario minimo di 10€ lordi l’ora. Una misura che, stando alle parole di Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista), rilasciate al «manifesto» in quei giorni, sarebbe stata una «misura coerente di lotta contro il lavoro povero e sottopagato che ci sembra più seria di quella avanzata dalle opposizioni parlamentari nel dare attuazione all’articolo 36 della Costituzione».

«Contratti collettivi? Una foglia di fico».

Nel corso delle audizioni in commissione lavoro, i rappresentanti delle associazioni di categoria hanno spesso fatto riferimento alla mancata applicazione dei contratti collettivi nazionali in determinati settori (tessile, ristorazione, ricettivo). Secondo Stefano d’Errico, segretario nazionale del sindacato Unicobas, raggiunto da «Atlante» la questione: «è la foglia di fico dietro la quale si nasconde l’attuale maggioranza». «L’applicazione del contratto collettivo non risolve la situazione sia perché ci sono dei “contratti pirata” firmati da organizzazioni sindacali di comodo (sindacati gialli), sia perché – purtroppo – anche le organizzazioni sindacali confederali (Cgil, Cisl, uil) hanno sottoscritto almeno 25 contratti nazionali in cui la paga oraria è inferiore a 9€», ha dichiarato D’Errico.
«Siamo a favore del salario minimo – ha proseguito – perché ci sono 3 milioni di lavoratori che fanno la fame (spesso lavorando a volte più di otto ore al giorno), ma anche per l’introduzione della “scala mobile” che recuperi almeno l’inflazione dichiarata. E ci sembra ridicolo anche solo il dichiarare – come pure hanno fatto esponenti della maggioranza – che attraverso un provvedimento del genere si possano abbassare i salari alti».

«C’è una grande ipocrisia attorno al salario minimo, soprattutto da parte governativa: in tutti i paesi dell’UE è presente una legge a riguardo e la cifra oraria oscilla tra gli 11€ e i 12€ lordi. Un’ipocrisia che notiamo anche tra le fila delle organizzazioni sindacali le quali, spesso, sono state talmente compiacenti con la Confindustria e col padronato da aver sottoscritto “contratti di rapina”».

 

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/cosa-sta-succedendo-riguardo-al-salario-minimo

«Governo senza progetto, Paese precario» – Atlante Editoriale

«Vogliamo rispettare gli impegni presi con gli italiani. Nessuno meglio di chi fa impresa sa quanto sia importante il rispetto della parola data. Anche per questo voi rappresentate l’interlocutore ideale per una politica seria», così Giorgia Meloni nel video messaggio inviato all’assemblea di Confindustria Bergamo-Brescia lo scorso venerdì [10 novembre]. La Presidente si è concentrata anche su Pnrr e Zona economica speciale (Zes) nell’intervento telematico inviato all’assemblea degli industriali delle due province lombarde. Se si parla anche di «parola data» e di «impegni con gli italiani» c’è anche in ballo il discorso attorno alla forma di Governo che la Presidente ha unito assieme alla crescita economica. Abbiamo fatto il punto della situazione con Sebastiano Salvi, imprenditore di terza generazione di un’azienda manifatturiera rappresentativa del territorio di Bergamo. 

Meloni ha definito il territorio bergamasco-bresciano «il traino dell’economia» riprendendo il tema dell’assemblea di Confindustria. Qual è la situazione?


«Siamo in una fase di forte rallentamento a livello produttivo: molte aziende hanno fatto ricorso alla cassa integrazione. Il calo di fine anno è maggiore del solito (complici due guerre in corso e crisi conseguenti): c’è incertezza, le persone consumano di meno e le aziende non producono. Dunque: si accede maggiormente alla cassa integrazione. Lo scenario è abbastanza nebuloso e contorto a vari livelli: dalla crisi post pandemia, al rialzo dei tassi dei mutui. Si aggiunga a ciò il rincaro del costo della vita e delle utenze che ha ripercussioni su famiglie e aziende».


La legge di bilancio prova a invertire la tendenza descritta oppure no?


«Se la dovessimo leggere a prescindere dal colore politico, potremmo anche ritenerla ragionevole dal punto di vista delle imprese: avendo [il Governo] poche risorse a disposizione, si nota una timida riduzione del cuneo contributivo. Sotto altri punti di vista non è affatto completa: non c’è una strategia finalizzata alla crescita, non si ravvedono interventi strutturali; mi sembra sia a corto raggio e non si ponga il problema del lungo periodo»

A proposito di rincaro delle bollette di cui parlavamo prima c’è da dire che molti annunci da parte governativa non si sono tradotti in aiuti rimanendo semplicemente proponimenti. È corretto?


«Ci sono stati degli sgravi fiscali che vanno a colmare una parte del delta che si aveva negli anni pre-Covid sul costo al Kw/h, ma sono terminati lo scorso trimestre. Ad ogni modo stiamo parlando di interventi palliativi: non c’è nulla di strutturale». 

Un po’ come si fa quando vengono stabiliti e normati i bonus “una tantum”.


«Esatto. La situazione temporanea si tampona in un modo, sperando che sia transitoria e che l’imprevisto non diventi stabile. A proposito del caro energia di cui parlavamo prima, il tema sarebbe un altro».

Quale?

«Finanziamo le aziende che innovano, finanziamo chi acquista (parlo anche di famiglie) energia verde. Al momento io acquirente devo fare un atto di fede: devo rivolgermi a fornitori che mi dicono che quella che erogano è energia pulita. A livello di immagine ci può stare, a livello di sistema-Paese no: dobbiamo approvvigionarci di energia rinnovabile e dobbiamo farle pagare sempre meno e non – come succede – facendole pagare di più. Tanto per le famiglie quanto per le aziende, per cui vale la pena ricordare che in Italia vi è una prevalenza di società medio-piccole che non hanno un prodotto proprio»

Cioè?

«Significa che il prezzo che io faccio al mio cliente per i prodotti non lo faccio io: è il cliente che lo fa per stare sul mercato, perché venda il suo prodotto. Obtorto collo “subisco” la situazione e devo stare in quel prezzo: la conseguenza potrebbe essere che quel cliente dirotti il suo interesse su aziende straniere che gli fanno pagare di meno. E io non voglio che accada. Non è solo un discorso di indotto e di competenze: è etica».

Secondo lei col Pnrr non si andrebbe a risolvere la questione dando una struttura, superando le contingenze?

«Il Pnrr investirà molto sulla transizione ecologica ma finora ho visto gran poco. C’è il rischio che i fondi del piano si perdano in tanti rivoli, oppure a beneficio di opere statali: non è una contestazione che muovo a riguardo ma un’osservazione necessaria, per cui l’azienda privata deve fare i conti con risorse limitate».

Riguardo la Zes, invece, tema trattato anche da Meloni?


«Parlo da una regione [la Lombardia] in cui non c’è mai stata Zes, né alcun tipo di incentivo fiscale particolarmente “aggressivo”. Mi sembra, anche in questo caso, che la zona economica speciale sia una cosa positiva ma finalizzata ad una circostanzialità: è vero che creare fiscalità differite per portare alla pari – diciamo così – un sistema economico di una regione rispetto ad un altro, può servire».



Provo a tradurre: “sposto la produzione in Basilicata perché così ho incentivi e sgravi, ma poi?”. Sembra mancare il dopo, se ho capito bene
.

«Precisamente. È anche una buona cosa ma si tratta di un palliativo: posso essere invogliato ad investire al sud, ma poi qual è la progettualità che mi consente di ‘durare’ nel lungo periodo?»

A proposito di visione generale e progettualità, dato che abbiamo parlato anche di crescita economica, le vorrei chiedere un parere sulla riforma costituzionale. Meloni in conferenza stampa ha dichiarato che negli ultimi venti anni Francia e Germania sono cresciute del 20% mentre l’Italia meno del 4%. Dunque parrebbe di capire che, secondo Meloni, il premierato aiuterebbe la crescita economica. Secondo lei è possibile una sovrapposizione del genere?


«Mi verrebbe da dire che è come giocare a basket su un campo di calcio: per far giocare meglio e far vincere il campionato alla squadra di calcio, la facciamo giocare sul parquet del basket! Scherzi a parte: crescita e forma di governo sono due cose che non c’entrano assolutamente niente. Non mi sembra che dal 1948 ad oggi non si siano verificate le condizioni per una crescita economica sostanziale: il periodo degli anni ‘60 venne considerato “boom economico” e c’erano governi molto meno longevi di quelli di ora. Si parlava di “governi balneari” e non mi sembra neanche che “a causa” della Costituzione o della forma di Governo ci sia stato un rallentamento sulla crescita. Il punto è un altro: c’è un progetto a lungo termine? Il Paese senza un progetto è un paese precario».

 

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/governo-senza-progetto-paese-precario/

Il premierato di Meloni: a gamba tesa sulla Costituzione

Venerdì scorso [3 novembre] il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il disegno di legge di riforma costituzionale su proposta del Primo ministro Giorgia Meloni e della Ministro per le riforme costituzionali e semplificazione normativa Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Il disegno di legge in questione riguarda l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri, cioè quello che in altri paesi si chiama premier. Una proposta di riforma della Costituzione, in poche parole.

Una doverosa precisazione semantico-ideologica

La stampa italiana da almeno un decennio si riferisce (ormai diventata consuetudine) al Presidente del consiglio dei ministri con il nome di premier: non se ne conosce la ragione, in ogni caso sono due espressioni che fanno riferimento a forme di governo differenti. Non è un problema (solo) di nomi ma di poteri. Il fatto che il termine premier sia utilizzato con disinvoltura dalla stampa italiana in favore della locuzione “Presidente del consiglio dei ministri” rappresenta di per sé un fatto assai grave, considerando anche il fatto che da parte politica si fa riferimento da sempre più tempo alla dicotomia “governi eletti dal popolo” e “governi non eletti dal popolo”. I governi tecnicamente non sono votati da nessuno in Italia. Nella Costituzione, per fare un esempio, il termine premier non viene riportato da nessuna parte, né è mai stato normato che il candidato del primo partito debba obbligatoriamente essere designato dal Presidente della Repubblica come Presidente del Consiglio dei Ministri (non premier). Benedetto (detto Bettino) Craxi è stato per anni Presidente del Consiglio con il PSI ben lontano dal 15%. Altroché “stabilità il giorno dopo delle elezioni”. 

Il “premierato” di Meloni
Cinque articoli in tutto per il disegno di legge (ddl) del Governo, stando al comunicato pubblicato al termine del consiglio dei ministri. La riforma costituzionale:

«ha l’obiettivo di rafforzare la stabilità dei Governi, consentendo l’attuazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo; consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione; favorire la coesione degli schieramenti elettorali; evitare il transfughismo e il trasformismo parlamentare».

Cioè?

Vale a dire che il ddl prevederebbe: l’elezione diretta del Presidente del consiglio dei ministri; l’elezione contestuale del presidente e del Parlamento; una nuova legge elettorale – per forza di cose, verrebbe da dire – che assicurerebbe un premio di maggioranza assegnato su base nazionale del 55% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti collegati al presidente del consiglio; abolizione, infine, dei senatori a vita. Riappare un premio di maggioranza consistente. Non è specificato, né è stato ribadito in altre sedi, se l’elezione diretta del Presidente del consiglio dei ministri debba avvenire in un turno o se è previsto un ballottaggio. Nel caso in cui l’eventuale ballottaggio venga preso in considerazione dal Governo, si assisterebbe al ritorno della proposta di riforma Renzi che l’allora Presidente del consiglio aveva denominato “sindaco d’Italia”.

Numeri o referendum

Per riformare la Costituzione o approvare una legge costituzionale serve la maggioranza assoluta delle due Camere, comunque è necessaria la procedura prevista dall’articolo 138. L’articolo stabilisce che la riforma può essere sottoposta al referendum popolare, quello in cui incappò Renzi tempo fa. Quando disse che avrebbe lasciato la politica qualora avesse perso la tornata referendaria. Eppure la Presidente del consiglio ha definito il disegno di legge licenziato dal consiglio dei ministri la «madre di tutte le riforme che si possono far e in Italia». Anzi, ha detto di più: «Negli ultimi 20 anni in Italia abbiamo avuto 9 presidenti del consiglio con 12 governi diversi; in Francia 4 presidenti della Repubblica, in Germania 3 cancellieri. Nello stesso periodo di tempo Francia e Germania sono cresciute più del 20%, l’Italia meno del 4%». Il “protocollo è chiaro”. La colpa dell’arretratezza italiana non sta nella mancanza di una classe dirigente (trasversalmente parlando), di partiti ormai diventati comitati elettorali permanenti, di politiche strutturali e di dibattito pubblico su modelli di sviluppo e visione del mondo. La colpa è da rintracciare nella forma di Governo: con il premierato ci aspetterà un futuro roseo. Parola di Meloni.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale

Italia sempre più povera, Meloni pensa al premierato – Atlante Editoriale

Secondo lo studio allegato al XXI rapporto Inps, condotto da Nicola Bianchi e Matteo Paradisi, denominato “Countries for Old Men: an Analysis of the Age Wage Gap” [Un paese per vecchi: un analisi del divario salariale per età], l’Italia è uno di quei paesi in cui le cose vanno peggio circa il divario salariale (cosiddetto gap) tra vecchi e giovani. Le cause di questa situazione, per cui un giovane riesce a trovare un’occupazione stabile più tardi rispetto al 1985 e comunque meno retribuita rispetto a tre decenni fa, va ricercata nella crescente esternalizzazione cui ricorrono le aziende, così come nell’aumento dell’età pensionabile. I «lavoratori più anziani hanno hanno esteso le loro carriere occupando le loro posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite», sostengono gli economisti rispettivamente della Northwestern Kellogg School of Management e dell’Einaudi Institute for Economics and Finance.

Precarietà e somministrazione
A quanto detto, si aggiunga la questione secondo cui per il Governo, almeno stando al decreto denominato pubblicisticamente “1 maggio”, il lavoro in somministrazione può essere considerato positivo per far uscire una persona rimasta senza impiego dal limbo della disoccupazione. Stante il comunicato pubblicato a margine del precedente Consiglio dei ministri, il Governo ha stabilito che il beneficio erogato in sostituzione del “reddito di cittadinanza” possa decadere qualora vi sia un rifiuto di una proposta di lavoro «a tempo pieno o parziale, non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno e con una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi e che sia, alternativamente: 1) a tempo indeterminato, su tutto il territorio nazionale; 2) a tempo determinato, anche in somministrazione, se il luogo di lavoro non dista oltre 80 km dal domicilio».

Ma c’è un evidente cortocircuito linguistico perché secondo la ministra Calderone, intervistata da «Avvenire» domenica 7 maggio [2023], il decreto ha rappresentato «un’occasione per dare un segnale concreto del suo impegno a favore di lavoratori, famiglie, imprese e soprattutto giovani che rappresentano il futuro del nostro Paese e che vanno accompagnati nella realizzazione delle loro aspirazioni lavorative»1. E ancora riguardo le norme previste attorno al tema della precarietà: «Non abbiamo modificato la durata dei contratti a termine. Siamo intervenuti sulle causali per i rinnovi dopo i 12 mesi, rimandando alla contrattazione collettiva per la definizione delle casistiche dei rinnovi. Si tratta di una norma di chiarimento che non ha alcun riflesso sulla precarietà». E dire che quanto diramato dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi appare essere scritto in un italiano che non lascia spazio alle interpretazioni.

Presidenzialismo o premierato ‘forte’?
Nonostante le difficoltà del paese reale, Meloni si domanda, manzonianamente, se Carneade fosse realmente esistito.

Il dubbio amletico meloniano sta tutto nella domanda (tra presidenzialismo o premierato), così come nella conseguente risposta che è stata consegnata agli organi di stampa a margine del giro di ‘consultazioni’ di martedì 9 maggio [2023].

Si tratta, in buona sostanza, di una interlocuzione che Meloni ha intrattenuto nella giornata di martedì per porre alle organizzazioni parlamentari tutte la questione di come affrontare il cambiamento costituzionale cui Fratelli d’Italia aspira da tempo, vale a dire la Repubblica Presidenziale.

La Presidente del Consiglio dimostra di aver già in mente il fine delle consultazioni: non lo dice espressamente, ma leggendo tra le righe nell’intervento in piazza ad Ancona di lunedì 8 maggio è ben chiaro: «Voglio fare una riforma ampiamente condivisa ma la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato: voglio dire basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo, ma legare chi governa al consenso popolare». Il mandato, in fondo, pensa, ce l’ha già: glielo hanno dato gli elettori, dunque se il presidenzialismo può essere un ostacolo, tanto vale puntare al premierato. D’altra parte è da circa tre decenni che la pubblicistica poi e la politica prima si è attestata nell’utilizzo del termine indicante il Presidente del consiglio dei ministri sostituendolo con quello di Premier. Un utilizzo improprio – evidentemente – tanto errato quanto ideologicamente foriero di un’idea di Paese totalmente diversa rispetto a quella costruita all’indomani del 1945. ‘Gutta cavat lapidem’, dicevano i latini ed ora è giunto il momento propizio per uscire definitivamente allo scoperto. O come si direbbe in ambito politico-aziendale: “i tempi sono maturi”.

Le reazioni alle consultazioni
E la fase sembra essere davvero matura: Italia Viva e Azione, nonostante le recenti ruggini, hanno mostrato assenso e condiscendenza al dialogo con la maggioranza per quel che riguarda una riforma della Costituzione in favore di quel che (già Matteo Renzi da Presidente del consiglio) può essere chiamato con l’espressione “sindaco d’Italia”. Un premierato forte con elezione diretta del Presidente. L’opzione del presidenzialismo, per la verità, nonostante fosse il cavallo di battaglia delle destre in campagna elettorale, è stato superato dall’opzione sopra citata. Da qui il rumore di fondo della Lega, per cui sarebbe un passo indietro troppo rilevante.

I numeri ci sarebbero, contando maggioranza e Italia Viva – Azione, tanto alla Camera, dove mancano un pugno di voti) quanto al Senato (dove le manciate di voti diventano due). Prima delle interlocuzioni di martedì, Mara Carfagna, deputata e presidente di Azione nel gruppo Azione-ItaliaViva-RenewEurope, aveva risposto preannunciando quanto poi Calenda avrebbe dichiarato a margine del colloquio con Meloni: il “no” a prescindere è «un atteggiamento sbagliato […] presidenzialismo è una parola generica, che va riempita di contenuti»2, aveva affermato la presidente al «Corriere della Sera». Nonostante Carfagna si sia mostrata in passato più volte a favore del presidenzialismo, oggi si collocherebbe più a favore del premierato: «Ho visto un’Italia dove se ci fosse stato il presidenzialismo forse al Quirinale sarebbe andato Grillo».

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha rimarcato la necessità del dialogo per poter dare più forza al Presidente del consiglio, magari con una «commissione ad hoc» (nuova bicamerale dalemiana?) ma ribadendo la propria contrarietà all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Certo è, come ha riportato il «la Repubblica» di mercoledì 10 maggio [2023], che Meloni pare abbia introiettato già il ruolo: «Ascolto ma vado avanti».

Uno spettro si aggira per Palazzo Chigi. Quello del (pur immaginario) Marchese Onofrio del Grillo.

1Francesco Riccardi, Calderone: «Siamo aperti al confronto ma il decreto è a favore dei lavoratori», 7 maggio 2023, «Avvenire».

2Virginia Piccolillo, «Sbagliato il no a priori. Premierato, lo spazio c’è ma ho visto i rischi del presidenzialismo», 7 maggio 2023, «Corriere della Sera». 

 

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Natalità con precarietà, il nodo gordiano di Giorgia Meloni – Atlante Editoriale

Primo Def (cioè il Documento di economia e finanza) per il governo guidato da Giorgia Meloni a 173 giorni dal giuramento davanti al Presidente della Repubblica al Quirinale.

Il Consiglio dei ministri ha approvato il documento e presentatolo durante la conferenza stampa di martedì 11 aprile alla presenza della Primo ministro Giorgia Meloni e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

Cuneo fiscale sì, forse

O meglio, non nel breve termine. Secondo le intenzioni del Governo il famigerato “taglio del cuneo fiscale” (ormai una Fata Morgana che aleggia minacciosa al di sopra di ogni esecutivo da un paio di decenni a questa parte) dovrebbe poter avvenire ma «con un provvedimento di prossima adozione» come pure recita il comunicato pubblicato dal Governo a margine della conferenza stampa. «Nel breve termine, si opererà per sostenere la ripartenza della crescita segnalata dagli ultimi dati, nonché per il contenimento dell’inflazione – si legge nel comunicato –. Il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento di prossima adozione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre 3 miliardi a valere sul periodo maggio-dicembre di quest’anno». Da dove derivano quei soldi? Secondo l’adagio bizantino-economicista, proverrebbero della divaricazione che si aprirebbe tra deficit tendenziale e programmatico. L’interstizio, cioè, tra il 4,25% e il 4,5% del Pil.

La replica della stampa, in particolare di «Repubblica» di mercoledì 12 aprile, è netta:

«Provvedimenti gravosi e per adesso senza copertura, a meno che Meloni non scelga di aprire un clamoroso fronte con l’Europa sul deficit, sforando la soglia del 3,7% proprio nell’anno in cui entra in vigore il nuovo patto di stabilità. Improbabile, rischiosissimo. L’alternativa è trovare all’interno del bilancio le risorse per coprire le promesse elettorali. Tradotto: risparmi di spesa e, quindi, tagli» [1].

Poca scelta, sembrerebbe, a leggere Tommaso Ciriaco e Valentina Conte.

Ripasso: cosa significa “cuneo fiscale”?
L’espressione sta ad indicare – in estrema sintesi – la differenza tra stipendio lordo e netto percepito dal lavoratore. Cioè la somma di imposte che gravano sul costo del lavoro sia da parte del datore di lavoro (azienda privata o stato), sia rispetto ai lavoratori autonomi o liberi professionisti, nonché sui lavoratori dipendenti. È uno degli argomenti su cui le maggioranze si sgretolano e diventano fluide [2], su cui si cerca il consenso e che viene proferito dalle labbra dei capi di governo a mo’ di cinghia di trasmissione con l’elettorato. Almeno, da quando s’è iniziato a chiamarlo così.

Pil e coperta corta
I lettori di «Atlante» avranno letto l’attenzione che il nostro giornale ha riservato alla Legge di bilancio di fine 2022. Nel corso di quei mesi convulsi, in cui si sospettava lo spettro dell’esercizio provvisorio, il governo rilasciava dichiarazioni alla stampa asserendo l’improbabilità di poter (o dover) turbare mercati e istituzioni europee. L’importante era rassicurare, anche perché la coperta era proverbialmente corta, come ebbe a dire – ripreso dai giornali più venduti nel Paese in quel periodo – il ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ceriani: 

«Purtroppo abbiamo una finanziaria con pochi spazi di manovra, ma il governo ha l’ambizione di durare cinque anni».

I margini sono stretti ma i dati e le previsioni sul Pil sembrano rassicurare Meloni, governo e maggioranza, sebbene venga dato «in frenata» [3]: 

«Se infatti il Pil di quest’anno viene rivisto in leggera crescita, all’1% come obiettivo programmatico rispetto allo 0,6% fissato lo scorso novembre e allo 0,9% tendenziale, per il 2024 la correzione è invece al ribasso: l’obiettivo di crescita è posto infatti all’1,5% contro il precedente 1,9%» [4].

Pareri positivi giungono dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Alberto Quadrio Curzio, intervistato da Claudio Landi di «Radio Radicale», per cui le percentuali del prodotto interno lordo configurano tre dati molto importanti. Il Presidente ha affermato:

«Il primo fattore [è quello legato alla] manifattura: va bene e continua ad esportare […]; secondo: i servizi e il settore del turismo stanno andando benissimo, recuperando e superando i dati del 2019; terzo: la carenza di manodopera è evidente e la quantità di posti da occupare, soprattutto nel settore dei servizi, è impressionante» [5]. Sarebbe da indagarsi sul “come”, ma questa è un’altra storia. Per Quadrio Curzio, ad ogni modo, c’è anche un altro fattore riguardo il rapporto deficit/Pil per cui se dovesse venir prefigurato attorno al 4,3%, sebbene «sia presto per dirlo», bisognerà vedere cosa accadrà dopo.

E il “dopo” si chiama: rinnovo del patto di stabilità con l’Ue e Pnrr, per cui (a proposito del piano di ripresa e resilienza) il presidente dell’Accademia dei Lincei non va oltre la definizione di «grosso problema per il governo» [6].

Natalità
«Dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate», ha detto la Presidente Meloni in conferenza stampa, sebbene di questo tema non vi sia traccia nel comunicato ufficiale diramato dagli uffici di Palazzo Chigi [7]. Dunque il tema è rimandato alla prossima legge di bilancio: fine 2023. Nessuna traccia, si diceva, ma il tema viene ripreso dai quotidiani e dalle agenzie che si involano in titoli ed articoli a riguardo, a cui sono seguite le reazioni della politica plaudente.

Rimane l’incognita del “come” – e lo si vorrebbe fare proprio a partire da questa sede – magari ponendo l’attenzione alle dichiarazioni dei componenti del Governo, in primo luogo parafrasando le parole del Ministro Valditara che dava per scontata la denatalità tendenziale dei prossimi anni. Dunque annunciando meno assunzioni di insegnanti. Che ci siano più linee nel governo e che, come tutti i Salmi che finiscono in “Gloria”, poi spetti a Meloni trarre la sintesi giornalistica, politica e mediatica, parrebbe evidente. Resta difficile conciliare entrambe le posizioni per cui non pare ci sia stato gruppo parlamentare che abbia sollevato l’aporia che prevederebbe l’annunciato (futuro) incentivo alla natalità con il mancato investimento conseguente, o il quadro del lavoro precario permanga immutato. Non un fattore secondario.

Certo è che il dibattito a riguardo è tutto da rimandare al potenziale scontro che prefigurava «Repubblica» di mercoledì e il presidente Quadrio Curzio. Hic Rhodus, hic salta!

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Note:
[1] E che, ad ogni cambio di governo, ne dà per certa la cesura. Mario Sensini sul «Corriere della Sera» dell’11 gennaio 2020, riportando le parole dell’attuale sindaco di Roma, allora ministro, Roberto Gualtieri, dava per imminente tale taglio.
«Lo ha detto ieri il ministro dell’economia Gualtieri, alla Camera, annunciando, tra l’altro, l’imminente varo del decreto sul taglio del cuneo fiscale (circa 500 euro in più nel 2020 ai dipendenti con redditi fino a 35mila euro lordi)»
Mario Sensini, Gualtieri: entro gennaio decreto sul taglio al cuneo fiscale, 11 gennaio 2020, «Corriere della Sera».
[2] Tommaso Ciriaco; Valentina Conte, Risorse azzerate per pensioni e flat tax. Ora tagli o altri debiti. Europa in allerta, 12 aprile 2023, «la Repubblica».
[3] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[4] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[5] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».
[6] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».

«Piantedosi chiarisca», l’interrogazione di Zanettin sull’assalto alla sede della Cgil – Atlante Editoriale

Lunedì mattina il senatore Pierantonio Zanettin (Forza Itali), componente della Commissione Giustizia del Senato, ha presentato un’interrogazione con richiesta di risposta al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi riguardo i fatti che coinvolsero la manifestazione “No Green Pass”, Forza Nuova (e rispettive figure di riferimento romane e nazionali) e il successivo assalto alla sede della Cgil avvenuto due anni fa. Il ministro allora era prefetto di Roma.

I fatti
Il 16 settembre 2021 il Governo Draghi approva un decreto legge che introduce l’obbligo di possesso della certificazione verde (“green pass”) nei luoghi di lavoro pubblici e privati [1]. Nei mesi di settembre e ottobre (il 15 di quel mese sarebbe entrato in vigore il provvedimento) si inizia a coagulare la protesta classificata in quei giorni come genericamente “no-vax”: il movimento eterogeneo, contrario al procrastinarsi delle restrizioni nonché alle misure di vaccinazione, scoppiò in occasione della dimostrazione di piazza del 9 ottobre [2021]. Il resto è cronaca di quelle ore. Nel corso della manifestazione di opposizione alla certificazione verde e alla vaccinazione obbligatoria si raduna un presidio in Piazza del Popolo che, immantinente, diventa corteo e la maggior parte dei manifestanti si sarebbe sparpagliata in varie direzioni. Il flusso più imponente è diretto alla sede della Cgil. Gruppi avrebbero raggiunto Palazzo Chigi, se non fossero stati fermati.

Gli arresti
Per quei fatti il processo ordinario è tutt’ora in corso «davanti alla sezione penale del tribunale di Roma presieduta dalla giudice Claudia Lucilla Nicchi. Castellino è sotto processo dinanzi al tribunale di Roma in composizione collegiale» ma ad ogni modo «Salvatore Lubrano, un esponente di Forza Nuova poi arrestato insieme a Giuliano Castellino [referente romano di Forza nuova], Roberto Fiore [referente nazionale del partito] ed altre nove persone con l’accusa di saccheggio, istigazione a delinquere, violazione di domicilio e resistenza» [2].


L’incognita di W1

L’avvocato difensore del primo dei forzanovisti citati è il radicale Vincenzo di Nanna (già presidente dell’associazione Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi) e il quotidiano ‘Il Riformista’, nella persona del giornalista Paolo Comi, il 18 marzo pubblica un articolo in cui verrebbe mostrato un fatto, ricostruito a partire dal video depositato dall’avvocato sopra citato: qualcuno avrebbe aperto la sede del sindacato ancor prima dell’assalto [3]. Non ci sarebbe nome se non una classificazione: W1.

«Chi è questa persona che ha fatto entrare i manifestanti all’interno della sede nazionale della Cgil a Roma il pomeriggio del 9 ottobre del 2021?» – si chiede Comi nell’articolo – «Molto probabilmente un agente dei servizi o delle forze di polizia che quel giorno erano infiltrati nel corteo guidato da Roberto Fiore e Giuliano Castellino, i capi di Forza Nuova. Come mai? Si cercava l’incidente di piazza? Una risposta potrebbe darla il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che all’epoca era il prefetto di Roma e dunque l’autorità preposta alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica» [2].

L’interrogazione
Nella giornata di martedì [21 marzo 2023] il medesimo quotidiano pubblica la notizia dell’interrogazione del Senatore Pierantonio Zanettin, presentata nella seduta di lunedì 20.

Abbiamo raggiunto telefonicamente il Senatore del gruppo di Forza Italia per un chiarimento riguardo la sua iniziativa, nonché per conoscerne gli obiettivi.

«La pubblicazione del Riformista mi ha colpito», ha affermato Zanettin riferendosi all’articolo apparso sul giornale diretto da Sansonetti. «Nella mia attività parlamentare spesso utilizzo gli atti di sindacato ispettivo per mettere in luce aspetti che reputo interessanti o che possono essere inquadrati nell’attività politica riguardo il settore della giustizia, [agendo] attraverso un’impostazione di garantismo giuridico, essendo avvocato».

Quali obiettivi si è posto?
«Il mio obiettivo è quello di vedere le cose non in chiave “giustizialista e manettara”. Questo fatto [esposto dal Riformista] mi ha sorpreso. Ho ritenuto doveroso che – qualora ci fossero dubbi [riguardo la vicenda] – il Ministro debba venire a chiarire».

Zanettin precisa subito: «Non ho nessuna simpatia per il movimento “No Green Pass” né per qualsivoglia estremismo di destra o di sinistra. Sono lontano dalle posizioni di Fiore o dagli altri protagonisti di quella giornata». Tuttavia: «Da garantista, da persona che crede che lo Stato debba rispettare le proprie regole, non posso che essere stato interessato dalla notizia, dunque ho agito di conseguenza».

Dal momento che, citando dall’interrogazione presentata: «nel video [pubblicato dal Riformista] viene posto in evidenza il comportamento di un soggetto rimasto ignoto, perché non identificato dalle forze dell’ordine, e chiamato dalla polizia scientifica W1», Zanettin chiede: «se il soggetto ignoto, chiamato nel rapporto della polizia scientifica W1, appartenga alle forze dell’ordine o a qualche altro organo dello Stato».

Perché?
«Se si guarda il video pubblicato dal Riformista si vede il soggetto, questo W1, che viene identificato in diverse fasi dell’aggressione. Quella avanzata dal quotidiano è un’ipotesi ma su cui va fatta chiarezza. Il dato in più che viene citato dal giornale è il fatto che il soggetto possa essere identificato come un appartenente o dei Carabinieri o della Polizia di Stato o ancora facente parte dei servizi. È questo l’aspetto che deve essere chiarito. Non si da’ nulla per scontato, ovviamente. Ove fosse, deve essere chiaro se il soggetto ha agito secondo le disposizioni di qualcuno o secondo la propria testa, disattendendo le indicazioni che sono state [eventualmente] fornite dai suoi superiori».

Cosa cambierebbe secondo lei nell’analisi dei fatti ex post?
«Da questo punto di vista, secondo me, non cambia molto. Mi spiego: rimane un inaccettabile atto di violenza. Se c’è qualche soggetto dello Stato che ha sbagliato, è giusto che venga evidenziato ed eventualmente si porti a sanzioni disciplinari. Non è che perché c’era un infiltrato nella manifestazione, allora quella manifestazione diventa legittima! Spero che il ministro Piantedosi riferisca come il soggetto in questione non sia un membro dello Stato, così che tutto sfumi. Ove fosse il contrario, bisogna chiarire. Ci sono tante sfaccettature, come si vede, ma quale attinenza abbia questo fatto col processo in corso, francamente, non sono in grado di dirlo: mi limito a vedere i fotogrammi». E ad agire.

Note:
[1] Il link del comunicato del Governo, fino a pochi mesi fa rintracciabile digitalmente ora risulta irreperibile e la pagina inaccessibile: <https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-36/17925>.

[2] Paolo Comi, Assalto alla Cgil, ad aprire la porta ai manifestanti fu un agente dei servizi?, «Il Riformista», 17 marzo 2023. 

 

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“Sensazionalismi” o “aprioristiche condanne”, comunque assenza d’informazione – Atlante Editoriale

Dopo i fatti di Cutro, non cessano le morti nel “cimitero mediterraneo”: nella notte tra il 12 e il 13 marzo [2023] un barcone carico di 47 persone si è ribaltato a 100 miglia dalle coste libiche. I fatti e la cronaca dell’accaduto sono spietati: componenti dell’Organizzazione non governativa “Watch the Med – Alarm Phone” segnalano un’imbarcazione a largo delle coste libiche in area Sar (cioè “search and rescue”)[1]. Un primo avvicinamento e conseguente tentativo di soccorso proviene dalla nave “Basilis L” che tuttavia non riesce ad operare pienamente. L’aiuto sfuma. Nel frattempo le informazioni vengono trasmesse anche ad Italia e Malta dato che, a quanto è stato riportato sia dalle agenzie stampa, sia dai quotidiani nazionali, la Libia non avrebbe avuto mezzi da impiegare nel salvataggio. 

Entra così in gioco anche Roma, come riporta l’agenzia «Ansa»: «La “Basilis L” a causa delle condizioni meteo non è riuscita a soccorrere i migranti. Dal canto loro le autorità libiche, per mancanza di disponibilità di assetti navali, hanno chiesto il supporto del Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma che ha inviato un messaggio satellitare di emergenza a tutte le navi in transito. Sul posto si sono, quindi, trovati quattro mercantili». 

Il cargo Froland, battente bandiera Antigua e Barbuda, raggiunge l’imbarcazione e inizia le operazioni di salvataggio. Le cose non vanno come devono andare e il mezzo di fortuna si capovolge. Si contano 30 dispersi mentre in 17 si salvano. «Siamo in marzo: è il mare più freddo dell’anno» precisa Giuseppe Scandura nel notiziario mattutino di «Radio Radicale» di lunedì 13 marzo [2023], inviato permanente nelle zone di sbarco da parte della emittente radiofonica. Le sue parole vogliono lasciar intendere la triste conseguenza dell’essere classificato ‘disperso’ in mare nel corso di questo mese.
Il corrispondente ha poi aggiunto: «i migranti si trovano ora su uno dei cargo di Froland che sta navigando in questo momento ad Est di Malta e si sta dirigendo verso Porto Palo e Pozzallo». 

L’imbarcazione è rimasta in avaria «per 30 ore» ha precisato Scandura e la vicenda porta con sé polemiche, dichiarazioni da parte delle forze politiche ma anche (stavolta più delle precedenti) una lettura peculiare da parte della stampa nazionale. 

 

Destabilizatsiya

Secondo Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato della Repubblica, intervistato da Fabio Rubini per «Libero» [2] ci sarebbero evidenti interessi geopolitici alla base degli sbarchi in Italia dato che «in alcune zone del Nord Africa, dove si intrecciano gli interessi di Turchia, Russia, Cina, Iran» al Senatore «pare evidente che, ad esempio, la Russia possa avere l’interesse a destabilizzare quell’area geografica per moltiplicare i flussi migratori e mettere in difficoltà i Paesi europei che si sono schierati contro di lei nella guerra con l’Ucraina». Romeo ha anche aggiunto: «La Russia sta creando una vera e propria “bomba migratoria” per mettere in difficoltà l’Europa. Provate a pensare se a un certo punto dovesse incendiarsi la situazione politica nel Nord Africa. Sarebbe un disastro per l’Europa e soprattutto per l’Italia che è in prima linea nel Mediterraneo».

Il disarcionamento – se così possiamo definirlo – dei poteri del Nord Africa, tuttavia, è in atto non solo dalla ripresa del conflitto russo-ucraino dello scorso anno (in essere dal 2014) ma ben prima di quella data.
Il giorno precedente l’intervista in oggetto, la polemica è stata avviata da Lucio Malan (da questa legislatura in quota Fratelli d’Italia dopo aver abbandonato Forza Italia): l’esponente del partito di Governo affida a Twitter la pubblicazione di una foto in cui viene geolocalizzata la posizione dell’imbarcazione che aveva richiesto soccorso con la seguente descrizione: «Barcone in difficoltà vicino alle coste libiche? Per Alarm Phone la responsabilità è dell’Italia, come fosse tornato l’Impero Romano» [3].

Anche Daniele Capezzone (già deputato della Rosa nel pugno in quota radicale, poi per Forza Italia e ora vicino al Governo), durante la trasmissione “Zona Bianca” (Retr4) di domenica 12 marzo, ha tuonato così: «Stanno uscendo particolari atroci su quella barca [riguardo i fatti di Cutro]: gli scafisti la tenevano insieme con chiodi arrugginiti e graffette. Stando alla relazione dei servizi segreti, pagina 37, che invito a leggere, quanto più ci sono operazioni di soccorso, tanto più gli scafisti risparmiano e mettono dei poveracci su veri e propri gusci di noce […] è una vergogna che questa gente del Partito democratico anziché scagliarsi contro di questi, si scagli contro il Governo».

“E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”

Certo è che se la questione la si mette sul piano dell’emotività non se ne esce più. O, almeno, così è a parere di chi scrive. La pavimentazione della realtà cede di schianto e si può dare il via ad interpretazioni arbitrarie e opinioni più che personali. L’editoriale di Maurizio Belpietro su «La verità» di lunedì 13 marzo [2023] affonda il coltello nel metaforico “burro mediatico” riguardo i festeggiamenti di Casa-Salvini, ponendo il fatto in relazione con gli avvenimenti di cronaca: «Dopo Cutro vietato intonare Battiato?» prendendosela contro gli esponenti del Partito Democratico e di Alleanza Verdi/Sinistra che hanno utilizzato la vicenda leggendo la canzone deandreiana a favore dell’accoglienza. Stando a quel che scrive Belpietro, per l’opposizione ogni riferimento al mare nelle canzoni pop italiane sarebbe da bandire e quindi il Direttore snocciola varie canzoni tra cui Summer on a solitary beach: «Sebbene abbia un titolo inglese, in quella canzone Franco Battiato a un certo punto ripete un ritornello agghiacciante e politicamente scorretto, almeno di questi tempi: “Mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare, via via via da queste sponde,
portami lontano sulle onde”. Se così fosse, le nuove regole imposte da Elly Schlein e compagni ci costringerebbero persino a vietare Il pescatore, che pur essendo stata scritta da Pierangelo Bertoli e cantata da un’eroina rosso fuoco come Fiorella Mannoia parla di un’onda che ti solleva forte e ti spazza via come foglia al vento, per chiedersi poi se la morte sia così cattiva». Sembrerebbe evidente il tentativo strumentale di ambo le parti. Eppure non è il solo. Augusto Minzolini, nell’editoriale per «Il Giornale» di lunedì si pone sulla stessa scia condannando gli approcci emotivi alla vicenda che coinvolge le migrazioni di esseri umani: «Anche perché è fatale che il prossimo fatto di cronaca truculento che abbia come protagonista qualche immigrato clandestino susciti nella nostra opinione pubblica una reazione emotiva, uguale e contraria, a quella giustamente provocata dalla disgrazia di Cutro. Le emozioni, si sa, non si governano Ecco perché c’è un bisogno profondo di senso dell’equilibrio nell’accostarsi ad un problema che non ha soluzione. Da parte di tutti. È necessario assicurare il soccorso in mare a chi si affida a questi viaggi del dolore. Non potrebbe essere altrimenti: solo qualche scemo del villaggio può pensare che il nostro governo non abbia salvato scientemente i naufraghi di Cutro. È anche necessario, però, trovare nel contempo strumenti che scoraggino l’immigrazione, che spieghino a questa umanità disperata che non basta arrivare in Italia per restarci» e l’ex direttore del Tg1 chiude con una stilettata a Shlein e a Salvini: «Con la speculazione politica su questi temi, non si va da nessuna parte. Anzi, può rivelarsi un boomerang, perché le ondate emotive sono cangevoli. Lo ha sperimentato Matteo Salvini e lo scoprirà anche Elly Schlein». 

Eppure i sensazionalismi sono comparsi proprio su quella parte di stampa che vorrebbe un approccio più lucido e razionale sulle questioni legate ai cosiddetti “flussi migratori”.
Basta sfogliare le prime pagine del «Giornale», «Libero», «Verità» ad ogni sbarco: lunedì 13 la prima del giornale diretto da Sallusti recita: «Altra strage in mare, altre bugie a sinistra». Per «Libero» c’è un «Assalto all’Italia» (scritto in rosso) e poi «Allarme: non si fermano più».
L’unica cosa certa, in tutta questa vicenda, è che davvero per tutti il dolore degli altri è dolore a metà.
E allora ci sentiamo assolti. Pur essendo dannatamente coinvolti. 

Note:

[1] “Siamo scioccati. Secondo diverse fonti, decine di persone di questa barca sono annegate. Dalle ore 2.28, dell’11 marzo, le autorità erano informate dell’urgenza e della situazione di pericolo. Le autorità italiane hanno ritardato deliberatamente i soccorsi, lasciandoli morire”. Questo il tweet pubblicato dall’account di Alarm phone nella notte di sabato 11 marzo [2023]. https://twitter.com/alarm_phone/status/1634920639676190722?cxt=HHwWhMDUvZvqs7AtAAAA 

[2] Fabio Rubini, «I barconi ce li manda la Russia», lunedì 13 marzo 2023, «Libero Quotidiano».

[3] https://twitter.com/LucioMalan/status/1634979739650895873

 

Articolo pubblicato su “Atlante Editoriale”.

La foto è tratta dalla testata «Il Dubbio».