Iniziamo con un’ovvietà, un’equazione, se è consentito. Calcio moderno è
capitale. Non che prima di ora, negli scorsi decenni, non vi tendesse:
lo abbiamo già scritto,
d’altra parte. Tuttavia la nuova notizia, al momento già vecchia per il
repentino naufragio, della Super Lega (o Super League) può essere
assunta a paradigma di somiglianza. La nuova lega internazionale
riservata a chi se lo può permettere, a chi ha i soldi per poterlo fare,
imprime ancora di più l’acceleratore su una trasformazione globale del
sistema calcistico internazionale. Roboanti, sebbene cave, le parole
della dirigenza della Federazione internazionale: «le società
organizzatrici la Super Lega si chiamano automaticamente fuori dal
sistema FIFA». Addirittura Mario Draghi ha rilasciato una dichiarazione a
riguardo: «Il governo segue con attenzione il dibattito intorno al
progetto della Superlega calcio e sostiene con determinazione le
posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare
le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale
dello sport». Quali siano i valori meritocratici dietro a speculazioni
finanziarie o a bilanci perennemente in perdita delle squadre italiane,
non ci è dato saperlo. Per fortuna ci è rimasta l’ironia. È
interessante, semmai, vedere qual è stata la reazione del capitalismo
occidentale di fronte ad un’operazione evidentemente transnazionale e
che coinvolge alcuni tra i più grandi club calcistici, alcuni con
consistenti gruppi finanziari alle spalle. Tanto per fare un esempio e
per chiarire il peso specifico della questione: la società Venezia FC,
recentemente ceduta dallo statunitense Joe Tacopina, è stata rilevata
dal connazionale Duncan Niederauer, già pezzo grosso della finanza della
Grande Mela (presidente e amministratore delegato della borsa di New
York), componente del G100, già nel board di Goldman Sachs.
E stiamo parlando di una realtà di media classifica di Serie B.
La nuova Super Lega riguarderà solo pochi grandi club, in buona
misura, tra quelli europei che ottengono soldi dalle competizioni per
poterli reinvestire e far sì che possano disputare nuovamente quegli
stessi tornei internazionali. I club locali devono accontentarsi delle
briciole e, qualora dovessero balzare agli onori delle cronache per
prestazioni sopra le righe o posizionamenti al di là delle proprie
capacità, i loro migliori giocatori verrebbero inevitabilmente
acquistati da altre squadre.
Un ciclo senza fine, un serpente che si morde la coda rigenerandosi:
le grandi squadre vincono le competizioni, prendono soldi, acquistano
nomi blasonati pagandoli una fortuna, tornano a vincere quei tornei
nazionali, si proiettano verso una dimensione quasi eterea della loro
popolarità e via dicendo. Tutto, chiaramente, al netto dei debiti che
producono le società anno dopo anno. Il calcio italiano, poi, quello
“che conta”, è preda di continue speculazioni edilizie e finanziarie in
cui sembra avvilupparsi ogni giorno di più, senza realmente uscirne.
Ogni presidente che si avvicenda sullo scranno più alto di una società
calcistica, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza, ritiene
opportuno investire all’interno del brand della squadra,
rilanciandone l’immagine e per farlo – come prima cosa – deve iniziare a
sondare il terreno per la costruzione del nuovo stadio. Progetti i
quali, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, o rappresentano
interessi che travalicano il mondo del calcio, oppure sono estremamente
connessi alla persona rappresentante la società sportiva in quel preciso
momento.
I cambiamenti sportivi sono pochi, stanti così le cose,
l’immutabilità è servita: l’inanità è quel che resta dell’estrema
finanziarizzazione del calcio. Semmai dovessero verificarsi cambiamenti,
impiegherebbero più di qualche decennio. O comunque non sarebbero in
meglio, quanto piuttosto in peggio. La vicenda dell’organizzazione qatarina del mondiale lo rappresenta pienamente.
La Super Lega fa cadere ogni maschera all’impalcatura che regge il
sistema calcistico transnazionale. Il sistema UEFA pretendeva di essere
“giusto” e corretto nei confronti di tutti, quando sappiamo bene che non
è così, anche alla luce di quanto detto sopra. Nessuno parte alla pari e
lo squilibrio è servito. Intendiamoci: il calcio è anche questo, vedere
le squadre meno blasonate gareggiare contro i grandi nomi e – magari –
vincere. Non staremo qui a citare degli episodi, tuttavia basti pensare
alla vittoria della Coppa delle Coppe dell’FC Magdeburgo nel 1974
(Germania est, in cui il calcio era dilettantistico per legge) sulle
squadre europee occidentali, tra cui il Milan di Giovanni Trapattoni,
sconfitto in finale. La mossa che si vuole tentare, ad ogni modo, è
quella di estromettere ogni altra società che non possa permettersi la
nuova SL. Da una parte il paradiso, dall’altra un colpo di fucile
nell’orecchio. Non basta chiudere gli occhi per tre volte: il divario si
acuirà sempre di più.
Il sistema della Super Lega non solo è stato messo in piedi da
squadre-aziende proiettate ai risultati di borsa anziché a quelli sul
campo, ma la struttura posta in essere è semplicemente realizzata per
fare ancora più soldi. D’altra parte, marxisticamente parlando, la
concentrazione di monopoli è una tendenza naturale del capitalismo (e
che i liberal d’accatto fanno finta di criticare per dare una parvenza
di dignità alle loro tesi).
E IL DILETTANTISMO?
Le squadre e i campionati dilettantistici, in Italia, rimarranno
tali. O meglio, si continuerà a far finta che, ad esempio, la Serie D si
stia sempre più professionalizzando, a cui vi partecipano squadre
realizzate appositamente per vincere e il cui sistema di superamento
della categoria non consente un reale passaggio organico dallo status di
“dilettante” a “professionista”. Un esempio recente è quello dello
Sporting Bellinzago. È più facile ricercare e ritrovare, all’interno dei
“vasi comunicanti” fra Serie C e quarta serie, casi di fallimenti,
malversazioni, rinascite dopo crisi e acquisizioni di titoli ad hoc,
come avvenuto per le defunte società denominate “Lupa” (dalla Lupa
Castelli Romani alla Lupa Roma, passando per la “Lupa Racing”, ibrido
pontino-castellano di una società di eccellenza che rileva il titolo a
seguito del fallimento della prima squadra nominata afferente ai
canidi-lupini).
LA LEZIONE DEL CALCIO POPOLARE IN ITALIA
Per qualche anno in Italia si è assistito al fiorire del calcio
popolare, tanto nelle piccole quanto nelle grandi realtà urbane.
Parliamo di strutture alternative rispetto alla gestione aziendale delle
società, dunque di “azionariato popolare” in cui i tifosi sono anche
sostenitori e soggetti attivi nella partecipazione della vita di quella
squadra. Trattasi di impostazioni, al momento, per natura stessa
dilettantistica e non professionista o semi-pro. Tuttavia, i costi per
far fronte a dei campionati federali (Figc) rappresentano un muro
(spesso invalicabile) per le realtà che tentano di imbarcarsi nella
Terza, Seconda e Prima Categoria. A Roma – per quel che riguarda il
calcio a 11 maschile – resistono l’Atletico San Lorenzo, che ha dato
poco festeggiato i 10 anni di età e la Borgata Gordiani. Terminate,
purtroppo, le esperienze di Ardita (ex Ardita San Paolo) e Spartak
Lidense (Ostia-Centro Giano). In Italia resistono esempi concreti di
“altro” calcio come il Centro Storico Lebowski (Toscana), Polisportiva
Gagarin (Abruzzo), Ideale Bari (Puglia), La Resistente (Liguria),
Brutium Cosenza (Calabria) e altre realtà per cui ci scusiamo fin da ora
di non aver citato. Tutte al di sotto dei campionati di Eccellenza ma
opportunamente raccontate dal sito “sportpeople.net” che segue da vicino
ogni sviluppo nelle curve, dalle curve e dello sport popolare. Per il
calcio femminile, sebbene realtà di calcio a 5 solamente capitolina, qui
ci limitiamo a citare l’esperienza della CCCP1987 in serie C. Non
foss’altro per evidenti affinità onomastiche.
IL CALCIO È – SEMPRE – QUESTIONE DI CLASSE
Pur tuttavia, sono molte le realtà che hanno chiuso i battenti negli
anni: in molte città si è assistito alla nascita e alla morte di ASD di
calcio popolare. Una volta tentata la strada, i costi iniziavano ad
essere esorbitanti, la partecipazione calava, la questione dei campi e
dell’affitto degli stessi pesava sul magro bilancio di una società
realmente dilettantistica militante in Seconda o Terza Categoria.
Rimane valida l’esperienza di ogni realtà che ha provato – e in
alcuni casi sta riuscendo – a vivere all’interno del sistema federale
per testimoniare l’esistenza di un altro calcio, fondato su
partecipazione, inclusività, antifascismo e antirazzismo, nonostante
qualsiasi difficoltà. Di fronte alla recrudescenza e al tentativo sempre
più evidente di poche società iperquotate di far valere la loro
posizione finanziaria di fronte al movimento calcistico di tutto il
mondo, c’è da incoraggiare la ripartenza e rinascita di ogni società che
deciderà di andare in totale controtendenza, per il bene delle loro
comunità di appartenenza e in nome di uno sport del tutto diverso. E se
oggi la Super Lega sembra essersi sgretolata al primo assalto,
prepariamoci, perché non sarà l’ultimo…