L’articolo sulle fettuccine di Alfredo di Lelio “vola” a New York!

Sembra uno scherzo e invece non lo è. L’articolo che ho pubblicato martedì 1 febbraio sulla storia delle “fettuccine” di Alfredo di Lelio, è stato pubblicato il 15 marzo sul quotidiano bilingue «La voce di New York».
E la cosa bella è che è tutto vero!

L’articolo è disponibile a questo link: https://lavocedinewyork.com/food/2023/03/15/388518/

Per lungo tempo in Italia si è pensato che le “fettuccine Alfredo” fossero italo-americane e nulla avessero a che fare con la genuina cucina italiana essendo frutto di travisamenti. Al piatto negli USA è stata addirittura dedicata una giornata: il 7 febbraio è il “National Fettuccine Alfredo day”.

Non è così: le fettuccine Alfredo erano e sono tipicamente italiane. Anzi, romane: nate dall’intuizione del ristoratore Alfredo Di Lelio nel 1908. Al 104 di Via della Scrofa a Roma, il nostro aveva aperto una piccolissima trattoria. Due ingredienti, doppio burro e parmigiano, e una mantecatura a dovere, le fettuccine divennero il piatto forte del locale. Vuole la storia che Di Lelio le propose per la prima volta alla moglie che soffriva d’inappetenza a seguito della nascita del figlio (Armando, ma per tutti Alfredo II). Ines, la moglie del ristoratore, ne rimase estasiata e suggerì al baffuto marito di inserirle nel menù.

Da quel momento il nome di Alfredo venne associato alle fettuccine, tanto che durante la seconda guerra mondiale persino il quotidiano di Milano («Corriere della Sera») dava conto ai propri lettori della riapertura al pubblico del locale:

«Il re delle fettuccine, Alfredo alla Scrofa, Roma, annunzia alla sua eletta clientela milanese che oggi 5 sett. [1937] riapre il suo ristorante con le sempre maestose fettuccine al doppio burro e i suoi insuperabili filetti di tacchino all’Alfredo».

In ventinove anni, da quel 1908 in cui tutto iniziò, la fama della trattoria al 104 di Via della Scrofa era già andata ben oltre la Capitale, evidentemente. Nello stesso periodo, più precisamente durante l’occupazione nazista d’Italia e della città di Roma, il locale subì una chiusura di tre mesi «per infrazioni annonarie», come riporta il quotidiano fascista «Giornale d’Italia» del 25 marzo 1944:

«È stata disposta la chiusura per mesi tre dei sottonotati esercizi di trattoria, sorpresi a somministrare pietanze prelibate, in contrasto con le vigenti norme di disciplina annonaria. […] Ristorante Alfredo, in Via della Scrofa, gestito da Mozzetti Giuseppe».

Un’altra testimonianza di quel periodo l’ha fornita Filippo Ceccarelli nel 2019 pubblicando sul quotidiano «La Repubblica» uno stralcio del “Ghiottone Errante” di Paolo Monelli (1935):

« “Compare il trattore, baffi e pancetta da domatore, impugnando posate d’oro; e si avvicina al piatto delle fettuccine. La musica tace, dopo un rullìo ammonitore che ha fatto ammutolire anche i clienti in giro. Il trattore sente intorno a sé un’aureola di sguardi. Alza la forchetta e cucchiaio in cielo, come per propiziarselo; poi li tuffa nelle paste, le sommuove con un moto rapido, matematico, il capo inclinato, il respiro trattenuto, il mignolo sospeso. Due camerieri, impalati, assistono sul soglio. Pesa intorno il silenzio. Finché la musica scoppia in allegro brio, il trattore ripartisce le porzioni, poi va a riporre le posate d’oro e scompare”. Riaccese le luci, Alfredo ricompariva tra gli applausi. Gli americani letteralmente impazzivano».

Posate d’oro che, stando a quanto raccontava lo stesso Di Lelio, gli erano state regalate da Douglas Fairbanks e Mary Pickford in quegli anni.

Deliziosa la testimonianza che Paul Hofmann affida al «New York Times» il 1 novembre 1981, raccontando l’epifania di un suo amico con le “fettuccine Alfredo” in una Roma di metà anni ‘40 e in un’Italia uscita devastata dalla seconda guerra mondiale:

«Ricordo di aver portato un amico britannico da “Alfredo” a metà degli anni ’40, quando a Londra il cibo era ancora scarso e scialbo e tutti in Europa sembravano piuttosto magri. [Egli] Si tuffò con stupore nelle fettuccine e dopo le prime cucchiaiate mi chiese con un’espressione sconcertata: “Senti, vecchio mio, chi ha davvero vinto la guerra?”. 
Le tagliatelle gialle grondanti di burro erano diventate un simbolo invidiato del “miracolo italiano” della rapida ripresa postbellica. Allora non eravamo a conoscenza del colesterolo».
Negli anni ‘50 il locale di Via della Scrofa viene venduto, nel ‘59 Alfredo I scompare e tutt’ora il ristorante “Il vero Alfredo” si trova nella sede di Piazza Augusto Imperatore, 30. Ma, come ebbe a dire lo stesso Hofmann nell’articolo:

«A complicare la confusione, ci sono almeno altri due Alfredo a Roma. Le buone fettuccine Alfredo, o fettuccine alla romana, che ormai sono più o meno la stessa cosa, si possono mangiare ogni giorno in almeno 50 ristoranti della città».

Tutt’ora, in effetti, esistono due “Alfredo” a Roma: uno al 30 di Piazza Augusto Imperatore e l’altro al 104 di Via della Scrofa. Entrambi, ovviamente, rivendicano la paternità del piatto e le posate dorate: chi per lignaggio e fama, chi per conoscenza culinaria.

 
 
La foto a corredo dell’articolo è tratta dal medesimo link della pubblicazione su ‘La voce di New York’ e raffigura Alfred Hitchcock con Alfredo di Lelio. La foto appartiene all’agenzia Ansa ©.

Un voto critico a Lula contro Bolsonaro [la posizione dei trotskysti brasiliani – Quartainternazionale.it]

Come si posiziona la sinistra trotskysta del Brasile di fronte al secondo turno che vede Lula contrapposto a Bolsonaro? Traduzione della posizione assunta dalla Corrente socialista dei lavoratori (Cst) – tendenza radicale del Partito socialismo e libertà (Psol), componente della Uit-Qi (Unione internazionale dei lavoratori – Quarta internazionale).


Il primo turno si è concluso con il duo Lula/Alckmin [quest’ultimo candidato alla vicepresidenza e membro del Partito socialista brasiliano ndt] al primo posto con il 48,4% (57 milioni di voti) e con Bolsonaro al secondo posto attestatosi al 43,2% (51 milioni). La pressione al “voto utile” c’è stata e ha concentrato il 91,6% dell’elettorato, sgretolando le opzioni di candidature alternative alla presidenza: Simone Tebet (Movimento democratico brasiliano, 4%), Ciro Gomes (Partito democratico lavorista, 3%) e altri partiti inferiori all’1% (Partito nuovo, Unione, Partito laburista brasiliano e Democrazia cristiana).
In questa polarizzazione, anche le candidature di Unione Popolare, Partito comunista brasiliano e del Polo Socialista Rivoluzionario sono scese sotto l’1%.
Si terrà un secondo turno, dunque: la classe lavoratrice e i settori popolari dovranno riflettere su questa nuova tornata elettorale [di “spareggio” ndt]
È necessario sconfiggere il progetto [di] Bolsonaro. L’estrema destra è responsabile di quasi 700.000 morti [a causa della questione legata allo scandalo vaccini che ha coinvolto il presidente uscente Bolsonaro ndt], del taglio degli stipendi, della privatizzazione di Eletrobrás, della riforma delle pensioni, dell’avanzata delle miniere nelle terre indigene, dei tagli ai fondi e dell’aumento dei crimini contro le donne, comunità nere e LGBTQIA+. 
Noi della Corrente socialista dei lavoratori (Cst) saremo tra le fila di coloro che vorranno porre fine a questo progetto genocida.
Non crediamo che l’ampio fronte Lula/Alckmin sia una soluzione per la classe lavoratrice e per i settori popolari, tuttavia in questo secondo turno la Corrente socialista dei lavoratori chiede un voto per Lula al fine di sconfiggere il neofascista Bolsonaro.

Contro Bolsonaro chiediamo il voto critico per la lista di Lula!

Fin dai primi giorni [della presidenza di Bolsonaro ndt] siamo nelle lotte del movimento di massa “Fora Bolsonaro!”, denunciando il suo progetto ultrareazionario nelle strade e in ogni momento elettorale. A partire dalla Cst, cioè la tendenza radicale del Psol, abbiamo costruito il Polo socialista rivoluzionario e siamo stati attivi nella campagna operaia [per le presidenziali] di Vera Lucia [appartenente al Pstu], promuovendo candidati operai e giovani. 
Lo abbiamo fatto perché la conciliazione di classe proposta candidatura Lula/Alckmin non propone di abrogare la riforma delle pensioni o i tetti di spesa o la riforma del lavoro e tutti i profondi attacchi ai poveri e ai lavoratori [perpetrati dal governo Bolsonaro]. 
Le alleanze e la conciliazione di classe sono già state provate al governo e non hanno funzionato. Allo stesso tempo non hanno aiutato a condurre una radicale opposizione in piazza nel movimento “Fora Bolsonaro!”.
Siamo certi che manterranno un governo incapace di confrontarsi con le multinazionali, coi miliardari e gli uomini d’affari che ci sfruttano e ci tolgono i diritti; l’agrobusiness è un nemico dei senza terra e degli indigeni e che blocca i cambiamenti che i lavoratori e i giovani vogliono nelle loro vite.
Constatiamo che l’ampio fronte, discutendo di nuove “riforme amministrative”, voglia smantellare la pubblica amministrazione.
Saremo in piazza, impegnati in ogni luogo di lavoro, studio e casa, a militare contro ogni voto in favore di Bolsonaro per togliere l’estrema destra dal governo. Senza rinunciare alla nostra indipendenza politica, con il nostro profilo, chiamiamo a votare contro Bolsonaro attraverso il voto critico per la lista di Lula in questo secondo turno.

La politica delle alleanze con i padroni ha generato confusione

Il secondo turno, insieme ai risultati del progetto di Bolsonaro in determinati stati, ha lasciato molti lavoratori e giovani con una certa frustrazione.
Sarà necessario valutare i risultati nel loro insieme e definire azioni collettive per riprendere la campagna per sconfiggere Bolsonaro in questo secondo turno.
Bisogna riconoscere che l’ampio fronte di Lula/Alckmin e le direzione del Partito dei lavoratori (Pt), del Partito socialismo e libertà (Psol), di Rete sostenibilità (Rede), del Partito socialista brasiliano (Psb) e del Partito comunista del Brasile (PCdoB) hanno trasformato la possibilità di vincere al primo turno in un obiettivo assoluto e questo ha deluso molti compagni. 

Ma la verità è che Bolsonaro ha perso il primo turno a causa dell’usura del progetto di estrema destra, finendo al secondo posto, a differenza del 2018 quando vinse al primo turno con ampio vantaggio. Il sentimento di frustrazione di cui sopra è stato espresso da più parti all’inizio del lunedì in cui sono iniziati ad arrivare i voti: Bolsonaro ha comunque un buon numero di voti alla Camera e al Senato, così come per le vittorie del Partito Nuovo nello stato di Minas Gerais al primo turno. 
Con tutta evidenza, la nuova tattica di politica di alleanza coi padroni da parte di Lula ha disarmato lavoratori e giovani con la sua campagna “pace e amore” al fine di creare l’illusione che il 2 ottobre fosse il giorno per “essere di nuovo felici”. 
Una nuova espressione di questo malcontento è stato il saluto di Lula che si congratula con “tutti gli eletti, indipendentemente dal partito di appartenenza” (1). 
Non possiamo congratularci con nessun bolsonarista. La conciliazione delle classi genera confusione e disorientamento. 
È un fattore che critichiamo per organizzare al meglio il “girone di ritorno” contro Bolsonaro.

Per questo critichiamo le manifestazioni convocate riguardo lo “straordinario patrimonio dei nostri governi”, rivendicando i governi 2003/2006 che riuniscono persone che sostengono il PT, ma non dialogano con i lavoratori e i giovani che hanno subito gli effetti della crisi del governo Dilma
Coloro che non hanno votato per Lula/Alckmin criticano i governi del PT e del PSDB: questi governi non erano le meraviglie di cui s’è parlato in campagna elettorale
Proprio per questo il cosiddetto “acchiappavoti” preparato dagli artisti [la canzone di appello al voto per Lula è diventata virale sui social brasiliani] ha sbagliato a puntare esclusivamente sull’ottenere il “voto utile” dei candidati del Partito democratico lavorista e del Movimento democratico brasiliano senza preoccuparsi del fatto che si stesse parlando di elettori indifferenti al discorso di questa campagna, il cui obiettivo era esclusivamente democratico o l’esaltazione di governi passati (una linea che Geraldo Alckmin [Psb] ha ribadito al raduno avvenuto sull’Avenida Paulista). 

Sapere questo è importante per evitare di imporre smobilitazioni e accordi al vertice con i partiti più di destra e con i cosiddetti uomini d’affari “democratici”, molti dei quali hanno sostenuto Bolsonaro nel 2018. Esempi di questi uomini d’affari sono: il presidente di Fiesp, Josué Gomes; l’imprenditore Abilio Diniz, di Peninsula; Benjamin Steinbruch, del CSN; Flávio Rocha, di Riachuelo; Henrique Viana, fondatore del sito web Bolsonarista Brasil Paralelo; Michael Klein, di Casas Bahia; Marta Cachola, di BTG Pactual; Luiz Carlos Trabuco Cappi, di Bradesco. 
Non possiamo permettere ai padroni e ai loro rappresentanti di bloccare i nostri programmi in questo secondo turno. Insieme alla lotta contro l’autoritarismo, dobbiamo includere la difesa dei salari, per la difesa della sanità, per la difesa della cassa integrazione contro i miliardari e i banchieri.

Organizzare una “partecipazione” con le parole d’ordine della classe lavoratrice e degli oppressi

Per iniziare la battaglia elettorale del secondo turno dobbiamo conoscere e considerare bene il nemico. Da quanto abbiamo visto nella nostra campagna nelle fabbriche, negli stabilimenti e nelle regioni proletarie, il bolsonarismo ha fatto e sta facendo demagogia con programmi sensibili ai lavoratori: per aumentare i propri voti parlano di “aiuti al Brasile”, di abbassare i prezzi dei carburanti e mentono sul fatto che distribuiranno posti di lavoro e che la corruzione sia finita. 

Cioè a dire: mentre continuano con la loro propaganda ultra-reazionaria contro le agende femministe, nere e LGBTQIA+, parlano – con il loro pregiudizio ultra-reazionario – di questioni assai delicate. Parlando di reddito minimo, inflazione, occupazione e contro la corruzione, riescono a trascinare alcuni settori oltre lo zoccolo duro bolsonarista. 
È essenziale capire che questa questione integra anche il voto (totalmente sbagliato) per Bolsonaro: è importante [capirlo] per combatterli e impedire a più lavoratori e giovani di votare per il bolsonarismo (si pensi a chi ha votato per le organizzazioni di centro o socialdemocratiche al primo turno) e cercando di togliere parte dei loro voti. Con le parole d’ordine della classe lavoratrice e dei settori popolari, volantinando, informando, pubblicizzando sulle reti sociali e facendo agitazione nelle grandi manifestazioni di lavoratori e studentesche, chiamiamo al voto contro Bolsonaro e al voto critico per la lista 13.

Traduzione a cura di Marco Piccinelli e visibile sul sito Quartainternazionale.it

(1) L’alleanza di Lula è piuttosto ampia ed comprende: 

• “Federazione Brasile Speranza” (composta dal Partito dei lavoratori [Pt], dal Partito comunista di Brasile [PcdoB] e dal Partito verde [Pv]) 
• Il Partito socialista brasiliano [Psb] 
• La federazione tra Partito socialismo e libertà [Psol] e Rete sostenibilità [Rede] 
• Il movimento Solidarietà 
• Il movimento Avanti 
• Il movimento Agire 
• Il Partito repubblicano dell’ordine sociale [Pros]

Il Partito Repubblicano Italiano dopo il suo quarantasettesimo congresso

Originariamente questo post venne pubblicato su Sinistraineuropa.it, ma ora il link di reindirizzamento non funziona più. Lo ripubblico ora [20/09/2022], andando ad ampliare la sezione del “Deposito bagagli”.
Nella versione originale c’erano foto di quell’assemblea e un crogiolo di ipertestuali di cui ora ne funzionano solamente due, ma tant’è. 
L’otto marzo si è chiuso il Quarantasettesimo congresso nazionale del Partito Repubblicano Italiano.
Il Pri, quel partito con quel simbolo mai mutato e mai cambiato nel corso del tempo, così come la falce e martello per i comunisti.
I Repubblicani hanno attraversato lunghi periodi e fasi non molto serene della politica italiana e il congresso dell’edera, quarantasettesimo, ha visto un partito non in buona salute, per la verità: la prima diaspora repubblicana, dopotutto, s’è consumata anni fa quando, dopo l’esperienza elettorale del ‘Patto-Segni’, l’area di Gawronski e Verdini avrebbe approdato a Forza Italia, la componente della ‘sinistra’ del partito avrebbe fondato ‘Sinistra Repubblicana’ e – successivamente – entrata nei Ds, Maccanico avrebbe fatto nascere l’Unione democratica ed Enzo Bianco (attuale sindaco di Catania) ‘i Democratici’.
La seconda diaspora, in ogni caso, si verificherà anni dopo quando il Pri si alleerà con la coalizione di centrodestra, dopo un’intera legislatura nel centrosinistra: in quell’occasione si sarebbe verificata la nascita del Movimento Repubblicani Europei, postosi in alleanza col centrosinistra, ma rientrando nel partito nel corso del 46° congresso (nel 2011, dopo due tornate elettorali in alleanza con Ulivo prima e Pd poi).

Assise congressuale in cui lo stesso Nucara, segretario del Partito, ebbe a dire che «con l’unificazione tra Pri e Movimento repubblicani europei riprendiamo un cammino comune».

Verrebbe quasi da dire, tuttavia, che la storia dei repubblicani si perde ‘nella notte dei tempi’ della politica del Paese: le vicende dell’edera si intrecciano con quella delle brigate Giustizia e Libertà, quindi del Partito D’Azione, della cultura liberal-socialista che l’Italia – in buona sostanza – non ha mai visto realmente.

Si intreccia, in ogni caso, anche con la storia del Partito Comunista Italiano: Togliatti, ‘il migliore’, lo definì «piccolo partito di massa» e, recentemente, Tommaso Giancarli, in un bel post sul suo blog per il sito di Panorama, lo ricordava sommessamente, con un notevole rimpianto: 

«di fronte all’affermazione ormai definitiva di formazioni di massa quanto a numeri elettorali ma magrissime o evanescenti sul piano della struttura e della reale partecipazione, guardo all’Edera con qualche rimpianto; ma soprattutto credo che fosse sensata quell’ambizione, che, prima di ogni logica di parte, tradiva soprattutto una sconfinata fiducia nell’umanità, tutta, e nella sua capacità di governarsi, acculturarsi, migliorarsi. Tutta roba ottocentesca e un po’ da libro Cuore, forse, ma non è che le iniezioni di cinismo che ci pratichiamo da decenni stiano guarendo le nostre malattie». 

Il post di Giancarli prendeva le mosse dai dati elettorali delle elezioni del 2013, quelli della non-vittoria di Bersani, quelli dell’entrata in Parlamento del Movimento 5 Stelle, quelli della scatola di tonno: il Pri, così come il Partito Liberale Italiano, corre in solitaria e presentando la propria lista in non molte regioni e i dati elettorali non erano proprio esaltanti: il candidato Presidente del Consiglio dei Ministri era il responsabile organizzativo del partito (Franco Torchia) e l’edera raggiungeva seimilanovecento voti scarsi, pari allo 0,02% dei consensi.
Mosso da uno spirito storicista (ancorché vagamente amante delle nicchie) e di estrema curiosità di ascoltare il dibattito del Partito, decido di andare al ‘Church Palace’, luogo in cui si svolgeva il quarantasettesimo congresso del Pri, e, a margine della seconda giornata di lavori, ho potuto intervistare il coordinatore nazionale Saverio Collura, repubblicano di vita e reggino di nascita
La sala non faceva presagire grandi folle, né lo stesso Nucara, nel corso della terza giornata dei lavori, aveva pronunciato parole che sarebbero andate a sconfessare il numero di presenti: 

«In effetti siamo molto pochi, ma non è che nel passato i repubblicani fossero tanti: il primo congresso a cui ho partecipato è stato nel ’65, quello che avrebbe eletto segretario Ugo La Malfa.. Beh, forse eravamo la metà di quelli presenti in questa sala, e io non ero nemmeno delegato!»

così come, nella stessa giornata, Giovanni Postorino, delegato e già rappresentante della Federazione Giovanile, si esprimeva così: 

«di folle non ne ho mai viste, eccezion fatta per una Conferenza programmatica prima del congresso di Bari (2001 nda) in cui un ragazzo mi aveva fermato dicendomi “stai entrando in un momento complicato per il partito ché non si sa se supererà l’estate”, ed era maggio». 

Dal «piccolo partito di massa» togliattiano all’adesione all’Alde (Alleanza dei liberal democratici europei): «l’Alde è il normale approdo dell’azione politica del partito, non si dimentichi – mi dice Collura – che Mazzini parlava di Giovine Europa, quindi l’Alde è un passaggio ineludibile giacché in Italia è mancata la cultura europea-riformista e il Pri ne è un’espressione significativa: siamo in linea con il ‘piccolo partito di massa’ di togliattiana memoria».
Quindi la ricostruzione del ‘campo’ lib-dem: «L’Italia ha bisogno come il pane della cultura liberal democratica: la crisi è frutto della bassa politica, noi infatti nel nostro slogan diciamo di voler costruire ‘l’altra politica’ e ‘l’alta politica’; il problema centrale, oggi, è che l’Italia ha bisogno di buona politica, siamo per l’alternativa» giacché «l’elettorato non deve percepirci come ‘il partito benpensante o di élite’ ma come ‘il partito dell’alternativa a questa situazione’, che sia radicale dal momento che vent’anni se li sono divisi dieci tra centrodestra e centrosinistra, è impensabile che siano quelle forze a traghettarci fuori dalla crisi».

La legge elettorale? 
«Un’autoconservazione dei due poli che hanno prodotto la catastrofe del Paese, la riforma del Senato il caravan serraglio della politica italiana», riforme che «devono essere abbattute» perché ne servono ben altre: «riformare la burocrazia, ad esempio, a volte prima di vedere attuata una legge dello Stato passano anni, pensi che c’è una legge del Governo Berlusconi che deve ancora entrare in vigore perché i decreti attuativi e i regolamenti ancora non sono pronti, il 30% dei provvedimenti di Monti idem».
Certo, è pur vero che c’è stato un abuso della decretazione di legge, per usare un eufemismo ma «il problema sono i decreti attuativi e i regolamenti: la legge non è autoapplicativa come avviene in Francia». 
Sulla Grecia, su Tsipras, sul cosiddetto braccio di ferro tra Varoufakis e Troika, invece, Collura non la manda a dire, avendo sostenuto Guy Verhofstadt alle elezioni europee assieme a Scelta Civica e a tutta la galassia lib-dem italiana: «La Grecia ha fatto gli stessi errori che ha commesso l’Italia: la ricchezza prima la si produce e poi la si distribuisce, l’errore di Tsipras è quello di aver pensato che potesse sfuggire, tanto che si è reso conto di dover trattare con l’UE»
«Tenga presente che del quantitative easing – prosegue Collura – alla Grecia non andrà neanche un euro perché esso è in relazione ad impegni complessivi che ogni Paese deve sottoscrivere: la Grecia, poi, ha avuto una somma notevolissima dalla BCE, in relazione al suo Pil e al suo debito, anche perché tutto il debito del paese ellenico equivale a quanto il nostro Paese deve rimborsare in un anno come debito in scadenza, ma la natura del problema è la stessa: non sono i burocrati di Bruxelles che ce lo impongono ma i mercati!».

«Se noi italiani diciamo che non vogliamo rispettare i parametri di Maastricht nessuno ci fa nulla, ma un minuto dopo succede che l’Italia ogni anno deve rinnovare 200miliardi di euro in scadenza: se il Paese non ce l’ha li chiede in prestito; tenga presente che avendo un bilancio in deficit ogni anno, abbiamo bisogno dei prestiti ma se non siamo credibili sui mercati, nessuno ci dà i soldi per ripianarli e se nessuno ce li dà, non siamo in grado di pagare gli stipendi…E’ un falso problema additare Bruxelles come la sede di tutti i mali, sono i mercati che impongono la situazione», ma non c’è un problema del modello di società che ne è scaturita, Collura sorride e le rughe che gli solcano il volto seguono la forma delle labbra che articola parole: «voi marxisti – sorride nda – dovete cominciare a capire che l’Unione Sovietica è caduta sui problemi delle compatibilità finanziarie». 
Terminata la chiacchierata (più che intervista) con Collura, la cui pronuncia del cognome evoca immediatamente le radici della Calabria greca, torno alla macchina e mi immetto nel Raccordo anulare fino all’uscita di casa.
Mentre percorro i chilometri che mi separano dal ‘Church palace’ a casa, ripenso ad una chiacchierata di un po’ di tempo fa con un vecchio compagno, ad una riunione non molto operativa né tantomeno stimolante dal punto di vista del dibattito: i suoi parenti, mi raccontava, erano divisi tra Pri e Pci «di una cosa, a casa mia, s’era certi: la sezione dei repubblicani e quella dei comunisti erano sempre aperte una a fianco all’altra: edera e falce e martello insieme. I repubblicani non erano marxisti come me e te, come noi, nient’affatto, ma erano di quella cultura liberale, socialista, antifascista che a ‘sto Paese è sempre mancata.. solo che poi, è venuta a mancare anche a loro… Ogni tanto, quando indosso la giacca, mi rimetto all’occhiello l’edera di mio zio, tanto per…».

Indipendentismo sardo, questo sconosciuto [Contrappunti – 2014]

Gli ultimi mesi hanno decretato l’affermazione e la crescita del
movimento indipendentista sardo. Lo hanno dimostrato le elezioni
regionali del febbraio 2014, ma anche la maggior attenzione allo
specifico dibattito e le manifestazioni sul territorio. L’ultima e la
più imponente si è tenuta il 13 settembre a Capo Frasca, nei pressi di
un gigantesco poligono che segna il confine tra la provincia di Oristano
e Cagliari. Dodicimila persone per chiedere “dismissione, bonifiche,
riconversione” e, ovviamente, indipendenza. Per comprendere meglio le
rivendicazioni sarde e gli avvenimenti di Capo Frasca, abbiamo voluto
intervistare Marco Piccinelli, cronista romano di Controlacrisi.org che
da tempo si occupa della questione isolana.

 

  • Si parla poco della questione. La politica e il giornalismo italiani quanto sono distanti dalla causa sarda?

La questione, se ci si dovesse fermare a guardare la stampa
nazionale, sarebbe praticamente inesistente (gli indipendentisti
direbbero ‘la stampa italiana’): si pensa alla questione
dell’autodeterminazione come a qualcosa di marginale, quasi
folcloristico o molto settario. Ma queste due cose, purtroppo o per
fortuna, non lo sono più, almeno riferite all’indipendentismo della
Sardegna o Sudtirolese. La questione non è più folcloristica perché ha
avuto una spinta molto forte, e decisamente innovativa, col nuovo
millennio: le organizzazioni storiche, come il Partito Sardo d’Azione
(Psd’az), Sardigna Natzione – Indipendentzia (SNI), agli inizi del 2000
hanno assistito ad un vero e proprio terremoto quando s’è venuta a
creare (da una costola di SNI) una nuova organizzazione, cioè iRS –
indipendèntzia Repubrica de Sardigna. Il merito che ha avuto iRS –
tralasciando le sue vicende che l’hanno portata ad essere, oggi,
all’interno del consiglio regionale ma depotenziata praticamente del
tutto, – è stato quello di aver sdoganato il tema dell’indipendenza. Non
è più un tabù, nell’isola: la questione indipendentista è
davvero ‘sulla bocca di tutti’. Anche Mauro Pili, ex presidente della
Regione Sardegna di Forza Italia, ha abbracciato una lotta fortemente
identitaria ponendosi alla testa del movimento ‘Unidos’, da lui creato.
Ecco, i giornali (e la politica) – per come la vedo io – rimangono
distanti dalla tematica indipendentista perché ritengono la questione
ancora fortemente etno-folcloristica. All’indomani delle elezioni
regionali del febbraio 2014 abbiamo notato un cambiamento: a causa di
una legge elettorale fortemente bipolarista, con una soglia di
sbarramento e un premio di maggioranza assurdi, gli indipendentisti di
ProgReS hanno visto il numero ‘0’ a fianco alla parola ‘seggi’ dopo che
la loro candidata presidente, Michela Murgia, aveva sfiorato l’11% dei
voti. Questo stesso meccanismo è applicabile anche per iRS che ha raccolto
lo 0,82% dei voti, entrando in Consiglio Regionale per effetto del
premio di maggioranza sancito dalla legge elettorale, mentre il Fronte
Indipendentista Unidu, col suo 1%, è rimasto fuori dai giochi. Ecco
perché l’indipendenza non è più un tema legato ad una settorialità o ad
una marginalità tutta isolana: se non ci fosse stata la legge elettorale
in questione – che il blogger Emanuele Rigitano ha ben definito
‘Sardum’ richiamando l’Italicum – il consiglio regionale, e la Sardegna
tutta, sarebbero stati attraversati da un vento indipendentista molto
consistente. Il fatto che la politica italiana non prenda in
considerazione le istanze dell’isola, o che continui a procrastinare i
suoi doveri nei confronti della Sardegna non fa altro che acutizzare le
spinte indipendentiste.

 

  • Cosa significa indipendentismo sardo per chi, non essendo del luogo, riesce a guardare la situazione con occhio critico?

La questione indipendentista della Sardegna, perlomeno per me che
sono ‘del continente’, è sintetizzabile nell’espressione:
‘riaffermazione della propria sovranità’. Ma ‘sovranità’ non è il fine
ultimo della questione indipendentista. Come ha notato Carlo Pala,
politologo dell’Università di Sassari, il termine ‘sovranismo’ non
esiste: «quel termine indica, semplicemente, una tappa della tappa.
Se mi definisco sovranista potrei confondermi con il mare magnum di
persone, che sono affezionate alla propria identit
à, ma che non hanno unidea
e una caratterizzazione politica chiara. Ecco perché quel termine è da
rifuggire, almeno in un dialogo scientifico, ma anche in un dialogo più
colloquiale. Anche perché gli stessi indipendentisti tengono da parte
quel termine, almeno in Sardegna: lo vedono come una stratagemma
affinché le coalizioni più grandi, che vanno formandosi per le
regionali, possano vivere anche loro di essere sovranisti. Fino a poco
tempo fa era impossibile che dei partiti italiani i spostassero verso
tematiche che sono fortemente identitarie»
. Ecco perché la
‘sovranità’ è un qualcosa che gli indipendentisti sardi sono determinati
a raggiungere, ma non come fine ultimo culturale e politico della loro
attività.

 

  • I sardi chiedono “dismissione, bonifiche, riconversione”. Spiegaci di cosa si tratta.

I sardi chiedono, per riprendere le rivendicazioni della manifestazione del 13 settembre a Capo Frasca, il «blocco
immediato di tutte le esercitazioni militari e la chiusura di tutte le
servitù, basi e poligoni militari con la bonifica e la riconversione
delle aree interessate».
Si possono ritenere giustissime o assolutamente non valide le
spinte sarde verso l’indipendenza ma, secondo me, è impossibile non
essere solidali con le rivendicazioni del popolo sardo riguardo la
chiusura dei poligoni e delle basi militari nell’isola. Lo Stato
italiano, essendo parte della Nato, possiede nell’isola una serie di
basi e di poligoni militari destinati a vari eserciti. La questione è
sorta nel 1965 quando la Nato ha impiantato a Quirra la sua piattaforma
di addestramento, il PISQ: poligono sperimentale interforze.
Successivamente si sono aggiunte le basi di  Capo Teulada, Capo Frasca,
la base di Decimomannu e via dicendo. Il poligono del Salto di Quirra,
analizzando i dati della Regione Sardegna, occupa 12.700 ettari di
territorio, quello di Teulada 7.200 (per estensione, sono i primi due
nella classifica italiana), mentre la base di Capo Frasca occupa oltre
1.400 ettari. Poi ci sono ulteriori basi, tra cui quella degli Stati
Uniti a Santo Stefano. A Quirra, ad esempio, c’è una straordinaria
incidenza di patologie e forme tumorali tra la popolazione. Falco
Accame, ex generale e presidente dell’associazione vittime dei militari,
aveva dichiarato a L’Espresso fatti molto pesanti. Per la procura di
Lanusei, che sta indagando sul caso, per Quirra si parla di «torio
disperso nell’ambiente e sul terreno dal 1986 al 2000, nei 1187 missili
lanciati». Torio presente, in particolare, in un missile che veniva
usato in quel territorio ma che è stato ritirato per iniziativa del
Ministro della Difesa Francese, dopo averne segnalato la tossicità.

 

  • Che aria si respira in Sardegna dopo la manifestazione di Capo Frasca? Sono previste nuove mobilitazioni?

Dopo la presenza di dodicimila persone a Capo Frasca, il dibattito
nell’area indipendentista è più che mai fervido e consapevole. Quello
che mi ha fatto riflettere, specialmente quando ero presente sul posto, è
stata la capacità di aggregazione che ha avuto il movimento
indipendentista tacciato di settarismo e minoritarismo durante la
campagna elettorale. Le organizzazioni che avevano imbastito,
inizialmente, l’iniziativa erano state: a Manca pro s’Indipendentzia,
Sinistra Natzione – Indipendentzia e tre comitati (Su Giassu, Su
Sentidu, Gettiamo le basi). Così come riportato dal comunicato stampa da
essi diramato il 2 agosto. Nessuno di questi organizzatori, secondo me,
avrebbe mai calcolato il fatto che di lì a un mese si sarebbero
intercorsi fattori che avrebbero portato  migliaia di sardi a Capo
Frasca. Parliamo del boom mediatico verificatosi qualche settimana prima
della manifestazione, ma anche dell’ingente campagna contro le servitù
militari nell’isola condotta L’Unione Sarda. Dopo la manifestazione di
Capo Frasca, gli indipendentisti hanno deciso di non abbandonare quel
terreno di lotta che li ha resi per la prima volta coesi. Proprio oggi,
26 settembre, il Fronte indipendentista Unidu, ProgReS, a Manca pro
s’Indipendentzia, Scida, Sardigna Natzione, i comitati Su Giassu, su
Sentidu e Gettiamo Le Basi stanno tenendo una conferenza stampa per fare
in modo che il lavoro messosi in moto non vada disperso. Subito dopo le
elezioni regionali, avevo scritto due cose: la prima è che il voto
indipendentista rappresentava un fiume carsico che, a causa del fattore
‘legge elettorale’, stentava a venire a galla nonostante gli ottimi
risultati di cui parlavo prima; la seconda era che l’indipendentismo (o
le sue sghembe traduzioni ‘sovraniste’) rappresentava un non-luogo di
rappresentanza politica (in Regione gli indipendentisti sono presenti,
ci sono anche sovranisti e sardisti del Psd’Az, ma sono dispersi tra le
due coalizioni). A partire da Capo Frasca, dunque, dalla conferenza
stampa di oggi, secondo me, potranno aprirsi nuovi scenari. Magari il
movimento indipendentista non maturo ‘al 100%’, ma è comunque in grado
di dare uno slancio alla propria azione politica, lasciandosi finalmente
alle spalle le derive folcloristiche.

 

Quest’intervista è una delle poche che mi siano state fatte. La prima in assoluto, con certezza: realizzata da Adalgisa Marrocco, amica ora all’Huffington Post da più di un lustro, è stata pubblicata all’indomani della ‘manifestada’ di Capo Frasca il 26 settembre 2014. 

Dopo la manifestazione di Capo Frasca, le rivendicazioni per
l’indipendenza sarda assumono inaudito rilievo. Un’intervista a Marco
Piccinelli, cronista che da tempo si occupa della questione isolana

https://www.contrappunti.info/novita/indipendentismo-sardo-questo-sconosciuto/

Gaetano Azzariti: «Le riforme costituzionali? Un gran pasticcio»

Sulle riforme costituzionali un gran pasticcio, a partire dal linguaggio usato. Parla il costituzionalista Gaetano Azzariti.
Articolo pubblicato il 28/7/2014 sul quotidiano digitale «Controlacrisi.org», non più raggiungibile online.

 
Da una parte il contingentamento dei tempi, dall’altra la richiesta di ridurre a cento le migliaia di emendamenti delle opposizioni proveniente dal vicesegretario del Partito democratico Guerini, dove si sta andando a parare? Lei che idea s’è fatto in merito?
«Mi sembra che ci sia un forte sbandamento: queste oscillazioni sono espressione di una difficoltà e non chiarezza di intenti. Da un lato c’è una fortissima volontà, del Governo e della maggioranza parlamentare che sostiene le riforme, di conseguire risultato, anche forzando le regole della dialettica parlamentare e utilizzando degli strumenti anti-ostruzionismo che il regolamento parlamentare permette. Quindi il contingentamento stesso che, certamente, è una misura estrema e contro lo spirito del dibattito parlamentare. Sono strumenti legittimi, ma certamente contro lo spirito del dibattito parlamentare, da un lato. Dall’altra parte c’è, evidentemente, la consapevolezza che modificare la Costituzione in punti così delicati – se mi passa il termine – a colpi di maggioranza, cioè a prescindere dal dibattito parlamentare non è un buon viatico per una buona riforma costituzionale e, anzi, più che non è buon viatico, è assolutamente improprio rispetto a quello che dovrebbe essere la discussione sul testo che per antonomasia dovrebbe essere il più discusso e confrontato con le opposizioni: la nostra Costituzione, più di ogni altra, insiste sul confronto parlamentare, questo è il senso delle maggioranze qualificate che essa prevede. C’è, quindi, questa difficoltà. Ripeto: da una parte una forzatura e dall’altra la consapevolezza che si rischia d’andare a sbattere».

A tal proposito anche la costituzionalista Carlassarre, in un’intervista realizzata dal quotidiano ‘il manifesto’, affermava di stare dalla parte delle opposizioni nonostante l’ostruzionismo perché, ha affermato: «[…] Strozzare un dibattito su una riforma che deve essere votata con una maggioranza elevata proprio perché sia ragionata e condivisa. Mi sembra una cosa inaudita»
«Certo, ma se ogni legge deve poter essere discussa, ‘la legge delle leggi’ – cioè la Costituzione – dovrebbe essere la più discussa. Ripeto, questa situazione complessivamente intesa, è l’espressione di una perdita del senso delle proporzioni. Ci troviamo di fronte ad una situazione sostanzialmente paradossale: da un lato l’ostruzionismo, dall’altro la volontà di forzare la mano. Da una parte e dall’altra, aggiungo, però, che per superare questa situazione paradossale, la palla è al governo: solo la maggioranza può fare delle aperture È chiaro che mentre l’opposizione non ascoltata è costretta – forse sì – a ricorrere all’ostruzionismo, che è uno degli strumenti utilizzati dalle opposizioni quando non trovano spazi di ascolto, la maggioranza ha la responsabilità di questa situazione di paralisi. Questa è la mia opinione: dovrebbe essere il Governo ad aprire all’opposizione».

Riguardo ciò che ha detto, cioè alla «perdita del senso delle proporzioni», mi viene in mente una parte dell’intervento in Aula del Ministro Maria Elena Boschi, che ormai sulla rete è diventato praticamente virale, in cui ella afferma: «Ho sentito alcuni parlare di svolta autoritaria. Questa è una allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione. Non c’è niente di autoritario. Parlare di svolta illiberale è una bugia e le bugie in politica non servono». Come legge le parole della Boschi?
«Direi che il linguaggio esprime una cultura politica. In questo momento si dimostra poco consona allo spirito di riforma costituzionale che dovrebbe avere non il Governo ma la maggioranza politica. La vecchia idea liberale, in base alla quale le idee altrui si rispettano quale che esse siano, non dovrebbe permettere espressioni improprie alle quali, purtroppo, la ministra ci ha già abituati. Si ricorda la polemica contro i “professoroni”? Ecco, quella è un’altra espressione di una ‘certa cultura politica’ che, in qualche modo, non è consona al ruolo di apertura al dialogo che dovrebbe avere un Ministro delle Riforme Costituzionali. Ripeto, insisto sul fatto che si tratta di un ministro delle riforme costituzionali perché che il Governo sia più o meno arrogante, è un fatto di stile, diciamo così. Può piacere o non piacere, forse una maggioranza politica che sia particolarmente esuberante e che sfoggi linguaggio, diciamo così, affrettato, rimane nell’ordine del possibile. Ma quando questo stesso linguaggio così agguerrito si trasferisce sul piano nobile della revisione costituzionale, diventa un linguaggio improprio. Questo perché il piano del confronto costituzionale è un piano del confronto, non del rifiuto. ‘Allucinazione’, ‘professoroni’, e qualche altra espressione che viene utilizzata è, invece, chiaramente espressione di un rifiuto. È evidente ed ovvio che la Boschi non condivide alcune posizioni come quella che affermi la riduzione degli spazi di democrazia attraverso questa riforma costituzionale.
Il Ministro, però, dovrebbe accettare il confronto non foss’altro per il ruolo che ricopre. E comunque, le logiche della riforma Costituzionale sono quelle del confronto, le logiche del rifiuto delle opposizioni possono essere quelle del confronto ordinario, del confronto di piccolo cabotaggio, dell’imposizione delle regole di parte.
Mentre, invece, il ministro Boschi dovrebbe capire che si sta scrivendo le regole di tutti, non le regole delle parti. E allora, nessuno può essere allucinato e nessuno può essere delegittimato nelle sue posizioni. Possono, ripeto, non essere condivise le opinioni delle opposizioni, come non possono essere condivise neanche le posizioni della maggioranza, ma la logica del confronto deve prevalere, e il linguaggio dovrebbe essere appropriato ed idoneo a questa logica».

In tutto questo, Renzi e la maggioranza, improvvisamente, apre ad un referendum riguardo le riforme costituzionali. Lo stesso Presidente del Consiglio che aveva chiuso le porte ad una consultazione referendaria, ora le riapre. Cosa sta succedendo: questa riapertura sta, in un certo qual modo, nel solco tracciato dall’esecutivo che andava dicendo poco fa?
«Guardi, voglio dire due cose. L’apertura sul referendum, che in sé è ovviamente giusta e opportuna, mi sembra – però – proposta come alternativa al dialogo. Cioè, se fosse questo, sembra che si dica: “io non discuto con voi, non c’è nessuna svolta autoritaria e illiberale, voi avete torto tant’è vero che sono disposto ad indire un referendum”.
Ora, sotto questa prospettiva, è sotteso un uso strumentale dell’istituto del referendum perché, in qualche modo, fa sì che questo istituto sia brandito come strumento di carattere populistico: non discuto con l’opposizione in Parlamento ma discuto col popolo una volta che ho forzato la mano e imposto la mia revisione costituzionale.
Ecco, sotto questo profilo, certamente, è un uso di un istituto delicatissimo: si tratta di una presa di posizione del tutto condivisibile, però è un uso strumentale di tutto ciò.
Detto questo, in una situazione per la quale dovesse essere approvata la riforma costituzionale in modo così divisivo – senza nessun confronto – allora il referendum costituzionale nel merito è certamente opportuno, quindi, sotto questo profilo mi sembra che siano tutti a richiederlo, tanto le opposizioni quanto la maggioranza. Mi sembra sia un unico punto di convergenza tra maggioranza e opposizione».

Qualche settimana fa c’era stato un accesissimo dibattito circa l’immunità parlamentare per i senatori che andranno a comporre il nuovo-Senato. Sentendo il rettore dell’università della Val d’Aosta Fabrizio Cassella in merito, egli affermava come l’immunità per i nuovi senatori fosse un qualcosa di utile nel lungo periodo, non tanto nel breve dal momento che viene vista molto male dall’opinione pubblica, considerati anche gli scandali nei Consigli Regionali del Paese (quasi tutti). Per lei si tratta di un istituto utile nel lungo periodo come affermava Cassella o no?
«Io lascerei il primo comma dell’articolo 68, che prevede l’immunità per i voti dati nell’esercizio delle funzioni. Mentre cancellerei l’immunità vera e propria, cioè quella compresa negli attuali secondi commi e seguenti dell’articolo 68, per le regioni che diceva lei poc’anzi.
Francamente mentre riterrei che l’autonomia del Parlamento e dei suoi Parlamentari, tanto Deputati quanto i Senatori – anche se andranno ad essere eletti in modo indiretto secondo le attuali prospettive del Governo – riterrei che nell’esercizio delle loro funzioni debbano essere coperti dalla insindacabilità. Quello è il primo comma. Per quanto riguarda, più strettamente, l’immunità, io francamente, in questo momento storico la escluderei tanto per i deputati quanto per i senatori, come che essi dovessero essere eletti.
Mi spiego ancora meglio: non è la modalità di elezione da cui dipende se assegnare o meno l’immunità (fatta salva la insindacabilità) quanto la garanzia dell’organo. Tendo a distinguere monto tra insindacabilità ed immunità, quest’ultima è stata un istituto storico molto importante ma in questo momento mi sembra superata. Magari tra qualche secolo ne riparleremo (ride nda)!
La valutazione sull’immunità in senso stretto è certamente anche legata alla cattiva capacità di gestirla diversamente da parte dei consiglieri regionali e anche, forse, da parte dei parlamentari stessi».

Svincolarsi dalla Ue è possibile – intervista a Vladimiro Giacché

Articolo pubblicato su Lindro.it https://www.lindro.it/svincolarsi-dalleuropa-e-possibile/

Ci si può svincolare dai trattati europei e dalla troika? A quanto pare sì, e la notizia arriva dall’Irlanda: la piccola isola si svincola da Fmi, Bce e Ue per riacquisire sovranità di bilancio e prevedere una significativa crescita del Pil. Un cambio di passo non da poco in una nazione che, comunque sia, detiene qualche agevolazione fiscale, come spiega Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche. Ma per l’economista, autore del volume ‘Anschluss – L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa’, c’è dell’altro: non è vero che non si può disobbedire ai trattati europei, si può e come.

Partiamo con la notizia dell’Irlanda: l’Irlanda è uscita dalla troika svincolandosi dal fiscal compact e riacquistando sovranità di bilancio. Quindi non è come si dice nei salotti televisivi, disobbedire ai trattati si può fare?
Diciamo anche che, se solo si volesse, i trattati si potrebbero cambiare. Soprattutto perché i problemi riguardano molti paesi e sarebbe concretamente possibile, se si volesse, creare una maggioranza all’interno del Consiglio Europeo alternativa a quella, imperniata sulla Germania, che ha guidato sin qui le danze. Chi parla di trattati immodificabili dice una grossa sciocchezza. Per quanto riguarda l’Irlanda, la questione è un po’ più complicata:  l’Irlanda è uscita da una sorveglianza molto stretta, che ha riguardato alcuni dei Paesi europei sinora, connessa al piano di salvataggio che è stato effettuato a suo tempo da Bce, FMI e Unione Europea. È una vicenda interessante per diversi motivi. Il primo dei quali è che si tratta di un salvataggio derivante esclusivamente dal fatto che lo Stato irlandese si era indebitato per salvare le grandi banche.  La crisi irlandese nasce come una crisi bancaria, non del debito sovrano.  Solo dopo è diventata una crisi del debito sovrano, perché ovviamente quando devi spendere decine di miliardi di euro  per salvare dalla bancarotta due grandi banche, chiaramente il tuo debito pubblico aumenta. Secondo motivo di interesse: la cura è stata una severissima politica di austerità: tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro,  25 mila impiegati pubblici mandati a casa, neo assunti con uno stipendio del 10% inferiore e cose di questo genere. Direi che l’Irlanda è uno dei casi più emblematici di questa crisi perché è un caso classico in cui a salvare le banche sono stati il contribuente, dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti in generale: sono stati loro a pagare il conto. Tutto questo, in realtà, è avvenuto in concomitanza con gli aiuti –  che lei ricordava prima –  che sono arrivati con il coordinamento della troika (Fmi, Ue, Bce).  Anche a questo riguardo la vicenda è stata abbastanza interessante, perché, l’Irlanda ancora nel marzo 2010 era considerata un paese modello da  Jean – Claude Trichet, che la portava a modello addirittura per la Grecia, dopodiché dal novembre 2010 ha dovuto sottoporsi ad un piano di salvataggio con prestiti intorno agli 85 miliardi di euro che sono serviti a salvare le banche.
E qui c’è un’altra cosa interessante: nel caso dell’Irlanda, nonostante la richiesta di quel paesel’Unione Europea si rifiutò di far pagare almeno una parte del conto agli obbligazionisti delle banche coinvolte. Per un motivo molto semplice: questi obbligazionisti erano in gran parte imprese finanziarie, o anche singoli investitori, di due paesi europei che si chiamano Gran Bretagna e Germania. Per cui, in quel caso, si è dovuto accollare tutto il peso al contribuente e anche al lavoratore irlandese, anche violando tutta la retorica corrente sul valore del mercato e sulle sue regole: stando alla logica del mercato,  una banca che sta fallendo la si dovrebbe lasciar fallire; e  comunque, se la devo salvare, dovrei salvarla in primo luogo a spese di chi le ha prestato dei soldi, evidentemente sbagliando il suo investimento.
Ma veniamo a quello che è successo nelle ultime settimane: a metà dicembre l’Irlanda ha chiesto di uscire da questo piano e, quindi, adesso avrà dei vincoli inferiori a quelli che aveva prima: il piano di salvataggio, questo vale per l’Irlanda ma vale anche per gli altri Paesi che ne hanno usufruito sinora a partire dalla Grecia, comporta una serie di vincoli. I vincoli, questo va precisato, sono maggiori di quelli che abbiamo subito noi finora, perché sono connessi al piano di salvataggio, precisamente per questo motivo l’Italia ad un certo momento, a metà dell’estate del 2012, non ha voluto far ricorso a un piano di salvataggio. Poi l’annuncio da parte della Bce di un piano di riacquisto di titoli di Stato a breve termine dei paesi in difficoltà (soltanto l’annuncio: nessun riacquisto è avvenuto) ha contribuito ad alleggerire le tensioni sui mercati. Al riguardo vale la pena di notare che ancora recentemente Jens Weidmann (presidente della Bundesbank), l’unico che votò contro la decisione della Bce, ha rivendicato il suo voto contrario, in un’intervista al ‘Sole 24 Ore’, con la curiosa motivazione che se la pressione dei mercati non fosse stata alleggerita dalla Bce i governi sarebbero stati costretti a fare più rapidamente le riforme..C’è l’idea, quindi, che i paesi debbano soffrire, dopodiché succederà qualcosa di positivo. Questa è un’idea economicamente insensata, ma io direi anche filosoficamente insensata: noi non possiamo pensare che la sofferenza, che significa milioni di disoccupati e cose di questo genere,  sia una cura che si possa somministrare a cuor leggero. Anche perché sinora le cure non hanno prodotto gli effetti sperati: hanno ridotto la domanda interna e fatto chiudere un mucchio di imprese, altro che rilancio della competitività.  Il mondo metafisico in cui vive chi propone queste ricette è davvero molto lontano dalla vita reale di tutti noi.
Verrebbe da dire, con una battuta: sadomasochismo

Sì, sì, la parte loro, però, è quella sadica: quella masochistica è la nostra. Ma torniamo all’Irlanda: la situazione è migliorata (anche se ad esempio la disoccupazione è tuttora superiore alla nostra), ma il governo dice che le politiche di austerità continueranno. Sia pure, ovviamente, senza questo vincolo stretto che è stato rappresentato dal controllo da parte della Troika. Questo simbolicamente è molto importante: c’è l’idea che tu ti debba liberare quanto prima possibile da questi vincoli, perché – in realtà – non fanno il tuo bene. Questo è il messaggio che arriva da questa uscita dal programma, che comunque avviene dopo aver adottato molte misure dolorose.
Una misura, però, non è starà adottata, per il semplice motivo che non era stata richiesta:  l’aumento delle tasse alle imprese. È un aumento che, francamente, in Irlanda sarebbe molto utile visto che le tasse in quel paese sono del 12,5%, ma l’Europa non si è sognata di chiederlo. Per un motivo molto semplice: questo è un tassello fondamentale della costruzione europea, che impernia la concorrenza fra i Paesi sostanzialmente su due elementi: la concorrenza al ribasso del costo del lavoro e la concorrenza al ribasso sulla tassazione delle imprese. Ora, è evidente che se nella stessa area monetaria c’è uno Stato che fa pagare 12,5 % di tasse alle imprese, evidentemente  ho qualcuno che sta  facendo un dumping fiscale, sta facendo una concorrenza sleale nei confronti degli altri. È ovvio che questa cosa qui può funzionare soltanto se un gettito così basso è controbilanciato dal fatto che molte imprese si spostano in Irlanda, e questo a sua volta può accadere soltanto perché gli altri Stati non fanno lo stesso. Perché se gli altri facessero lo stesso non ci sarebbe più convenienza per le imprese ad andare in Irlanda, e il risultato che si avrebbe sarebbe una riduzione del gettito generalizzata e una crisi fiscale in tutti i Paesi. Trovo molto significativo che questa distorsione legalizzata della concorrenza in Europa basata sul dumping fiscale non sia stata eliminata neppure in presenza della grave crisi del debito che ha colpito l’Irlanda. 
Nel suo ultimo libro Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, come riportato da Alexander Hobel nella sua recensione, scrive che “la cessione della sovranità monetaria ed economica della Repubblica Democratica Tedesca, spianò la strada alla fine della sovranità politica”. Sta avvenendo così anche per i Paesi dell’Europa? Direi di sì,  ma in una misura che chi oggi governa in Germania trova ancora insoddisfacente. Guardi, durante l’ultimo Consiglio Europeo è avvenuta una cosa molto interessante.  La cancelliera tedesca ha cercato di forzare ulteriormente sul controllo dei budget dei vari paesi e sulle cosiddette “riforme strutturali”, e ha trovato un muro. Forse, una delle prime volte che ha trovato resistenze. Tutta la faccenda, quindi, è stata rimandata di un anno. Lei non ha preso bene la cosa. E ha fatto un paragone parecchio inquietante tra la Germania est e il resto dell’Europa. L’ha riportato ‘Le Monde’ (la fonte è probabilmente qualche esponente del governo francese) ed è stato ripreso dalla Tageszeitung. La Merkel ha detto più o meno questo: “guardate, io sono cresciuta in un paese che è stato salvato (le modalità di questo cosiddetto “salvataggio” le ho spiegate nel mio libro) dalla Germania ovest. L’Europa non potrà salvarsi se si continua a procedere in questo modo, come si faceva nel comunismo: non sarà possibile salvare l’Europa e quest’ultima esploderà”, etc etc etc. 
Le cose interessanti da notare sono due: la prima è che per la prima volta non si considera il comunismo come totalitarismo ma quasi come uno stato sociale eccessivo, uno stato sociale che non ci si può permettere, e la cosa è abbastanza singolare; la cosa più interessante, però, è un’altra: gli esponenti del governo tedesco continuano a partire  dall’idea che loro sono i salvatori dell’Europa e che il salvataggio consiste nel fatto di mettere in campo esattamente le politiche che loro hanno realizzato precedentemente. Infatti, il contesto della polemica era che la Germania ,come sta facendo da diversi mesi, ha riproposto alla Francia e ad altri paesi la necessità di fare propria l’Agenda 2010 di Schröder. Il cancelliere che ha preceduto la Merkel ha ridotto servizi sociali e sussidi di disoccupazione, ha creato un mercato parallelo di lavoro precario pagato molto poco e, in questo modo, ha rilanciato la competitività della Germania. Perché la competitività degli ultimi 15 anni della Germania non deriva dall’aumento di produttività, ma dal fatto che questo aumento (esso stesso tutt’altro che spettacolare) non è stato minimamente trasferito ai salari. Il segreto della competitività tedesca consiste in  una politica di dumping sociale. Dire questo può sembrare strano, perché i lavoratori tedeschi sono tradizionalmente ben pagati. Ma le loro condizioni sono peggiorate proprio grazie all’Agenda 2010: in Germania ci sono circa 8 milioni di minijobs pagati 450€al mese. e tutti gli indicatori sociali di povertà in Germania, in questo periodo, sono peggiorati. Secondo il rapporto annuale sulla povertà in Germania, uscito il 19 dicembre, i poveri in Germania sono in media il 15 per cento della popolazione, con un picco di oltre il 25 per cento in Pomerania Occidentale, nell’ex Germania Est “salvata” dalla Germania Ovest secondo la Merkel. Ma anche all’Ovest non si scherza, con il 23 per cento di Brema e una crescita della povertà superiore alla media nella zona della Ruhr. Se nella città di Dortmund i poveri nel 2005 erano pari al 17,4 per cento degli abitanti, ora sono cresciuti al 22,8 per cento.
Insomma: non sembra che le politiche seguite in Germania siano un successo strepitoso neppure da loro. Sono precisamente questi nuovi poveri che hanno pagato il prezzo delle esportazioni tedesche. Ma c’è di più:  anche in questo caso vale il discorso che si faceva prima sull’Irlanda. Anche le politiche di dumping sociale finalizzate a rafforzare le esportazioni  hanno un senso soltanto se non vengono generalizzate:  se vengono generalizzate comportano semplicemente un impoverimento generalizzato molto forte, e una crisi da domanda.
È quello che è già successo nei paesi del sud Europa, a cui queste politiche sono state imposte in una misura che la Merkel ritiene insufficiente ma che io ritengo eccessiva: e infatti uno dei nostri principali motivi di crisi è il calo della domanda interna. Sono soprattutto i produttori che producono soltanto per l’Italia a essere in grave crisi.
Se tutto questo è vero, è abbastanza singolare che si interpreti il ruolo della Germania oggi in Europa non come un partner fra gli altri, ma come uno che deve educare gli altri alla parsimonia, alle riforme strutturali, e che questo Paese chieda continuamente agli altri ulteriori cessioni di sovranità (oggi ad esempio sui bilanci), oltretutto   asimmetriche. Perché quando si parla dell’unione bancaria la Germania, invece, ha frenato: i tedeschi tendono ad andare avanti dove si sentono sicuri (controllo del budget e simili), ma dove si sentono – del tutto a ragione – poco sicuri, come riguardo al settore bancario, hanno imposto all’Europa delle regole che rendono l’unione bancaria estremamente sbilanciata.
Mi spiego: a Bruxelles verranno sorvegliate soltanto 24 banche tedesche, perché tutte le altre, e sono tante, perché il sistema tedesco bancario è poco concentrato, molto meno del nostro, si trovano sotto le soglie che il ministro delle finanze tedesco Schäuble ha imposto in sede europea. In concreto,  soltanto le banche che hanno più di 30 miliardi di attivi saranno sorvegliate da Bruxelles: per farle un esempio, in Germania ci sono 417 Casse di Risparmio ma una sola sarà sorvegliata da Bruxelles, quella di Amburgo. In altri paesi le banche sorvegliate sono molte di più, in termini di proporzione al Pil, perché i sistemi sono più concentrati.
Questa asimmetria non è una cosa da poco, perché comporta che l’unione bancaria non funzionerà: se io lascio fuori dal controllo di Bruxelles delle banche, che magari in sé sono piccole, ma che possono comportare un rischio sistemico, io non risolto i miei problemi. Questa posizione negoziale tedesca è passata anche se era facilmente contestabile, perché in Europa i rischi sistemici sono venuti spesso dal fallimento proprio di banche relativamente piccole, come la Northern Rock in Gran Bretagna o le Casse di risparmio in Spagna, che hanno innescato….
…un meccanismo a catena…
Certo: non è soltanto LehmanBrothers che ha provocato la crisi. In ogni caso, anche dietro i negoziati sull’unione bancaria, è facile scorgere un atteggiamento che si presenta  come europeista, ma che in realtà è egoismo nazionale neppure troppo mascherato.
Quindi si può dire, magari in maniera non corretta, che coloro che propugnano l’unione bancaria si troveranno senza la sovranità politica?
La cosa che dico è ancora un’altra: quando noi diciamo, e l’ho anche scritto nel mio libro, c’è soltanto l’unione monetaria e non c’è  l’unione politica, interpretando l’unione monetaria come una cosa di poco conto, non vincolante, non abbiamo capito il punto fondamentale: l’unione monetaria è uno dei vincoli più forti che ci siano. Il problema è, come si esce da questa situazione? Qualcuno pensa di uscirne cedendo ulteriore sovranità, sperando che così la situazione migliori. Io credo invece che si debbano  cambiare in maniera radicale le regole del gioco: se non si fa questo ogni ulteriore cessione di sovranità va nella direzione sbagliata, è destinata a peggiorare la situazione anziché migliorarla.
Io non desidero uno Stato europeo se le regole economiche che lo sorreggono sono quelle attuali: non ho proprio nessun motivo di desiderarlo, lo dico molto sinceramente. So che in Italia molti si dicono europeisti. Ma è una definizione mistificatoria in un momento in cui quello che si chiama europeismo, di fatto, è il privilegio degli interessi di un paese, o di un gruppo di paesi, su altri – compreso il nostro.
Questo è il punto, secondo me, fondamentale.
Quindi lei contrappone l’idea di europa dei popoli a quella del “grande capitale”, mi pare di capire..
Più in concreto, io  contrappongo l’idea di un’Europa che promuove il benessere dei propri cittadini ad un’Europa in cui sono stati impegnati qualcosa come 5000 miliardi di euro per salvare le banche. Questi miliardi di euro, poi, sono stati ribaltati e diventati dei sacrifici da imporre ai propri cittadini. In generale è questo meccanismo, per cui si socializzano le perdite e alla fine tutto diventa un carico fiscale da far pagare ai cittadini, alle imprese, a coloro che con questa crisi oggettivamente non c’entrano nulla,  è questo meccanismo che andrebbe assolutamente rovesciato. 
Io non credo che sia, neanche una cosa particolarmente rivoluzionaria, si tratta semplicemente di affermare l’idea che la politica e la politica economica non debbano essere determinate dalle grandi banche e dalle grandi corporations.
In questi anni noi abbiamo vissuto in uno strano mondo magico, mitologico in cui si dicevano certe cose ma se facevano altre: si diceva “bisogna lasciar fare al mercato”. Ma la cosa ha funzionato così: quando le cose andavano bene i profitti erano privati, quando hanno cominciato ad andare male le perdite sono diventate pubbliche. Che è un modo un po’ curioso di interpretare il funzionamento del mercato. Oltretutto, il risultato si è rivelato non solo ingiusto (quello che si è avuto è stato di fatto una redistribuzione dal basso verso l’alto), ma anche fallimentare da un punto di vista economico.
Ci sono dei fatti così evidenti che quasi ci si vergogna a doverli ricordare. Ad esempio il nostro Paese mette in campo, da diversi anni , una politica di austerity che è stata pesante, perché ha comportato un aumento della tassazione significativo e anche dei tagli ai servizi sociali che non sono irrilevanti, come sa chiunque vada a scuola o all’università, o abbia avuto modo di usufruire del servizio sanitario negli ultimi anni. Con un colpo di penna è stata aumentata l’età pensionabile di sei anni per alcune classi di età, e sono state ridotte le prestazioni. In questo momento siamo il paese europeo che ha l’età di pensionamento più elevata in assoluto, più elevata della stessa Germania. Di fronte a tutto questo uno è portato a credere : “il debito sarà diminuito!”. E invece no, il debito è cresciuto di oltre 10 punti percentuali. Anche volendosi tenere prudenti, siamo comunque ben oltre il 130% del Pil.
E questo per due motivi. Da un lato abbiamo dovuto onorare gli impegni europei sul fondo salva stati, di cui non abbiamo usufruito ma al quale abbiamo pagato 50 miliardi di euro (contabilizzati come debito – cosa folle ! –  secondo le regole europee). Oltre a questo, il resto dov’è? Molto semplice: le politiche di austerity hanno provocato una perdita del prodotto interno lordo per cui la proporzione del debito sul Pil è peggiorata. Questa era una cosa prevedibile, largamente prevista, io stesso in un libro che ho pubblicato in prima edizione all’inizio del 2012 l’avevo detto, e purtroppo a ragione. E non sono il solo.  In diversi hanno previsto questa cosa: totalmente inascoltati perché bisognava andare dietro alle sirene dell’austerity come misura salvifica per la nostra economia.
La verità è che non abbiamo salvato un bel niente, che il gettito fiscale è risultato inferiore alle attese nonostante l’aumento delle tasse  –  ovviamente, perché quando c’è la crisi il reddito diminuisce, e con esso le tasse – , e che stiamo peggio di prima. Un minimo di onestà intellettuale dovrebbe indurre a dire che  bisogna non correggere, ma cambiare la rotta, cambiare strada..
Politicamente parlando, i governi che difendono e tutelano queste politiche, si è detto più volte, sono i governi di grande coalizione, ultimo caso quello tedesco. Ma in che modo i governi traballanti come quello letta possono mettere in prati s ricette economiche come quelle europee?
E’ evidente a tutti che siamo in una situazione di incertezza. Con la maggioranza attuale,  anche misure che sembrano facili diventano complicatissime: basti considerare  il balletto sull’Imu etc. E’ evidente che, in effetti, i governi di grande coalizione hanno il pregio  di avere una larghissima maggioranza parlamentare, ma hanno il difetto di essere esposti a ricatti reciproci e ceti incrociati. Il difetto principale però è un altro: il fatto di non esprimere, nel caso italiano, una maggioranza chiara emersa alle elezioni, che sarebbe in grado di dare anche più voce in capitolo in Europa ai nostri rappresentanti. Qui dietro però c’è un altro tema molto più grande, secondo me. Perché lei giustamente diceva che i governi di grande coalizione sono in Germania, sono in Italia, io aggiungo che sono in Grecia. Ma il presupposto reale di queste coalizioni è sempre più spesso il fatto che i  partiti quelli di centrodestrae quelli socialdemocratici in realtà propongono ricette politiche molto simili.
Qui c’è un problema gigantesco che consiste com’è ovvio negli interessi tutelati , ma è anche un problema culturale. Probabilmente la cultura neoliberistica, per usare una definizione generale che forse andrebbe meglio precisata, ha fatto breccia su un numero vasto di forze politiche. E invece è sempre più urgente la necessità di avere Allora, comunemente, il tema è proprio quello di dare rappresentanza anche a posizioni che rifiutano questo genere di approccio. Qualche anno fa andava di moda parlare del pensiero unico, io all’epoca ero un po’ perplesso perché pensavo che fosse  una definizione un po’ semplicistica, . Forse chi parlava di pensiero unico non aveva ragione allora, ma avrebbe ragione adesso. Il dibattito pre-elettorale che c’è stato in Germania, ad esempio, era paradossale: nei confronti televisivi tra la Merkel e Steinbrück – che era lo sfidante della Spd –  c’erano delle sfumature ma più o meno dicevano le stesse cose. E del resto già nella scorsa legislatura  la SPD, per essendo all’opposizione, ha quasi sempre votato col governo.
E non a caso  il referendum interno della Spd ha ora votato a favore delle larghe intese con la Cdu della Merkel.
Esatto. E la SPD che rientra nella coalizione di governo non fa nulla per scalzare dal suo posto uno dei principali responsabili delle politiche che sono state effettuate sinora: il ministro delle finanze Schäuble.  È il posto più importante di tutto il governo! Non ci hanno neanche provato,  perché più o meno la pensano allo stesso modo. Al posto delle grandi coalizioni ci vorrebbero dei grandi pensieri. Quanto meno dei pensieri nuovi e più ambiziosi. Che non si rinchiudano nella difesa di un ordine sociale e istituzionale, come quello europeo attuale, che non funziona.