L’altro mondo impossibile – Atlante Editoriale

«Genova ha cambiato molto la mia vita. Stranamente ciò che ha
cambiato la mia vita è la sensazione di essere stata miracolata. Sono
rimasta indenne, mentre attorno a me le persone cadevano e venivano
massacrate di botte
»

racconta Leyla Dakhli, giovane attivista francese di origine tunisina, ad Alexis Mital Toledo e Eric Jozsef, autori del documentario Gêne(s)ration
del 2002, inedito in Italia. Ha lo sguardo spento, Leyla, mentre parla
dei giorni del suo luglio 2001. Guarda fuori dal finestrino di un treno
fermo su un binario, assorta e malinconica.
Il sogno spezzato della giovane Leyla è lo stesso delle trecentomila persone che, dal 14 al 22 luglio 2001, si incontrarono in una Genova militarizzata
rispondendo all’appello del Genoa Social Forum, rete internazionale di
1187 organizzazioni tra attivisti ambientalisti, pacifisti, del mondo
cattolico, delle ONG e dei centri sociali e femministe per discutere di
clima, diritto alla salute, acqua pubblica, pace, ambiente, sviluppo
sostenibile e giustizia, agricoltura e sovranità alimentare, proponendo
soluzioni di segno opposto rispetto alle ricette del Gruppo degli otto
paesi più economicamente avanzati. In opposizione al G8, quindi, che dal
19 al 22 luglio 2001 si riuniva nel Palazzo Ducale di Genova.
Ripercorrere a ventidue anni di distanza gli avvenimenti che si
svolsero in quei giorni non è un semplice esercizio della memoria. È
importante perché ci parla del presente: da una parte, i temi del Genoa
Social Forum sono i temi del nostro presente; dall’altra, i protagonisti
di quelle giornate non sono così distanti da noi. Il governo di allora
infatti, presieduto da Silvio Berlusconi, santificato alla morte
dall’attuale governo, è lo stesso sotto il cui mandato si verificò
quella che Amnesty International definì come

«la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Una rappresentazione – sia concesso – ironica ma non troppo del clima
che si respirava quei giorni la fornisce il «Corriere della Sera» del
30 giugno 2001. A pagina 6 campeggia il titolo che fa riferimento
all’aspetto della città, tutt’altro che “tirata a lucido”, per cui
Berlusconi, allora Primo Ministro, cercava di suonare la carica sulle
tempistiche dei lavori. Sulla destra un piccolo trafiletto: a Genova è
stata rubata un’ambulanza ed è scattato l’allarme. 

«Ogni mezzo,
soprattutto quelli pubblici, potrebbe essere mimetizzato e usato per
“sfondare” le barriere di sicurezza. […] I residenti dovranno comunicare
se ospitano stranieri e “denunciare” qualsiasi variazione ai dati
forniti durante il censimento».

La tensione era palpabile e anche quel
che parrebbe essere stato un semplice allarme di un tentato furto, aveva
fatto riaccendere la proverbiale miccia attorno alla “città blindata”.
In basso a destra due articoli: 

«La rivoluzione in videogames: si chiama
“Red faction” ed è il primo videogioco dedicato alla lotta di classe.
Sta per arrivare in Italia ed è già diventato un fenomeno di culto nei
centri sociali di mezza Europa […] i contestatori utilizzano “Red
faction” come allenamento»[1].

Taglio basso: 
«I figli della borghesia romana si preparano: maturità, poi tutti al G8»[2].
Il racconto della politica di quei giorni non può che partire dalla
considerazione che Fabrizio Caccia produceva nell’articolo: la Roma
bene, per sua stessa natura decadente nonché filo-progressista più per
volere del luogo comune che in ossequio alla realtà, agli occhi
disincantati e giudicanti dei più, si preparava in massa e in marcia a
prendere parte alle realtà del movimento che dalla Capitale si sarebbe
spostato a Genova il mese successivo.
Pier Ferdinando Casini in quei giorni diceva che «i genovesi devono poter girare liberi nella loro città», l’allora Presidente della Camera dei Deputati faceva riferimento evidentemente alla “città blindata” in vista dei cortei. «Era un po’ sgarrupata [Genova] ma adesso va molto meglio», diceva Berlusconi il 15 luglio, 

«la città arriverà preparata all’appuntamento della prossima settimana, anche se si tratta di un appuntamento difficile»[3].

Il Primo Ministro, nei giorni precedenti ai fatti, girava per la
città e rilasciava dichiarazioni come ormai aveva abituato gli italiani: 

«Le manifestazioni di protesta contro le riunioni del G8 sono
paradossali. Si discuterà proprio dei temi che i contestatori sollevano.
Tra questi la povertà nel mondo, le grandi malattie che si devono
combattere, la necessità di non far morire più la gente di fame e di non
lasciare nessuno nell’analfabetismo. Un altro tema fondamentale sarà
quello dell’ambiente […]
».

Che ventidue anni dopo avremmo ricordato quei giorni durante
una violentissima ondata di caldo causata proprio dal cambiamento
climatico che quel G8 aveva la responsabilità di fermare, Berlusconi non
poteva saperlo.
Di certo, gli unici incontri in cui si affrontò
seriamente il tema del surriscaldamento globale furono quelli del Genoa
Social Forum. I movimenti presenti e repressi con la violenza a Genova
sono cruciali per il presente proprio perché affrontarono per primi
questioni oggi dirimenti, tra tutte quella ambientale e la tutela dei
migranti. I movimenti ambientalisti che caratterizzano il nostro
presente, dal Friday For Future a Last Generation, sono insomma figli di
quel movimento altermondialista di cui faceva parte la generazione di
Leyla, così come le ONG che ogni giorno salvano le vite di migliaia di
migranti che tentano di superare indenni le alte mura e il mare profondo
di un’Europa sempre più chiusa in sé stessa.
Soprannominato erroneamente dai media movimento no-global, il
movimento altermondialista che lottava con lo slogan “un altro mondo è
possibile” e che, come Leyla, lottava per il benessere, il progresso e i
diritti umani di tutti, rappresentava le istanze del popolo di Seattle
.
Sorto nel 1988 a Berlino dove si teneva la conferenza del Fondo
Monetario Internazionale, il movimento si diede poi appuntamento a
Parigi, Madrid, Londra e, appunto, a Seattle, dove il 30 novembre 1999
sfilò la prima grande manifestazione di protesta e si verificarono degli
scontri tra polizia e manifestanti. Come accade anche oggi nella
narrazione mediatica dei gruppi ambientalisti, già allora il racconto
giornalistico si concentrò principalmente sulle azioni di protesta.
A Genova tuttavia il sistema di informazione fallì su tutti i fronti, pubblicando (senza verificarne la veridicità) le informazioni false fornite dai servizi segreti, cui la politica diede credito: si parlò di 

«palloncini
con sangue umano infetto da lanciare sui manifestanti; copertoni di
auto da lanciare infiammati sulle colline di Genova, l’affitto di un
canale satellitare per divulgare la protesta a livello mondiale; buste
di plastica con sangue di maiale da lanciare sulle forze dell’ordine per
disorientarle e la predisposizione di due testuggini umane, formate da
ottanta manifestanti ciascuna
». 

Fatti che, ovviamente, non si
verificarono mai. Significativo, quanto amaramente ironico, fu
l’articolo di Norma Rangeri su «il manifesto» del 20 luglio 2001 in cui
la giornalista poneva l’accento sulla natura dei servizi
telegiornalistici: 

«Non è successo ancora nulla (o quasi) ma se la
notizia non c’è si trova. […] si può occupare tempo e denaro (il nostro)
per mostrare [in televisione] i poliziotti che perquisiscono i genovesi
ai valichi della zona-rossa senza trovare nulla. Quel nulla che basta e
avanza per consumare due o tre minuti spiegando che si “perquisisce una
borsa sospetta”. Ora una borsa è una borsa, specialmente se quella
inquadrata è un classico (e anche elegante) cestino di cuoio per
signora. Oppure si può andare dal prete che, di fronte alla telecamera,
non vuole perdere i suoi secondi di celebrità e spara sciocchezze a
salve (“meglio non celebrare matrimoni per evitare assembramenti e
sommosse”). Oppure ci si può collegare con la sala stampa (naturalmente
deserta) per giocare d’anticipo (“presto si riempirà”)»[4].

Pare non essere cambiato nulla, da quel giorno, in quanto alla diffusione di aprioristiche tensioni

«Il meccanismo è infernale: la conduttrice in studio riassume i fatti,
passa la parola all’inviato-capo (si riconosce perché si fa riprendere
con le navi alle spalle) che, a sua volta, ripete il riassuntino, poi la
linea va ai cronisti che buttano il microfono sotto il naso di
chiunque, pur di saziare la fame prepotente di sette emittenti nazionali
per un’offerta di una trentina di edizioni di tg al giorno»[5].

I giorni di Genova del 2001 rappresentarono per il movimento
altermondialista un punto di non ritorno. Finì a Genova, il primo
movimento di massa della storia che non chiedeva niente per sé, come lo definì
la politologa Susan George, a colpi di pistola e manganello. Con
l’uccisione di Carlo Giuliani, 23 anni, a piazza Alimonda, con le
violenze della polizia, agite indiscriminatamente sui manifestanti, che
portarono al ferimento di circa milleduecento persone. Terminò con le torture della scuola Diaz (93 le persone abusate) e nella caserma di polizia di
Bolzaneto: gli agenti resteranno impuniti, perché in Italia il reato in
questione esiste solo dal 2017 (e che, ora, il governo Meloni vuole abrogare). Solo nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo stabilì i risarcimenti per le vittime e chiarì che alla Diaz le torture ci furono per davvero.
 

Il “giorno dopo”

«Se verranno individuati abusi, violenze ed eccessi, non vi sarà
copertura per chi ha violato la legge. Ma siamo tutti convinti che non
si deve confondere chi ha aggredito e chi è stato aggredito, chi ha
difeso la legge e ha cercato di tutelare l’ordine e chi, invece, contro
quest’ordine si è scagliato
»[6], così disse in Senato il Primo Ministro Silvio Berlusconi, come annotava certosinamente Ida Dominijanni del «manifesto».
Nel ventennale dai fatti di Genova Fabrizio Cicchitto scrisse un
lungo articolo sui responsabili del G8 oltre Berlusconi e Scajola che
venne pubblicato dal «Riformista» (quello di Sansonetti, nda).
Le responsabilità sarebbero state anche di altri e, il già componente
del Copasir e vice capogruppo di Forza Italia alla Camera di quella
Legislatura, additava tutto l’arco parlamentare nell’introduzione dello
scritto: 

«Una catena di errori politici commessi dal governo D’Alema, dal governo Amato, da quello di Berlusconi, dal PDS, da Rifondazione Comunista e da AN, gravissimi errori gestionali e comportamentali da parte dell’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro e dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Sergio Siracusa,
l’irruzione di un mucchio selvaggio costituito da migliaia di
manifestanti che non erano solo degli angeli, ma fra i quali c’era di
tutto – pacifisti, contestatori razionali, praticanti della guerriglia
urbana, black bloc – ha portato ad un
autentico disastro nel quale ci fu la distruzione sistematica di pezzi
della città, una durissima guerriglia urbana, il massacro da parte delle
forze dell’ordine di dimostranti inermi, l’uccisione di Carlo Giuliani, la macelleria messicana praticata alla Diaz e a Bolzaneto»[7].
Poco importa se Berlusconi avesse dichiarato all’inizio della
conferenza stampa a seguito dei noti fatti come non ci furono state «falle importanti»
[8]

Cicchitto, ex post, rincara la dose: 

«Due conclusioni. Anche
per una questione di intelligenza politica e di credibilità
internazionale, la linea del governo Berlusconi era per la mediazione e
per il dialogo, certamente non per la repressione e per la macelleria
messicana. Al netto, però, di tutte le successive vicende giudiziarie,
ma per una valutazione politica di merito su quello che era accaduto,
subito dopo il G8 Berlusconi avrebbe dovuto sollevare dai loro incarichi
il capo della Polizia De Gennaro e il comandante dell’Arma dei
Carabinieri Siracusa: avrebbe dovuto farlo anche se essi, specie il
primo, erano protetti da forze importanti e molto potenti della
sinistra. Questa ricostruzione riguarda solo lo svolgimento dei fatti,
in altra occasione faremo una riflessione sui massimi sistemi»
[9]

Condire con sapiente uso del condizionale e riflessione ex post quanto
basta, o q.b. per gli appassionati di blogging culinario.

Da quella fase il mondo della narrazione contraria, o se vogliamo
della “contro-narrazione” prodotta dai governi e dal (neo)liberismo,
venne semplicemente soffocato. Il punto è dolente e tocca ancora oggi i
destini e le sorti di un’alterità politica: orecchie e cuori non sono
più in grado di prestare ascolto a quella che è una proposta alternativa
all’uniformità del liberalismo politico dell’ultimo quindicennio. 
Le strade si sono divise per la manifestazione del pensiero
contrario: il dopo Genova ha portato la risacca nei cuori delle
generazioni successive. 
Arrendevolezza in potenza, anche contro il
proprio istinto.  
Il mondo è cambiato quel giorno perché chi ha avuto il
coraggio di parlare ed è sceso in piazza, ha smesso di farlo dopo
quanto accaduto. La costruzione dell’alterità sociale e politica è stata
messa sotto scacco ancor prima che essa potesse tradursi in azione
sebbene la questione ambientale sia tutt’ora uno dei temi che più
vengono trattati tanto dai movimenti quanto dalla stampa, pure
mainstream. 
 
Ma il bivio è stato segnato: chi contesta è anche tollerato
(non sempre, s’intende) purché rimanga nell’alveo del dialogo
istituzionale e porti la sua contestazione ad un tavolo di confronto
sanciti da strette di mano e fotografie di rito. Purché non si tracci
un’altra strada ideologica: anticapitalismo non può essere collegato ad
ambientalismo così come a nessun altro grande tema settoriale di cui, di
tanto in tanto, l’informazione sembra volersi occupare per dovere
d’impaginazione. 
Gli slogan mutano e non si immagina neanche più un altro mondo
possibile: improbabile anche sognarlo, teorizzarlo men che meno.
L’ultima generazione suona la carica attuando, spesso, proteste che
indignano l’opinione pubblica, la grande stampa e la politica ma il muro
mediatico sembra essere insormontabile.
 
Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/laltro-mondo-impossibile-22-anni-dal-g8-di-genova/
 
NOTE
[1]     s.n. La rivoluzione in videogames, «Corriere della Sera», 30 giugno 2001. 
[2]     Fabrizio Caccia, I figli della borghesia romana si preparano: maturità, poi tutti al G8, «Corriere della Sera», 30 giugno 2001
[3]     Augusto Boschi, “Per me Genova è okay”, «il manifesto», 15 luglio 2001.
 
[4]     Norma Rangeri, Ansie da audience ai tg del G8, «il manifesto», 20 luglio 2001. 
[5]     Ibidem. 
[6]     Ida Dominijanni, Parola di Berlusconi, «il manifesto», 28 luglio 2001.
 
[7]     Fabrizio Cicchitto, Cos’è successo al G8 di Genova del 2001 e chi sono i responsabili oltre Berluscooni e Scajola, «Il Riformista», 22 luglio 2021.
 
[8]     Ida Dominijanni, Parola di Berlusconi, «il manifesto», 28 luglio 2001.
 
[9]     Fabrizio Cicchitto, Cos’è successo al G8 di Genova del 2001 e chi sono i responsabili oltre Berluscooni e Scajola

Da Roma parte la resistenza contro la “scuola 4.0” – Atlante Editoriale

«Tutto è iniziato quando a maggio il Consiglio d’Istituto del Liceo Classico “Pilo Albertelli” di Roma ha votato l’approvazione dei progetti legati al Pnrr scuola e legati alla “scuola 4.0” (dunque “classroom & labs”)». A parlare è Mauro Giordani, uno dei genitori che ha promosso il dibattito e l’assemblea che si terrà oggi a Roma presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

La “pioggia di denaro”, in parte a debito in parte a fondo perduto, investirà anche e soprattutto la scuola ma non per rimetterne in sesto le infrastrutture che sovente crollano in testa agli studenti, neanche per diminuire gli studenti per classe o per assumere personale docente e non docente, bensì per avviare un processo di massiccia digitalizzazione della didattica. Dal Liceo Classico “Pilo Albertelli” di Roma è arrivato un secco “niet” e, a seguito delle iniziative all’interno della scuola, si è deciso di aprire il dibattito: appuntamento alle 16:30 presso l’aula 1 della Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Un’iniziativa di protesta o di proposta?
«Qualcuno ha scritto che si è trattata di un’iniziativa di protesta ma è il contrario: si è trattato di un organo collegiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, nell’ordine del giorno, ha discusso e approfondito. E ha espresso una posizione motivata.
Da molte parti la critica che ci è stata rivolta è stata quella di essere stati anti-tecnologici, luddisti e via dicendo. La realtà è una: l’organo collegiale, anche se pochi ci possono credere, è un organismo che discute e ragiona, in cui si cresce collettivamente.
La delibera è uscita come un punto di vista condiviso tra parte genitoriale, studentesca e docente. A seguire, c’è stato un attacco molto violento sia da parte della stampa che da parte della scuola, in particolare una parte di genitori che non era d’accordo con la decisione.
Dunque abbiamo convocato un’assemblea aperta alle componenti scolastiche (c’erano circa 150 genitori, 25 studenti, una quindicina d’insegnanti) in cui abbiamo ribadito le nostre posizioni e ragioni. Al termine di questa lunghissima e partecipata assemblea, il giudizio quasi unanime è stato a proposito della prosecuzione con la decisione assunta in consiglio d’istituto.
Questo evento ci ha fatto capire come ci sia un gran bisogno di approfondire, riflettere e confrontarsi: se si innescano processi virtuosi, si capiscono anche i processi in atto nei confronti della scuola pubblica. La verifica sul campo ci ha fatto capire, oltre alle centinaia di messaggi di solidarietà e supporto che ci sono giunti da tutta Italia, nonché di condivisione della nostra scelta, che in questo momento storico dibattere e discutere serve e sono momenti ineludibili. Abbiamo convocato l’assemblea aperta che vedrà il collegamento online per chi risiede in altre città e vorrà partecipare».

La motivazione principale emersa dal dibattito nei confronti della Scuola 4.0 e del Pnrr qual è stata?
«La riflessione è stata su due livelli: la prima sulla proposta specifica del Dirigente Scolastico, dal momento che i progetti erano davvero ridicoli (“Next Generation labs e classrooms”)1. La seconda, la critica più importante, si è concentrata nell’insieme del Piano Scuola 4.0. Siamo partiti dalla constatazione per cui così come tutto il Pnrr, la cui scrittura sappiamo essere stata appaltata dal Governo di Mario Draghi ad una multinazionale di servizi strategici come la McKinsey, così anche i contenuti del Piano Scuola parrebbe siano stati elaborati da una società privata».


Dunque, già esternalizzando di fatto il piano per i finanziamenti alla scuola?
«Questo testo non è stato scritto da persone di scuola: in tutto il documento non c’è alcun riferimento pedagogico, né con una bibliografia scientifica, né altro. Ogni riferimento è all’OCSE e al World Economic Forum. Laddove siamo andati a verificare queste citazioni, abbiamo notato che sostengono delle cose contrarie a quanto riportato nel Piano Scuola 4.0»

C’è un’approssimazione a monte, allora?
«Diciamo che c’è un’assenza totale di scientificità. Dal 2013 è stato attuato il Pnsd (Piano nazionale scuola digitale): sono state istituite migliaia di classi 2.0 e non c’è stato uno straccio di indagine conoscitiva sui risultati prodotti da questa “prima ondata” di digitalizzazione nella scuola. Anzi. I dati che abbiamo (dalle misurazioni OCSE, ai quali non riconosciamo una valenza reale, dato che siamo contro la standardizzazione e oggettiva delle conoscenze e delle competenze) testimoniano come là dove si agisce con una digitalizzazione spinta, peggiorano i risultati di apprendimento2.
Anche se sono casi non riferiti unicamente all’Italia, bisogna tenerne conto; così come del fatto che anche i paesi più avanzati, che in Europa sono stati pionieri nella digitalizzazione dell’apprendimento, stanno tornando indietro. A tal proposito vale la pena segnalare il testo “Demenza digitale” del neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer (2012, Corbaccio editore), il cui termine è stato coniato in Corea del Sud a seguito dei danni prodotti, nell’arco di 15 anni, dalla digitalizzazione massiccia sugli adolescenti»

Economia versus scuola, verrebbe da dire….
«Non c’è davvero un riferimento scientifico a risultati che sostengono che il digitale faccia bene, anzi, i pochi dati dicono il contrario. A tal proposito, siamo a conoscenza, come molti interessati all’argomento, di un documento del 2021 votato all’unanimità dalla settima commissione permanente del Senato della Repubblica, nel quale si sosteneva come, dopo aver portato avanti delle audizioni per due anni, gli specialisti (dopo aver consultato e studiato letteratura scientifica a riguardo) siano arrivati alla conclusione per cui il digitale3 danneggia l’apprendimento e, addirittura, determinava redditi inferiori per gli studenti4.

Questo avveniva un anno prima del licenziamento del decreto da parte del Ministro Bianchi che implementava la digitalizzazione nella scuola (il piano scuola 4.0) andando in direzione esattamente contraria.

Dunque la “più grande opera di trasformazione del sistema scolastico italiano”, com’egli stesso l’ha definita, è una riforma strutturale, profondissima e strategica che non solo non passa per il Parlamento, come democrazia vorrebbe, e neanche negli organi collegiali, ma va in direzione opposta e contraria a quanto il Parlamento aveva analizzato e concluso un anno prima».

L’opposizione maggiore di chi è a favore dell’investimento digitale nella scuola risiede in un’affermazione che recita più o meno così: “per una volta che arrivano dei soldi alla scuola dopo anni di tagli, conviene accettare”, è davvero così oppure no?
«C’è da dire che sono tutti soldi a debito: i nostri figli e i nostri nipoti pagheranno determinate scelte» 

Senza sapere davvero a quanto ammonti il tasso d’interesse di restituzione. Tornando a noi…
«È chiaro che la scuola italiana ha bisogno di soldi ma “che tipo di soldi” e “per fare cosa”. Nessuno dei problemi storici, principali e attuali, vengono trattati dal Piano scuola 4.0 e per mezzo dei fondi del Pnrr».

A cosa ti riferisci?
«Mi riferisco alle esigenze strutturali, alla continuità didattica, alla stabilizzazione del personale, alla possibilità di creare e utilizzare spazi idonei per la didattica e per momenti altri che consentano un benessere per gli studenti al di là della didattica… Servirebbero una montagna di soldi per un’altrettanta ingente montagna di problemi».

D’altra parte il Pnsd che evocavi precedentemente ha dato un impulso alla digitalizzazione molto forte.
«Ci sono più piani di lettura. Stiamo parlando di una montagna di soldi che, anziché andare ad interventi strutturali (in senso lato: edilizia e stabilizzazione precari), s’è preferito investire in materiale di consumo che ha una rapidissima obsolescenza tecnica. I dispositivi acquistati 5 anni fa non vanno già bene: si devono comprarne degli altri i quali, ciclicamente, dovranno essere sostituiti a loro volta. La scuola diventerebbe una grande “partita di giro” per allocare risorse pubbliche a privati che devono vendere giacenze di magazzino.
L’altro piano di lettura è quello legato ad un intervento strutturale che investe la trasformazione profonda della didattica: non è opera onesta, corretta e trasparente quella per cui si sostiene che approvare un piano tale andrebbe semplicemente ad arricchire la dotazione tecnologica della scuola e andrebbe a finanziare qualche progetto. Il sottobosco di obblighi che non possono essere elusi da parte della scuola non è minimamente citato da nessuna parte e concerne evidentemente alla formazione obbligatoria dei docenti. Nonché alla loro classificazione in sei distinte categorie (da A1 a C2). Classificazione strutturata sulla base dei risultati nell’ambito delle competenze digitali. Da settembre, se non prima, i docenti saranno costretti a frequentare determinati corsi che non necessariamente aggiungono un “quid” all’insegnamento della disciplina. Ma questo perché si pensa al superamento delle discipline. La nuova idea che sta alla base del tutto è che il digitale sia una modalità di pensiero e non un semplice strumento: è una mutazione antropologica, si sta parlando dell’evoluzione dei soggetti in crescita e ha a che fare: con l’evoluzione del pensiero critico, ha a che fare con la classe come comunità ermeneutica all’interno della quale si costruisce collettivamente il sapere. Isolando il soggetto di fronte alla macchina, utilizzando la stessa anziché la molteplicità di forme di mediazione delle conoscenze che si hanno nella scuola, si ha un isolamento e una passivizzazione. La macchina diventerebbe perlopiù veicolo di contenuti sotto forma di software proprietari che la scuola dovrà comprare e i docenti dovranno utilizzare (per cui verranno conseguentemente retribuiti e gerarchizzati). Finirebbe il pluralismo della scuola italiana».

Il fondamento costituzionale della scuola, in sostanza.
«Ci sarà una monotematicità digitale. Gli insegnanti da erogatori di conoscenze devono diventare ‘talent scouts’. L’insegnante sarà colui che appronta l’ambiente digitale per poter permettere allo studente di acquisire conoscenze attraverso altre vie. Per noi questo è stato il problema centrale: la trasformazione in profondità della didattica del processo insegnamento-apprendimento; la snaturazione del ruolo del docente; la capacità di pensiero critico che viene inficiata».

NOTE:

1Dal documento prodotto: «1. Next Generation Labs. Questo progetto prevede lo sviluppo delle “professioni digitali del futuro” che gli studenti el Liceo Albertelli dovrebbero acquisire: “esperti in Video Making, Produttori di Musica Digitale, Curation Manager (cura le nuove uscite nelle playlist, sic), Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor, Digital Media Curator…”. Secondo il testo del progetto, le relative “competenze digitali specifiche” sono: “saper girare video con uno smartphone, saper realizzare filmati e pillole per i social con attenzione crescente ai contenuti per le Instagram stories, saper analizzare i dati e i trend di ascolto streaming dei brani musicali…”. Per queste nuove competenze si sarebbero spesi 124 mila euro, di cui oltre 12.000 per “progettazione, spese tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”: crediamo che esse mostrino un’estrema povertà di contenuti e stridano con gli obiettivi di un liceo, cioè insegnare a tradurre dal greco, a comprendere la storia e la fisica, avere una capacità critica e un metodo di studio, non a usare Spotify e Instagram.
2. Next Generation Classroom. Prevede l’acquisto di digital board, tablet e stampanti al fine di trasformare le aule scolastiche in “ambienti ibridi” di apprendimento: questo nuovo assetto dovrà determinare a cascata “innovazioni organizzative, didattiche, curricolari, metodologiche” che si adeguino alla “velocità delle comunicazioni” che caratterizza la nostra società. Molte parole vengono spese “sul benessere emotivo e lo stimolo relazionale, sullo sviluppo dell’empatia” degli studenti o sul “rendere protagonista l’alunno che si avvicina sempre di più alla scelta consapevole del proprio ruolo nella società”, senza che però vi sia alcuna spiegazione o evidenza su come i dispositivi digitali possano concorrere a questi obbiettivi. Neanche una parola invece è riservata alla profondità delle conoscenze che sono necessarie per comprendere – e non solo subire – una società sempre più complessa. La nostra scuola è già dotata di 41 smart TV, 7 proiettori, 49 PC Notebook, 41 PC Desktop: pertanto ci sembra irrazionale ed antieconomico sobbarcarsi collettivamente un debito di circa 150.000 € (di cui 15.000 solo per spese di “progettazione, tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”) per ulteriori attrezzature multimediali che hanno una vita media brevissima e che quindi acuiscono, anziché arginarla, la percezione di vivere in un mondo effimero».

2«[…] nonostante i considerevoli investimenti in computer, connessioni Internet e software per uso didattico, ci sono poche prove concrete che un maggiore uso del computer tra gli studenti porti a punteggi migliori in matematica e in lettura».

3Il documento è reperibile qui: <https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/42324.htm>.

Nel testo si legge: «i sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacita` di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica. Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche. E` quanto sostengono, ciascuno dal proprio punto di vista «scientifico», la maggior parte dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle forze dell’ordine auditi. Un quadro oggettivamente allarmante, anche perché evidentemente destinato a peggiorare».

4Più precisamente, il documento recita: «Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri».

Articolo pubblicato su «Atlante Editoriale»: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-da-roma-parte-la-resistenza-contro-la-scuola-4-0/

Sono stato centrista prima di te – [Atlante Editoriale]

«Sono iscritto di Italia Viva, sono un dirigente di Italia Viva e sarò iscritto al Terzo Polo quando terminerà il suo processo di costituzione del partito unico, ragionevolmente entro l’anno»1. Era quello che affermava Matteo Renzi il 5 aprile [2023] alle domande poste nel corso della conferenza stampa di passaggio di consegne nella direzione del ‘Riformista’.

Il neo direttore (conferenziere, senatore, già Presidente del consiglio dei ministri, già segretario del Partito Democratico, già sindaco di Firenze) avrebbe aggiunto asserendo che in quel momento non fossero in essere nomi di candidati di Italia Viva ma «solo Calenda». “Cosa ne pensa Calenda del suo approdo al ‘Riformista’?”, interrogavano variamente i giornalisti presenti alla Stampa Estera. Serafico, rispondeva: «Mi è parso entusiasta». Neanche dieci giorni più tardi arriva la rottura e il terzo polo non esiste già più.

Certo è che l’unione tra i due sembrava essere stata frutto più di un atto di opportunismo che altro: Dopo la tornata elettorale capitolina, Calenda tuonava che la politica di Renzi gli faceva orrore e che non avrebbe mai accettato di fare un partito insieme. Lo chiamava pure “quello là”2. Poi la redenzione sulla via della costruzione del Terzo Polo e la successiva rottura.

I gruppi parlamentari si sono divisi, sono iniziate le recriminazioni da entrambe le parti. Azione, in queste settimane, ha iniziato a perdere pezzi: sono comparse lettere aperte sui quotidiani (cartacei e non) di questo o quel gruppo dirigente che avrebbe lasciato per entrare in Italia Viva.

A metà mese in Emilia e nel Lazio si verificano gli smottamenti più significativi. Il 16 maggio la deputata Naike Gruppioni è in conferenza stampa con il Presidente di Italia Viva: «Volevo ringraziare Iv per l’accoglienza calorosa che mi è stata riservata. Sono contenta di essere a casa, perché io a casa sono rimasta. Io, da imprenditrice, ho deciso di sposare il progetto del Terzo polo, quando ad agosto Matteo e Carlo hanno siglato l’alleanza. Ora dicono che mi abbiano scippata, in realtà non mi sono mai mossa. Per costruire un progetto riformista mi devo sentire a casa»3. La polemica di Calenda non è tardata ad arrivare: «Mi permetto solo di notare che, per rispetto alla comunità che l’ha eletta sei mesi fa quasi senza conoscerla, una comunicazione preventiva sarebbe stata più elegante. Ma immagino che l’uscita a sorpresa fosse parte dell’accordo di ingaggio».

Tre giorni dopo la segreteria di Roma lascia il partito: viene diffuso un comunicato stampa che fa il giro della rete: «Abbiamo deciso di lasciare Azione per aderire al progetto di costruzione del Terzo Polo con Italia Viva […] Non si tratta di ‘scippo’ ma della richiesta volontaria di adesione a un partito», così come la pronta e secca smentita di Azione: «Il comunicato è una falsità. I firmatari non sono membri di alcun organo direttivo […] Tra le ragioni, oltre a quelle politiche, proprio la creazione di una “segreteria” che non era né prevista né consentita dalle regole. Insomma non sono dirigenti. Erano membri di una segreteria posticcia e sono stati sfiduciati»4.

Forse era vero quello che affermava Marco Pannella all’epoca della galassia radicale, quando ancora Radicali Italiani e Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito non erano organizzazioni ‘l’una contro l’altra armate’, che i fatti interni ai partiti debbano essere resi pubblici. O, per parafrasare il proverbio: “i litigi si affrontano pubblicamente”.

La situazione è effettivamente grottesca poiché le circostanze pre-elettorali in vista delle europee hanno fatto sì che i fossati diventassero viottoli acciottolati e le strade impervie di montagna agili sentieri battuti. I gruppi alla Camera e al Senato di Azione e Italia Viva si sono riuniti nei giorni scorsi approvando un documento all’unanimità ribadendo l’esigenza di una lista unica alla prossima tornata elettorale. Tanto più, vien da pensare, che il riferimento europeo è comune: Renew Europe.
A tal proposito, proprio Stéphane Séjourné, presidente dell’organizzazione del centro liberale e liberista a Bruxelles, ieri era presente all’assemblea al Teatro Eliseo di Roma. Anche i due rispettivi volti noti di Azione e Italia Viva erano presenti ma il teatro è finzione e dunque s’è tenuto un po’ di giuoco delle parti da entrambi. Qualche mugugno, saluti a mezza bocca («La Repubblica» per la verità dice «nemmeno si sono salutati»5).

Sarà forse il nome “terzo polo” ad essere portatore sano di discussioni, litigi e contrapposizioni personali? Con le iniziali minuscole o tutto in minuscolo o quale che sia la resa grafica, pare sia il nome il fattore che non ha mai portato buona fortuna ai proponenti. Senza andare troppo in là con gli anni, l’ultimo tentativo fu quello di Francesco Rutelli, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini: “Nuovo polo per l’Italia”, altrimenti detto Terzo Polo, a cui poi aderirono anche il Partito Liberale italiano (guidato allora da Stefano de Luca), Verso Nord (allora guidato dall’ex sindaco di Venezia Cacciari), il Movimento per le Autonomie e il Movimento associativo degli italiani all’estero. I gruppi parlamentari si costituirono durante il Berlusconi quater e subito votarono unitariamente la sfiducia all’allora sottosegretario alla giustizia (che per pura assonanza beffarda a questi tempi, sebbene difettivo di una importantissima vocale) era Giacomo Caliendo. Il 15 dicembre 2010 si tenne il primo tavolo dei possibili costituenti del terzo polo: al grande tavolo rettangolare erano seduti Italo Bocchino e Gianfranco Fini (Fli), Linda Lanzillotta e Francesco Rutelli (Api); Pier Ferdinando Casini, Ferdinando Adornato e Lorenzo Cesa (Udc); Giusseppe Reina (Mpa); Daniela Melchiorre (Libdem6) e i due Repubblicani per l’Europa fuoriusciti dal Pri (Giorgio La Malfa e Luciana Sbarbati). Convegni, assemblee, congressi, impegni in prima persona di personaggi illustri dell’imprenditoria nazionale e della politica cittadina si rimboccarono le maniche: «A parlare di Terzo polo arriva anche Luca Cordero di Montezemolo. Accanto a lui […] Gabriele Albertini»7.

Arrivano le amministrative e gli scricchiolii diventano voragini: prima abbandonano Lanzillotta e Vernetti (Api) e si iscrivono al gruppo misto. Poi il caso che vede coinvolti Luigi Lusi e Francesco Rutelli, dunque La Margherita, Api nonché il Partito Democratico. La profondità si trasforma in vento di scirocco che assale: all’indomani delle elezioni del 2013, dopo il governo tecnico di Mario Monti, il Terzo Polo già non esisteva più. «Una stagione chiusa», titolava l’intervista post voto a Pier Ferdinando Casini dell’8 marzo 2013 al «Corriere della Sera». Prima di quella tornata elettorale le tre organizzazioni maggiori costituenti il Terzo polo avevano già deciso che le strade da intraprendere sarebbero state ‘altre’: Futuro e libertà per l’Italia andava incontro alla propria “Caporetto” racimolando lo 0,46% dei voti e l’Udc avrebbe eletto Casini e De Poli al Senato.

Perché se è vera la frase di Pietro Nenni che a forza di rivendicare il purismo finisci per essere epurato, c’è sempre qualcuno che è più centrista, moderato, liberale e liberista di altri.

Anche senza volerlo.

NOTE
1Redazione, Matteo Renzi è il nuovo direttore del Riformista, la presentazione, 5 aprile 2023, «Il Riformista».

2«Non farò politica con Renzi. Il suo modo di fare politica mi fa orrore. Sono stato chiaro? Devo mettere una bandiera? Me lo scrivo sul braccio?», dichiarazione rilasciata nel novembre 2021 in un’intervista a ‘L’aria che tira’, «La7» https://www.youtube.com/watch?v=hcCc-adboFc.

3Redazione, Italia Viva, deputata Gruppioni passa con Renzi da Azione, 16 maggio 2023, «LaPresse».

4Redazione, “La segreteria romana di Calenda passa con Renzi”. Ma Azione smentisce: “Falso”, 19 maggio 2023, «Huffington Post».

5Lorenzo de Cicco, Renzi e Calenda a teatro insieme per Renew Europe. Ma non si salutano. Dalla platea mugugni contro il leader di Azione, 24 maggio 2023, «La Repubblica».

6Oggi formazione politica scomparsa.

7Maurizio Giannattasio, Prove tecniche di Terzo polo. Convegno con Albertini e Montezemolo, 12 novembre 2010, «Corriere della Sera».

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Italia sempre più povera, Meloni pensa al premierato – Atlante Editoriale

Secondo lo studio allegato al XXI rapporto Inps, condotto da Nicola Bianchi e Matteo Paradisi, denominato “Countries for Old Men: an Analysis of the Age Wage Gap” [Un paese per vecchi: un analisi del divario salariale per età], l’Italia è uno di quei paesi in cui le cose vanno peggio circa il divario salariale (cosiddetto gap) tra vecchi e giovani. Le cause di questa situazione, per cui un giovane riesce a trovare un’occupazione stabile più tardi rispetto al 1985 e comunque meno retribuita rispetto a tre decenni fa, va ricercata nella crescente esternalizzazione cui ricorrono le aziende, così come nell’aumento dell’età pensionabile. I «lavoratori più anziani hanno hanno esteso le loro carriere occupando le loro posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite», sostengono gli economisti rispettivamente della Northwestern Kellogg School of Management e dell’Einaudi Institute for Economics and Finance.

Precarietà e somministrazione
A quanto detto, si aggiunga la questione secondo cui per il Governo, almeno stando al decreto denominato pubblicisticamente “1 maggio”, il lavoro in somministrazione può essere considerato positivo per far uscire una persona rimasta senza impiego dal limbo della disoccupazione. Stante il comunicato pubblicato a margine del precedente Consiglio dei ministri, il Governo ha stabilito che il beneficio erogato in sostituzione del “reddito di cittadinanza” possa decadere qualora vi sia un rifiuto di una proposta di lavoro «a tempo pieno o parziale, non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno e con una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi e che sia, alternativamente: 1) a tempo indeterminato, su tutto il territorio nazionale; 2) a tempo determinato, anche in somministrazione, se il luogo di lavoro non dista oltre 80 km dal domicilio».

Ma c’è un evidente cortocircuito linguistico perché secondo la ministra Calderone, intervistata da «Avvenire» domenica 7 maggio [2023], il decreto ha rappresentato «un’occasione per dare un segnale concreto del suo impegno a favore di lavoratori, famiglie, imprese e soprattutto giovani che rappresentano il futuro del nostro Paese e che vanno accompagnati nella realizzazione delle loro aspirazioni lavorative»1. E ancora riguardo le norme previste attorno al tema della precarietà: «Non abbiamo modificato la durata dei contratti a termine. Siamo intervenuti sulle causali per i rinnovi dopo i 12 mesi, rimandando alla contrattazione collettiva per la definizione delle casistiche dei rinnovi. Si tratta di una norma di chiarimento che non ha alcun riflesso sulla precarietà». E dire che quanto diramato dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi appare essere scritto in un italiano che non lascia spazio alle interpretazioni.

Presidenzialismo o premierato ‘forte’?
Nonostante le difficoltà del paese reale, Meloni si domanda, manzonianamente, se Carneade fosse realmente esistito.

Il dubbio amletico meloniano sta tutto nella domanda (tra presidenzialismo o premierato), così come nella conseguente risposta che è stata consegnata agli organi di stampa a margine del giro di ‘consultazioni’ di martedì 9 maggio [2023].

Si tratta, in buona sostanza, di una interlocuzione che Meloni ha intrattenuto nella giornata di martedì per porre alle organizzazioni parlamentari tutte la questione di come affrontare il cambiamento costituzionale cui Fratelli d’Italia aspira da tempo, vale a dire la Repubblica Presidenziale.

La Presidente del Consiglio dimostra di aver già in mente il fine delle consultazioni: non lo dice espressamente, ma leggendo tra le righe nell’intervento in piazza ad Ancona di lunedì 8 maggio è ben chiaro: «Voglio fare una riforma ampiamente condivisa ma la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato: voglio dire basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo, ma legare chi governa al consenso popolare». Il mandato, in fondo, pensa, ce l’ha già: glielo hanno dato gli elettori, dunque se il presidenzialismo può essere un ostacolo, tanto vale puntare al premierato. D’altra parte è da circa tre decenni che la pubblicistica poi e la politica prima si è attestata nell’utilizzo del termine indicante il Presidente del consiglio dei ministri sostituendolo con quello di Premier. Un utilizzo improprio – evidentemente – tanto errato quanto ideologicamente foriero di un’idea di Paese totalmente diversa rispetto a quella costruita all’indomani del 1945. ‘Gutta cavat lapidem’, dicevano i latini ed ora è giunto il momento propizio per uscire definitivamente allo scoperto. O come si direbbe in ambito politico-aziendale: “i tempi sono maturi”.

Le reazioni alle consultazioni
E la fase sembra essere davvero matura: Italia Viva e Azione, nonostante le recenti ruggini, hanno mostrato assenso e condiscendenza al dialogo con la maggioranza per quel che riguarda una riforma della Costituzione in favore di quel che (già Matteo Renzi da Presidente del consiglio) può essere chiamato con l’espressione “sindaco d’Italia”. Un premierato forte con elezione diretta del Presidente. L’opzione del presidenzialismo, per la verità, nonostante fosse il cavallo di battaglia delle destre in campagna elettorale, è stato superato dall’opzione sopra citata. Da qui il rumore di fondo della Lega, per cui sarebbe un passo indietro troppo rilevante.

I numeri ci sarebbero, contando maggioranza e Italia Viva – Azione, tanto alla Camera, dove mancano un pugno di voti) quanto al Senato (dove le manciate di voti diventano due). Prima delle interlocuzioni di martedì, Mara Carfagna, deputata e presidente di Azione nel gruppo Azione-ItaliaViva-RenewEurope, aveva risposto preannunciando quanto poi Calenda avrebbe dichiarato a margine del colloquio con Meloni: il “no” a prescindere è «un atteggiamento sbagliato […] presidenzialismo è una parola generica, che va riempita di contenuti»2, aveva affermato la presidente al «Corriere della Sera». Nonostante Carfagna si sia mostrata in passato più volte a favore del presidenzialismo, oggi si collocherebbe più a favore del premierato: «Ho visto un’Italia dove se ci fosse stato il presidenzialismo forse al Quirinale sarebbe andato Grillo».

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha rimarcato la necessità del dialogo per poter dare più forza al Presidente del consiglio, magari con una «commissione ad hoc» (nuova bicamerale dalemiana?) ma ribadendo la propria contrarietà all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Certo è, come ha riportato il «la Repubblica» di mercoledì 10 maggio [2023], che Meloni pare abbia introiettato già il ruolo: «Ascolto ma vado avanti».

Uno spettro si aggira per Palazzo Chigi. Quello del (pur immaginario) Marchese Onofrio del Grillo.

1Francesco Riccardi, Calderone: «Siamo aperti al confronto ma il decreto è a favore dei lavoratori», 7 maggio 2023, «Avvenire».

2Virginia Piccolillo, «Sbagliato il no a priori. Premierato, lo spazio c’è ma ho visto i rischi del presidenzialismo», 7 maggio 2023, «Corriere della Sera». 

 

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Natalità con precarietà, il nodo gordiano di Giorgia Meloni – Atlante Editoriale

Primo Def (cioè il Documento di economia e finanza) per il governo guidato da Giorgia Meloni a 173 giorni dal giuramento davanti al Presidente della Repubblica al Quirinale.

Il Consiglio dei ministri ha approvato il documento e presentatolo durante la conferenza stampa di martedì 11 aprile alla presenza della Primo ministro Giorgia Meloni e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

Cuneo fiscale sì, forse

O meglio, non nel breve termine. Secondo le intenzioni del Governo il famigerato “taglio del cuneo fiscale” (ormai una Fata Morgana che aleggia minacciosa al di sopra di ogni esecutivo da un paio di decenni a questa parte) dovrebbe poter avvenire ma «con un provvedimento di prossima adozione» come pure recita il comunicato pubblicato dal Governo a margine della conferenza stampa. «Nel breve termine, si opererà per sostenere la ripartenza della crescita segnalata dagli ultimi dati, nonché per il contenimento dell’inflazione – si legge nel comunicato –. Il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento di prossima adozione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre 3 miliardi a valere sul periodo maggio-dicembre di quest’anno». Da dove derivano quei soldi? Secondo l’adagio bizantino-economicista, proverrebbero della divaricazione che si aprirebbe tra deficit tendenziale e programmatico. L’interstizio, cioè, tra il 4,25% e il 4,5% del Pil.

La replica della stampa, in particolare di «Repubblica» di mercoledì 12 aprile, è netta:

«Provvedimenti gravosi e per adesso senza copertura, a meno che Meloni non scelga di aprire un clamoroso fronte con l’Europa sul deficit, sforando la soglia del 3,7% proprio nell’anno in cui entra in vigore il nuovo patto di stabilità. Improbabile, rischiosissimo. L’alternativa è trovare all’interno del bilancio le risorse per coprire le promesse elettorali. Tradotto: risparmi di spesa e, quindi, tagli» [1].

Poca scelta, sembrerebbe, a leggere Tommaso Ciriaco e Valentina Conte.

Ripasso: cosa significa “cuneo fiscale”?
L’espressione sta ad indicare – in estrema sintesi – la differenza tra stipendio lordo e netto percepito dal lavoratore. Cioè la somma di imposte che gravano sul costo del lavoro sia da parte del datore di lavoro (azienda privata o stato), sia rispetto ai lavoratori autonomi o liberi professionisti, nonché sui lavoratori dipendenti. È uno degli argomenti su cui le maggioranze si sgretolano e diventano fluide [2], su cui si cerca il consenso e che viene proferito dalle labbra dei capi di governo a mo’ di cinghia di trasmissione con l’elettorato. Almeno, da quando s’è iniziato a chiamarlo così.

Pil e coperta corta
I lettori di «Atlante» avranno letto l’attenzione che il nostro giornale ha riservato alla Legge di bilancio di fine 2022. Nel corso di quei mesi convulsi, in cui si sospettava lo spettro dell’esercizio provvisorio, il governo rilasciava dichiarazioni alla stampa asserendo l’improbabilità di poter (o dover) turbare mercati e istituzioni europee. L’importante era rassicurare, anche perché la coperta era proverbialmente corta, come ebbe a dire – ripreso dai giornali più venduti nel Paese in quel periodo – il ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ceriani: 

«Purtroppo abbiamo una finanziaria con pochi spazi di manovra, ma il governo ha l’ambizione di durare cinque anni».

I margini sono stretti ma i dati e le previsioni sul Pil sembrano rassicurare Meloni, governo e maggioranza, sebbene venga dato «in frenata» [3]: 

«Se infatti il Pil di quest’anno viene rivisto in leggera crescita, all’1% come obiettivo programmatico rispetto allo 0,6% fissato lo scorso novembre e allo 0,9% tendenziale, per il 2024 la correzione è invece al ribasso: l’obiettivo di crescita è posto infatti all’1,5% contro il precedente 1,9%» [4].

Pareri positivi giungono dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Alberto Quadrio Curzio, intervistato da Claudio Landi di «Radio Radicale», per cui le percentuali del prodotto interno lordo configurano tre dati molto importanti. Il Presidente ha affermato:

«Il primo fattore [è quello legato alla] manifattura: va bene e continua ad esportare […]; secondo: i servizi e il settore del turismo stanno andando benissimo, recuperando e superando i dati del 2019; terzo: la carenza di manodopera è evidente e la quantità di posti da occupare, soprattutto nel settore dei servizi, è impressionante» [5]. Sarebbe da indagarsi sul “come”, ma questa è un’altra storia. Per Quadrio Curzio, ad ogni modo, c’è anche un altro fattore riguardo il rapporto deficit/Pil per cui se dovesse venir prefigurato attorno al 4,3%, sebbene «sia presto per dirlo», bisognerà vedere cosa accadrà dopo.

E il “dopo” si chiama: rinnovo del patto di stabilità con l’Ue e Pnrr, per cui (a proposito del piano di ripresa e resilienza) il presidente dell’Accademia dei Lincei non va oltre la definizione di «grosso problema per il governo» [6].

Natalità
«Dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate», ha detto la Presidente Meloni in conferenza stampa, sebbene di questo tema non vi sia traccia nel comunicato ufficiale diramato dagli uffici di Palazzo Chigi [7]. Dunque il tema è rimandato alla prossima legge di bilancio: fine 2023. Nessuna traccia, si diceva, ma il tema viene ripreso dai quotidiani e dalle agenzie che si involano in titoli ed articoli a riguardo, a cui sono seguite le reazioni della politica plaudente.

Rimane l’incognita del “come” – e lo si vorrebbe fare proprio a partire da questa sede – magari ponendo l’attenzione alle dichiarazioni dei componenti del Governo, in primo luogo parafrasando le parole del Ministro Valditara che dava per scontata la denatalità tendenziale dei prossimi anni. Dunque annunciando meno assunzioni di insegnanti. Che ci siano più linee nel governo e che, come tutti i Salmi che finiscono in “Gloria”, poi spetti a Meloni trarre la sintesi giornalistica, politica e mediatica, parrebbe evidente. Resta difficile conciliare entrambe le posizioni per cui non pare ci sia stato gruppo parlamentare che abbia sollevato l’aporia che prevederebbe l’annunciato (futuro) incentivo alla natalità con il mancato investimento conseguente, o il quadro del lavoro precario permanga immutato. Non un fattore secondario.

Certo è che il dibattito a riguardo è tutto da rimandare al potenziale scontro che prefigurava «Repubblica» di mercoledì e il presidente Quadrio Curzio. Hic Rhodus, hic salta!

Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-natalita-con-precarieta-il-nodo-gordiano-di-giorgia-meloni/

Note:
[1] E che, ad ogni cambio di governo, ne dà per certa la cesura. Mario Sensini sul «Corriere della Sera» dell’11 gennaio 2020, riportando le parole dell’attuale sindaco di Roma, allora ministro, Roberto Gualtieri, dava per imminente tale taglio.
«Lo ha detto ieri il ministro dell’economia Gualtieri, alla Camera, annunciando, tra l’altro, l’imminente varo del decreto sul taglio del cuneo fiscale (circa 500 euro in più nel 2020 ai dipendenti con redditi fino a 35mila euro lordi)»
Mario Sensini, Gualtieri: entro gennaio decreto sul taglio al cuneo fiscale, 11 gennaio 2020, «Corriere della Sera».
[2] Tommaso Ciriaco; Valentina Conte, Risorse azzerate per pensioni e flat tax. Ora tagli o altri debiti. Europa in allerta, 12 aprile 2023, «la Repubblica».
[3] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[4] Enrico Marro, Cuneo fiscale, taglio di 3 miliardi. Meloni: «Misure per la natalità», 12 aprile 2023, «Corriere della Sera».
[5] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».
[6] Claudio Landi, Intervista ad Alberto Quadrio Curzio sul primo Def di Giorgia Meloni, 11 aprile 2023, «Radio Radicale».

Intervista a Martina Zanghi di Openpolis – Atlante Editoriale

Che il Pnrr stia tenendo il banco del dibattito politico e
dell’informazione italiana, è un dato di fatto. Quale sia l’ambito di
discussione e per quale motivo permane – con tutta evidenza – una
mancata trasparenza nel processo di dibattito e decisione a riguardo, è
un fatto che non è noto ai più. Per provare a fare chiarezza sul tema,
abbiamo interpellato Martina Zanghi di Openpolis, una delle realtà della
società civile tra le più attive in ambito di trasparenza di atti
parlamentari e di processi decisionali.

Il dibattito politico di questi giorni sta presentando il tema del
Pnrr con implicazioni a tinte fosche per il governo. Openpolis sta
monitorando i processi relativi al Piano e conseguenti azioni politiche
già da prima del Governo Meloni. Si parla di modifiche in corso d’opera
ma senza troppa trasparenza, è corretto?

«La struttura del Pnrr di per sé presentava già delle problematicità,
per come il piano era stato strutturato dall’inizio. Finché c’è stato il
Governo Draghi, quello che doveva essere realizzato per il Pnrr
(scadenze, normativa e via dicendo) riguardo realizzazioni
amministrative, prima ancora dei progetti, era stato realizzato. C’è da
dire poi che Draghi aveva un rapporto diverso con la Commissione: una
relazione di fiducia altra con la Commissione. Con la presenza dell’ex
Primo Ministro sembrava che le cose stessero andando per il meglio. Le
tranches erano sempre arrivate».

L’attività di sorveglianza da parte vostra è cominciata fin da subito, però.

«Noi di Openpolis abbiamo sempre evidenziato criticità in termini di
mancata trasparenza, tempi contingentati, questioni legate ai soldi da
spendere e via dicendo. Col cambio di Governo, Giorgia Meloni ha subito
detto che avrebbe modificato il Pnrr per varie ragioni. Il processo per
le modifiche è molto lungo: c’è da inviare una lettera alla Commissione
in cui spiegare le modifiche e le ragioni oggettive per cui quei
cambiamenti si sono resi necessari, la Commissione deve discuterle e
approvarle… Un sistema abbastanza complesso strutturato in sede
europea per evitare che le alternanze di governo potessero ostacolare un
processo in corso. Meloni ha detto fin da subito che la situazione di
ritardo in essere è stata ereditata dal governo Draghi. In parte è anche
vero. Il nuovo governo è in carica, però, da cinque mesi e la
situazione permane immutata senza miglioramento».

Non sta in piedi il discorso delle responsabilità dei governi precedenti?

«Le cose non sono migliorate ma peggiorate in parte perché nel 2023
inizia la fase dei cantieri, dunque la posta in gioco è più alta e la
trasparenza è diminuita rispetto a prima. In più: il governo arranca nel
rispetto delle scadenze».

Perché?

«Si è deciso di fermarsi e modificare la governance, dunque cambiando la
struttura di comando del Pnrr, accentrando poteri al commissario e
togliendoli agli enti locali. Una modifica di questo tipo rischia di
rallentarti ancora di più».

C’è poi anche il cosiddetto “Repower EU”.

«Entro il 30 aprile. Cioè: bisogna integrare il piano energetico per
sopperire all’aumento dei costi dell’energia a causa della guerra in
Ucraina. La fase che si presenta sembra essere quella di una bolla che
sta per esplodere. Tanto che il 27 marzo la Commissione ha inviato una
nota a Palazzo Chigi in cui è stato detto di prendere altro tempo per
valutare le scadenze riguardo alcune questioni presenti nel Pnrr».

È solo questione tecnica o anche politica?

«È anche una questione politica: questo intervento della Commissione rientra in una dinamica politica più che tecnica».

Prima hai detto, riguardo il rapporto tra la Commissione e l’ex Primo
Ministro, come Mario Draghi fosse una figura di garanzia e fiducia per
la Commissione. Pare quasi di sottintendere un rapporto di favoritismi o
clientelare, o no?

«No, non lo direi in questi termini. Ci sono tante dinamiche che entrano in gioco».

Cioè?

«Ogni sei mesi la Commissione valuta le scadenze che ogni Paese è tenuto
a rispettare. Se quel Paese ha proceduto in maniera corretta, viene
inviata la rata di risorse. Con Draghi è successo due volte e sono
sempre state inviate le tranches, sebbene anche noi di Openpolis
avessimo evidenziato questioni pendenti. Ad esempio: se un provvedimento
non era ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, comunque era
stato approvato istituzionalmente. Formalmente non era stato completato
l’iter, ma ne era stato completato il ciclo. Un conto è se Mario Draghi
assicurava questa cosa, un altro è se Giorgia Meloni assicura di aver
piantato – ad esempio – gli alberi nelle città metropolitane pur non
essendone stati piantati la metà».

Capitolo trasparenza. Se prima dei processi del Pnrr si sapeva ben
poco, adesso – con modifiche in itinere – si sa ancor meno. In una fase
storica in cui si parla costantemente di trasparenza, qui pare ce ne sia
pari allo zero, o no?

«Adesso ce n’è ancora meno perché la fase è più difficile da monitorare:
ci sono tanti progetti in corso e, se ci fosse trasparenza, il
cittadino potrebbe conoscere quali sono chi sta facendo i lavori etc. In
generale – Pnrr a parte – la trasparenza non è molto “amata” dalle
istituzioni, nonostante potrebbe essere una risorsa per la politica nel
dialogo coi cittadini».

Anche perché alle persone, nel procedimento amministrativo, di dialogo con le amministrazioni pubbliche, è richiesta.

«Esatto. Certo è che, tornando al Pnrr, anche gli enti locali
inizialmente hanno avuto difficoltà di approccio e monitoraggio. Al
momento non sappiamo l’entità dei progetti, cosa si sta costruendo e chi
lo sta portando avanti. Questo fattore in un paese come l’Italia, in
cui c’è un rischio maggiore rispetto ad altri paesi europei, è grave».

C’è il rischio di fare la fine del superbonus?

«Precisamente. [c’è da dire che] è operativa la piattaforma Regis, in cui in teoria ci sono tutti i dati su tutti i progetti».

Manca poco alle scadenze però.

«Un conto è la questione della trasparenza sui progetti e l’altra delle scadenze».

In che modo si differenziano?

«Quando parlo di progetti, parlo della costruzione e realizzazione di
interventi, quando parlo di scadenze – ad esempio – si fa riferimento
alla pubblicazioni di graduatorie riguardo investimenti. Ciclicamente,
come Openpolis, facciamo un monitoraggio: una settimana fa ne
risultavano 0 completate. La commissione controllerà a fine giugno; la
scadenza di lavori che si sono dati al Governo è trimestrale ma ad ora è
molto complicato che la tempistica si rispetti. Ma si capisce il
perché: è stata cambiata la governance, c’è il Repower Eu da portare
avanti ed è per questo che s’è cambiato atteggiamento da parte
governativa.
C’è anche da dire che da dicembre attendiamo la relazione sullo stato
d’attuazione delle scadenze che non è stata ancora pubblicata».

E sui progetti?

«Abbiamo fatto le richieste di accesso per chiedere i dati e sapere cosa
si stia costruendo coi soldi del Pnrr, ma la piattaforma Regis non è
accessibile ai cittadini e gli ultimi dati presenti su Italiadomani sono
fermi al 2021».

A tal proposito, negli ultimi giorni si fa riferimento a cifre da
capogiro riguardo il Pnrr. Molto spesso, anche dal punto di vista
dell’informazione, si punta alla quantità numerica di questa cifra,
anziché al fatto che una parte piuttosto consistente dei finanziamenti
sia a debito. Una scure che incombe, quella dell’aumento del debito,
anche a causa dei fondi del Pnrr, è corretto?

«Assolutamente: la maggior parte dei fondi rappresentano un prestito.
L’Italia è il paese che, in assoluto, ha ricevuto più risorse ma anche
il prestito più grande. E questo supera le risorse a fondo perduto».

Un prestito che…

«…implica una restituzione».

Come, non ci è dato saperlo?

«La questione è anche un’altra, connessa a questa».

Quale?

«È abbastanza ‘utopico’ ‘rovesciare’ 191,5 miliardi di euro su un Paese
come l’Italia – con i divari che ha in ambito amministrativo,
burocratico, di classe sociale, di genere e via dicendo – e pensare di
risolverne tutti i problemi. Questo perché non si ha una reale struttura
per gestire tale flusso. E questo si è visto e lo si sta continuando a
vedere in questa fase e non si riuscirà a spendere del tutto quei soldi.
E anzi: il divario di cui parlavo poco fa rischia di aumentare».

In che modo?

«I comuni del nord chiedono i soldi che dal sud non riescono a spendere;
le grandi città avrebbero chiesto i fondi che i piccoli comuni non
riescono a spendere. Qualora dovesse avvenire, comporterebbe una forbice
di divario ancora più imponente. L’idea che nel 2026 il Paese sia
cresciuto così tanto, così rigogliosamente, da poter essere in grado di
ridare tutti i soldi all’UE… Vien da sé…»

Impossibile? Una prospettiva abbastanza tetra.

«È possibile che nel 2026 ci si possa ritrovare con più diseguaglianze e con un mucchio di soldi da ridare all’UE». 

 

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«Piantedosi chiarisca», l’interrogazione di Zanettin sull’assalto alla sede della Cgil – Atlante Editoriale

Lunedì mattina il senatore Pierantonio Zanettin (Forza Itali), componente della Commissione Giustizia del Senato, ha presentato un’interrogazione con richiesta di risposta al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi riguardo i fatti che coinvolsero la manifestazione “No Green Pass”, Forza Nuova (e rispettive figure di riferimento romane e nazionali) e il successivo assalto alla sede della Cgil avvenuto due anni fa. Il ministro allora era prefetto di Roma.

I fatti
Il 16 settembre 2021 il Governo Draghi approva un decreto legge che introduce l’obbligo di possesso della certificazione verde (“green pass”) nei luoghi di lavoro pubblici e privati [1]. Nei mesi di settembre e ottobre (il 15 di quel mese sarebbe entrato in vigore il provvedimento) si inizia a coagulare la protesta classificata in quei giorni come genericamente “no-vax”: il movimento eterogeneo, contrario al procrastinarsi delle restrizioni nonché alle misure di vaccinazione, scoppiò in occasione della dimostrazione di piazza del 9 ottobre [2021]. Il resto è cronaca di quelle ore. Nel corso della manifestazione di opposizione alla certificazione verde e alla vaccinazione obbligatoria si raduna un presidio in Piazza del Popolo che, immantinente, diventa corteo e la maggior parte dei manifestanti si sarebbe sparpagliata in varie direzioni. Il flusso più imponente è diretto alla sede della Cgil. Gruppi avrebbero raggiunto Palazzo Chigi, se non fossero stati fermati.

Gli arresti
Per quei fatti il processo ordinario è tutt’ora in corso «davanti alla sezione penale del tribunale di Roma presieduta dalla giudice Claudia Lucilla Nicchi. Castellino è sotto processo dinanzi al tribunale di Roma in composizione collegiale» ma ad ogni modo «Salvatore Lubrano, un esponente di Forza Nuova poi arrestato insieme a Giuliano Castellino [referente romano di Forza nuova], Roberto Fiore [referente nazionale del partito] ed altre nove persone con l’accusa di saccheggio, istigazione a delinquere, violazione di domicilio e resistenza» [2].


L’incognita di W1

L’avvocato difensore del primo dei forzanovisti citati è il radicale Vincenzo di Nanna (già presidente dell’associazione Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi) e il quotidiano ‘Il Riformista’, nella persona del giornalista Paolo Comi, il 18 marzo pubblica un articolo in cui verrebbe mostrato un fatto, ricostruito a partire dal video depositato dall’avvocato sopra citato: qualcuno avrebbe aperto la sede del sindacato ancor prima dell’assalto [3]. Non ci sarebbe nome se non una classificazione: W1.

«Chi è questa persona che ha fatto entrare i manifestanti all’interno della sede nazionale della Cgil a Roma il pomeriggio del 9 ottobre del 2021?» – si chiede Comi nell’articolo – «Molto probabilmente un agente dei servizi o delle forze di polizia che quel giorno erano infiltrati nel corteo guidato da Roberto Fiore e Giuliano Castellino, i capi di Forza Nuova. Come mai? Si cercava l’incidente di piazza? Una risposta potrebbe darla il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che all’epoca era il prefetto di Roma e dunque l’autorità preposta alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica» [2].

L’interrogazione
Nella giornata di martedì [21 marzo 2023] il medesimo quotidiano pubblica la notizia dell’interrogazione del Senatore Pierantonio Zanettin, presentata nella seduta di lunedì 20.

Abbiamo raggiunto telefonicamente il Senatore del gruppo di Forza Italia per un chiarimento riguardo la sua iniziativa, nonché per conoscerne gli obiettivi.

«La pubblicazione del Riformista mi ha colpito», ha affermato Zanettin riferendosi all’articolo apparso sul giornale diretto da Sansonetti. «Nella mia attività parlamentare spesso utilizzo gli atti di sindacato ispettivo per mettere in luce aspetti che reputo interessanti o che possono essere inquadrati nell’attività politica riguardo il settore della giustizia, [agendo] attraverso un’impostazione di garantismo giuridico, essendo avvocato».

Quali obiettivi si è posto?
«Il mio obiettivo è quello di vedere le cose non in chiave “giustizialista e manettara”. Questo fatto [esposto dal Riformista] mi ha sorpreso. Ho ritenuto doveroso che – qualora ci fossero dubbi [riguardo la vicenda] – il Ministro debba venire a chiarire».

Zanettin precisa subito: «Non ho nessuna simpatia per il movimento “No Green Pass” né per qualsivoglia estremismo di destra o di sinistra. Sono lontano dalle posizioni di Fiore o dagli altri protagonisti di quella giornata». Tuttavia: «Da garantista, da persona che crede che lo Stato debba rispettare le proprie regole, non posso che essere stato interessato dalla notizia, dunque ho agito di conseguenza».

Dal momento che, citando dall’interrogazione presentata: «nel video [pubblicato dal Riformista] viene posto in evidenza il comportamento di un soggetto rimasto ignoto, perché non identificato dalle forze dell’ordine, e chiamato dalla polizia scientifica W1», Zanettin chiede: «se il soggetto ignoto, chiamato nel rapporto della polizia scientifica W1, appartenga alle forze dell’ordine o a qualche altro organo dello Stato».

Perché?
«Se si guarda il video pubblicato dal Riformista si vede il soggetto, questo W1, che viene identificato in diverse fasi dell’aggressione. Quella avanzata dal quotidiano è un’ipotesi ma su cui va fatta chiarezza. Il dato in più che viene citato dal giornale è il fatto che il soggetto possa essere identificato come un appartenente o dei Carabinieri o della Polizia di Stato o ancora facente parte dei servizi. È questo l’aspetto che deve essere chiarito. Non si da’ nulla per scontato, ovviamente. Ove fosse, deve essere chiaro se il soggetto ha agito secondo le disposizioni di qualcuno o secondo la propria testa, disattendendo le indicazioni che sono state [eventualmente] fornite dai suoi superiori».

Cosa cambierebbe secondo lei nell’analisi dei fatti ex post?
«Da questo punto di vista, secondo me, non cambia molto. Mi spiego: rimane un inaccettabile atto di violenza. Se c’è qualche soggetto dello Stato che ha sbagliato, è giusto che venga evidenziato ed eventualmente si porti a sanzioni disciplinari. Non è che perché c’era un infiltrato nella manifestazione, allora quella manifestazione diventa legittima! Spero che il ministro Piantedosi riferisca come il soggetto in questione non sia un membro dello Stato, così che tutto sfumi. Ove fosse il contrario, bisogna chiarire. Ci sono tante sfaccettature, come si vede, ma quale attinenza abbia questo fatto col processo in corso, francamente, non sono in grado di dirlo: mi limito a vedere i fotogrammi». E ad agire.

Note:
[1] Il link del comunicato del Governo, fino a pochi mesi fa rintracciabile digitalmente ora risulta irreperibile e la pagina inaccessibile: <https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-36/17925>.

[2] Paolo Comi, Assalto alla Cgil, ad aprire la porta ai manifestanti fu un agente dei servizi?, «Il Riformista», 17 marzo 2023. 

 

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“Sensazionalismi” o “aprioristiche condanne”, comunque assenza d’informazione – Atlante Editoriale

Dopo i fatti di Cutro, non cessano le morti nel “cimitero mediterraneo”: nella notte tra il 12 e il 13 marzo [2023] un barcone carico di 47 persone si è ribaltato a 100 miglia dalle coste libiche. I fatti e la cronaca dell’accaduto sono spietati: componenti dell’Organizzazione non governativa “Watch the Med – Alarm Phone” segnalano un’imbarcazione a largo delle coste libiche in area Sar (cioè “search and rescue”)[1]. Un primo avvicinamento e conseguente tentativo di soccorso proviene dalla nave “Basilis L” che tuttavia non riesce ad operare pienamente. L’aiuto sfuma. Nel frattempo le informazioni vengono trasmesse anche ad Italia e Malta dato che, a quanto è stato riportato sia dalle agenzie stampa, sia dai quotidiani nazionali, la Libia non avrebbe avuto mezzi da impiegare nel salvataggio. 

Entra così in gioco anche Roma, come riporta l’agenzia «Ansa»: «La “Basilis L” a causa delle condizioni meteo non è riuscita a soccorrere i migranti. Dal canto loro le autorità libiche, per mancanza di disponibilità di assetti navali, hanno chiesto il supporto del Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma che ha inviato un messaggio satellitare di emergenza a tutte le navi in transito. Sul posto si sono, quindi, trovati quattro mercantili». 

Il cargo Froland, battente bandiera Antigua e Barbuda, raggiunge l’imbarcazione e inizia le operazioni di salvataggio. Le cose non vanno come devono andare e il mezzo di fortuna si capovolge. Si contano 30 dispersi mentre in 17 si salvano. «Siamo in marzo: è il mare più freddo dell’anno» precisa Giuseppe Scandura nel notiziario mattutino di «Radio Radicale» di lunedì 13 marzo [2023], inviato permanente nelle zone di sbarco da parte della emittente radiofonica. Le sue parole vogliono lasciar intendere la triste conseguenza dell’essere classificato ‘disperso’ in mare nel corso di questo mese.
Il corrispondente ha poi aggiunto: «i migranti si trovano ora su uno dei cargo di Froland che sta navigando in questo momento ad Est di Malta e si sta dirigendo verso Porto Palo e Pozzallo». 

L’imbarcazione è rimasta in avaria «per 30 ore» ha precisato Scandura e la vicenda porta con sé polemiche, dichiarazioni da parte delle forze politiche ma anche (stavolta più delle precedenti) una lettura peculiare da parte della stampa nazionale. 

 

Destabilizatsiya

Secondo Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato della Repubblica, intervistato da Fabio Rubini per «Libero» [2] ci sarebbero evidenti interessi geopolitici alla base degli sbarchi in Italia dato che «in alcune zone del Nord Africa, dove si intrecciano gli interessi di Turchia, Russia, Cina, Iran» al Senatore «pare evidente che, ad esempio, la Russia possa avere l’interesse a destabilizzare quell’area geografica per moltiplicare i flussi migratori e mettere in difficoltà i Paesi europei che si sono schierati contro di lei nella guerra con l’Ucraina». Romeo ha anche aggiunto: «La Russia sta creando una vera e propria “bomba migratoria” per mettere in difficoltà l’Europa. Provate a pensare se a un certo punto dovesse incendiarsi la situazione politica nel Nord Africa. Sarebbe un disastro per l’Europa e soprattutto per l’Italia che è in prima linea nel Mediterraneo».

Il disarcionamento – se così possiamo definirlo – dei poteri del Nord Africa, tuttavia, è in atto non solo dalla ripresa del conflitto russo-ucraino dello scorso anno (in essere dal 2014) ma ben prima di quella data.
Il giorno precedente l’intervista in oggetto, la polemica è stata avviata da Lucio Malan (da questa legislatura in quota Fratelli d’Italia dopo aver abbandonato Forza Italia): l’esponente del partito di Governo affida a Twitter la pubblicazione di una foto in cui viene geolocalizzata la posizione dell’imbarcazione che aveva richiesto soccorso con la seguente descrizione: «Barcone in difficoltà vicino alle coste libiche? Per Alarm Phone la responsabilità è dell’Italia, come fosse tornato l’Impero Romano» [3].

Anche Daniele Capezzone (già deputato della Rosa nel pugno in quota radicale, poi per Forza Italia e ora vicino al Governo), durante la trasmissione “Zona Bianca” (Retr4) di domenica 12 marzo, ha tuonato così: «Stanno uscendo particolari atroci su quella barca [riguardo i fatti di Cutro]: gli scafisti la tenevano insieme con chiodi arrugginiti e graffette. Stando alla relazione dei servizi segreti, pagina 37, che invito a leggere, quanto più ci sono operazioni di soccorso, tanto più gli scafisti risparmiano e mettono dei poveracci su veri e propri gusci di noce […] è una vergogna che questa gente del Partito democratico anziché scagliarsi contro di questi, si scagli contro il Governo».

“E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”

Certo è che se la questione la si mette sul piano dell’emotività non se ne esce più. O, almeno, così è a parere di chi scrive. La pavimentazione della realtà cede di schianto e si può dare il via ad interpretazioni arbitrarie e opinioni più che personali. L’editoriale di Maurizio Belpietro su «La verità» di lunedì 13 marzo [2023] affonda il coltello nel metaforico “burro mediatico” riguardo i festeggiamenti di Casa-Salvini, ponendo il fatto in relazione con gli avvenimenti di cronaca: «Dopo Cutro vietato intonare Battiato?» prendendosela contro gli esponenti del Partito Democratico e di Alleanza Verdi/Sinistra che hanno utilizzato la vicenda leggendo la canzone deandreiana a favore dell’accoglienza. Stando a quel che scrive Belpietro, per l’opposizione ogni riferimento al mare nelle canzoni pop italiane sarebbe da bandire e quindi il Direttore snocciola varie canzoni tra cui Summer on a solitary beach: «Sebbene abbia un titolo inglese, in quella canzone Franco Battiato a un certo punto ripete un ritornello agghiacciante e politicamente scorretto, almeno di questi tempi: “Mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare, via via via da queste sponde,
portami lontano sulle onde”. Se così fosse, le nuove regole imposte da Elly Schlein e compagni ci costringerebbero persino a vietare Il pescatore, che pur essendo stata scritta da Pierangelo Bertoli e cantata da un’eroina rosso fuoco come Fiorella Mannoia parla di un’onda che ti solleva forte e ti spazza via come foglia al vento, per chiedersi poi se la morte sia così cattiva». Sembrerebbe evidente il tentativo strumentale di ambo le parti. Eppure non è il solo. Augusto Minzolini, nell’editoriale per «Il Giornale» di lunedì si pone sulla stessa scia condannando gli approcci emotivi alla vicenda che coinvolge le migrazioni di esseri umani: «Anche perché è fatale che il prossimo fatto di cronaca truculento che abbia come protagonista qualche immigrato clandestino susciti nella nostra opinione pubblica una reazione emotiva, uguale e contraria, a quella giustamente provocata dalla disgrazia di Cutro. Le emozioni, si sa, non si governano Ecco perché c’è un bisogno profondo di senso dell’equilibrio nell’accostarsi ad un problema che non ha soluzione. Da parte di tutti. È necessario assicurare il soccorso in mare a chi si affida a questi viaggi del dolore. Non potrebbe essere altrimenti: solo qualche scemo del villaggio può pensare che il nostro governo non abbia salvato scientemente i naufraghi di Cutro. È anche necessario, però, trovare nel contempo strumenti che scoraggino l’immigrazione, che spieghino a questa umanità disperata che non basta arrivare in Italia per restarci» e l’ex direttore del Tg1 chiude con una stilettata a Shlein e a Salvini: «Con la speculazione politica su questi temi, non si va da nessuna parte. Anzi, può rivelarsi un boomerang, perché le ondate emotive sono cangevoli. Lo ha sperimentato Matteo Salvini e lo scoprirà anche Elly Schlein». 

Eppure i sensazionalismi sono comparsi proprio su quella parte di stampa che vorrebbe un approccio più lucido e razionale sulle questioni legate ai cosiddetti “flussi migratori”.
Basta sfogliare le prime pagine del «Giornale», «Libero», «Verità» ad ogni sbarco: lunedì 13 la prima del giornale diretto da Sallusti recita: «Altra strage in mare, altre bugie a sinistra». Per «Libero» c’è un «Assalto all’Italia» (scritto in rosso) e poi «Allarme: non si fermano più».
L’unica cosa certa, in tutta questa vicenda, è che davvero per tutti il dolore degli altri è dolore a metà.
E allora ci sentiamo assolti. Pur essendo dannatamente coinvolti. 

Note:

[1] “Siamo scioccati. Secondo diverse fonti, decine di persone di questa barca sono annegate. Dalle ore 2.28, dell’11 marzo, le autorità erano informate dell’urgenza e della situazione di pericolo. Le autorità italiane hanno ritardato deliberatamente i soccorsi, lasciandoli morire”. Questo il tweet pubblicato dall’account di Alarm phone nella notte di sabato 11 marzo [2023]. https://twitter.com/alarm_phone/status/1634920639676190722?cxt=HHwWhMDUvZvqs7AtAAAA 

[2] Fabio Rubini, «I barconi ce li manda la Russia», lunedì 13 marzo 2023, «Libero Quotidiano».

[3] https://twitter.com/LucioMalan/status/1634979739650895873

 

Articolo pubblicato su “Atlante Editoriale”.

La foto è tratta dalla testata «Il Dubbio».

Cospito torna in ospedale. Avv. Rossi Albertini: «Non ha alcuna vocazione suicida. La sua è una battaglia per la vita» – Atlante Editoriale

Scomparso dalle prime pagine dei principali giornali nazionali, la notizia del nuovo trasferimento di Alfredo Cospito al padiglione detenuti dell’Ospedale San Paolo del carcere di Opera, è finito nelle pagine interne. Sporadiche eccezioni quelle di quotidiani sempre più rari a trovarsi nelle edicole come «Il Dubbio» e «Il Riformista». Nella foliazione del «Corriere della Sera» [7 marzo] la notizia del trasferimento scivola alla pagina 18. 

 
La situazione di salute peggiora

Eppure la situazione è molto grave. Nella mattina di martedì 7, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, intervistato da «SkyTg24» si è detto stupito di aver appreso la notizia del trasferimento dagli organi di stampa: «Ieri mattina [6 marzo] ho parlato con Cospito al carcere di Opera. È molto provato: sono più di 5 mesi che è in sciopero della fame. Ad oggi ha sorpreso tutti i sanitari riguardo la sua tenuta. La dottoressa Milia, il primo medico [che visitò Cospito nel carcere di] Sassari disse che era sconcertata già a Dicembre/Gennaio».

Il trasferimento, ad ogni modo, il legale lo spiega così: «Penso che abbiano allarmato i valori del potassio [di Cospito] poiché abbiamo appreso – nel corso del tempo – che è un valore importante per il corretto funzionamento del muscolo cardiaco» dal momento che quel valore dovrebbe essere legato agli integratori salvavita che «Cospito rifiuta da quando ha appreso della notizia del rigetto della Corte di Cassazione».

Rossi Albertini lo descrive come «lucido e coerente». E, anzi, scaccia via ogni tipo di interpretazione riguardo l’azione del suo assistito. Nella lettera scritta dallo stesso Cospito dal carcere di Opera, e diffusa dalla stampa nazionale nei primissimi giorni del mese di marzo, l’anarchico scrive che sì, si dichiarerebbe pronto a morire ma perché, si legge: «sono convinto che la mia morte porrà un intoppo a questo regime e che i 750 che lo subiscono da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto. Amo la vita. Sono un uomo felice. Non vorrei scambiare la mia vita con quella di un altro. E proprio perché la amo non posso accettare questa non vita senza speranza».
Congedandosi con la formula: «Grazie compagni-e del vostro amore. Sempre per l’anarchia. Mai piegato».

L’intervento internazionale
«Come rimedi interni siamo giunti alla conclusione», ha ribadito a «SkyTg24» il legale Rossi Albertini, richiamando l’eco della vicenda internazionale, «anche perché altrimenti il comitato dell’Onu non si sarebbe potuto esprimere».
A cosa si sta facendo riferimento? Rossi Albertini stava chiamando in causa la dichiarazione dell’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani che il 1 marzo [2023] ha inviato allo Stato italiano la richiesta di applicazione di misure cautelative relative la detenzione al 41 bis per Alfredo Cospito. Il documento [1], recapitato all’avvocato Flavio Rossi Albertini, è stato diffuso nelle ore successive all’invio tramite l’associazione ‘A buon diritto’ di cui Luigi Manconi (già Senatoore della Repubblica e vicino al Partito radicale) è presidente.

No a trattamenti inumani e degradanti
In particolare il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha chiesto all’Italia di assicurare il rispetto degli standard internazionali e degli articoli 7 e 10 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, riguardo le condizioni di Cospito.
L’articolo 7 riguarda strettamente il divieto di tortura e trattamenti o punizioni disumane o degradanti mentre l’articolo 10 riguarda l’umanità di trattamento e di rispetto della dignità umana di ogni persona privata della libertà personale [2].

“Battaglia per la vita”
«Non ha alcuna vocazione suicida – ha proseguito Rossi Albertini – Cospito sta conducendo una battaglia per la vita contro il regime di 41bis».
Adesso rimane solo la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) a doversi esprimere sul caso.

“La minaccia anarchica”

Eccezion fatta per gli articoli di questi giorni apparsi sui quotidiani nazionali, «La Stampa» su tutti per appartenenza geografica, riguardo gli scontri avvenuti nel primo fine settimana di marzo nel capoluogo piemontese tra anarchici e forze dell’ordine, la notizia è un’altra. Non arrivata al cospetto della grande stampa, se non seguendo il corso di un fiume carsico. Pronta, cioè, a riemergere nel caso la situazione degenerasse nel brevissimo periodo. Stiamo parlando della «Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza» [3] relativa all’anno appena trascorso, presentata al Parlamento nella scorsa settimana e per cui la sola Claudia Fusani sul «Riformista» si è pre-occupata di dar conto. Nel documento si legge che sì, le organizzazioni anarchiche hanno ritrovato vigore e attivismo in relazione alla vicenda Cospito ma, si legge: «nulla fa registrare una saldatura operativa con altre formazioni criminali». [4]

Nella conferenza stampa di presentazione del documento, Mario Parente (direttore dell’Agenzia di informazioni e sicurezza interna) ha dichiarato: «Non ci sono elementi che indicano saldature tra gli anarco-insurrezionalisti ed altre realtà criminali» [4].

Note
[1] https://www.abuondiritto.it/storage/app/media/notizie/CCPR%204323-2023.%20A%20docx.pdf

[2] https://www.ohchr.org/en/instruments-mechanisms/instruments/international-covenant-civil-and-political-rights

[3] Qui il documento integrale con le grafiche presentate nel corso della conferenza stampa: https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2023/02/Relazione_annuale_2022_interattiva.pdf

[4] Claudia Fusani, Cospito, l’intelligence smentisce Donzelli, mercoledì 1 marzo 2023, «Il Riformista».

È l’apparato che (non) cambia nella forma e nel colore – Atlante Editoriale

Margine ampio ma non schiacciante, c’è già chi si è affrettato (eccessivamente, ad avviso di chi scrive) a parlare di “rivoluzione politica interna”. Finisce 53,8% a 46,2% per Elly Schlein, al secolo Elena Ethel Schlein, vice presidente dell’Emilia-Romagna, nata in Svizzera ma anche «nativa democratica», per citare la risposta che fece discutere in diretta da Gruber a “Otto e mezzo” per cui la giornalista le chiese se si dichiarasse comunista. La risposta che ne seguì fu il balbettìo che poi fece il giro delle agenzie stampa:

«Sono una nativa democratica ma [lo sono] per ragioni anagrafiche: sono nata nel 1985 e non ho potuto aderire al Partito comunista italiano».

Il giorno seguente Michele Prospero su «Il Riformista» scrisse quello che circolava nella ‘vox populi’ dell’opinione pubblica a seguito di quanto detto da Schlein: 

«Lei che è venuta al mondo dopo Locke, Constant, Tocqueville non potrebbe dare un giudizio valutativo neppure sul liberalismo. E una stizzita astensione, nel classificare le cose e i movimenti politici, dovrebbe dichiararla anche sulle correnti democratiche o autoritarie sorte prima del fatidico 1985, quando matura il tempo del giudizio» [1].

Outsider?

Ribaltato il voto dei circoli: il parziale era del tutto favorevole al presidente emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini. C’è sempre una prima volta, anche per il Partito democratico: dalla prima tornata relativa alle primarie non era mai capitato che un segretario, più votato tra i circoli, non risultasse, poi, il segretario eletto.

Da più parti sulla stampa nazionale s’è parlato di ‘outsider’ (riguardo Schlein) per il Pd, non avendo ri-preso la tessera del partito al momento dell’elezione alla Camera dei Deputati. Ma è davvero così? 

 

La risposta potrebbe essere negativa e monosillabica. Il ‘volto nuovo’ del Partito democratico ha in Francesco Boccia il proprio coordinatore della mozione. Esponente di lungo corso, tutt’altro che “volto nuovo”, il senatore, già deputato di “Democrazia è libertà” (cioè “La Margherita), già ministro per gli affari regionali nel Governo Conte II, al «Corriere della Sera» di lunedì 27 [febbraio 2023] dice: «Schlein lavora per unire i progressisti, per tenere insieme per la prima volta la sinistra larga» ma anche «la rottura dell’alleanza coi 5 stelle ci ha fatto perdere le elezioni» [2] e il senatore punta alle elezioni europee.

Se non basta il nome di Boccia a suffragare l’ipotesi della non-novità di Schlein per il Pd, ci pensano i nomi che circolano per la composizione della sua segreteria per cui potrebbe esserci spazio per gli esponenti di Mdp-Articolo1 (Stumpo e Scotto): usciti e rientrati. Come la stessa neo-segretaria, d’altra parte: da occupante (simbolica, ça va sans dire) della sede del partito nel 2012 a fuoriuscita col gruppo di Civati, per poi fondare l’ormai celeberrima “Emilia Coraggiosa” che ha corso in alleanza con Stefano Bonaccini alle precedenti regionali. Ci sarebbe posto anche per la comasca Chiara Braga (deputata alla quarta legislatura) e per Marco Furfaro, escluso sia da Sel che dall’esperienza della “lista Tsipras”, ora potrebbe riuscire a trovare la sua collocazione.

Guai a chiamarlo “apparato”…
Stando a quel che scrive Lorenzo Salvia sul «Corriere» la neosegretaria pare abbia riferito che non avesse assicurato nulla né a Romano Prodi, né a Dario Franceschini o Nicola Zingaretti, né ad Andrea Orlando in caso di una sua vittoria. Certo è che lo stesso segretario dimissionario Zingaretti ha sostenuto Schlein fin dal 30 gennaio, così come Romano Prodi ha manifestato fin dalle prime battute il proprio apprezzamento per la nuova esponente ‘giovane’ (sebbene sia alla soglia degli -anta) tornata in seno al Partito democratico dopo l’esperienza con Possibile.

…ma anche “guai” a chiamarla rivoluzione
Schlein si è affrettata a considerare la vittoria della sua mozione «una piccola rivoluzione» [3] per il Partito democratico. La parola ormai è maneggiata da chiunque (si pensi a Gianfranco Rotondi e alla sua formazione politica “Rivoluzione cristiana”), tuttavia stride fortemente l’accostamento alla pratica di sovversione dello stato di cose presenti con quanto realizzato dalla stessa segretaria: rientrare nel Partito democratico e accasarsi con una porzione d’apparato per tentare la scalata non rappresenta certo la vittoria delle masse quanto piuttosto il prevalere di un piccolo interesse di parte.

A tal proposito vale la pena rammentare al lettore cosa disse in un confronto informale (ma diventato allora virale su internet e sulla maggior parte dei social media) con Matteo Salvini a San Giovannni in Persiceto durante le regionali in Emilia Romagna. L’allora ‘cavallo buono’ del centrodestra impiegò 80 secondi netti per rispondere all’esponente della lista “Coraggiosa” – e tentare di liquidarla – mentre la futura vice presidente di regione chiedeva come mai non si fosse presentato alle riunioni di commissione in sede europea riguardo i trattati di Dublino. La motivazione di tale incalzare è sintetizzato da quanto pronunciato da Schlein prima che Salvini si dileguasse: «Le norme si cambiano ai tavoli: è facile fare i tweet però quando c’è da cambiare le cose non vi si vede mai» [4].
Se le norme si cambiano ai tavoli, il senso ultimo della rivoluzione è svuotato fin dalle radici.

L’unica prospettiva è – come è sempre stata dalle parti di Via del Nazzareno – quella di rappresentare una parte consistente di sinistra liberale, continuando a non mostrare neanche come ‘legittima’ una posizione diversa dalla propria. Condannandola, perfino.

Prima separazione: si chiama “Tempi nuovi”

Le primarie sono un gioco al rialzo pericoloso, specialmente quando si è in un partito che ha fatto della privazione di identità e del “ma anche” la propria ragion d’essere. Le dichiarazioni di entrambi i candidati alla segreteria, però, nonostante il gioco al rialzo per apparire (anziché essere) diversi da come si comporteranno realmente, hanno causato fin da subito malumori in seno all’area cattolica.

A rompere per primo è l’ex ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni che, in un’intervista rilasciata a «Tv2000» ha affermato: 

«È un Partito democratico distinto e distante da quello che avevamo fondato […] che metteva insieme culture politiche diverse dalla sinistra al centro, con i cattolici democratici, i popolari e “la Margherita”. Oggi legittimamente diventa un partito di sinistra che nulla a che fare con la nostra storia, con i nostri valori e la nostra tradizioni». 

L’ex ministro ha poi proseguito: 

«Nel Pd rientrano Bersani e Speranza che erano usciti perché il Pd era troppo di centro ed oggi si trovano a casa loro in un partito di sinistra, noi costruiamo una nostra area per continuare ad essere orgogliosamente quello che siamo sempre stati».

La nuova ‘casa’ si chiama “Piattaforma popolare – Tempi nuovi” ma che non gli si dia la patente di partito, si chiama «network»:

«è il ‘network’ dei cattolici e democratici […] la casa di tutti quei popolari e cattolici che sono stati marginalizzati e allontanati sia dalle formazioni politiche di sinistra che da quelle di destra» [5].

La prima donna segretaria di partito: né Schlein, né Meloni

Dalla vittoria alle politiche di Meloni, alla scalata di Schlein, i quotidiani si sono sperticati in lodi tanto nei confronti dell’una quanto dell’altra esponente politica: la prima donna Presidente del consiglio dei ministri e leader di un’organizzazione politica e la prima donna segretaria di un partito di sinistra. Vale la pena ricordare che la primissima segretaria di partito si chiamava Adelaide Aglietta: nel 1976 successe a Gianfranco Spadaccia nella direzione del Partito radicale. All’età di 36 anni e con due figli (guai se allora le si fosse dato della “giovane ragazza” come più volte attribuito a Schlein nel corso dei notiziari televisivi e radiofonici) aveva ricevuto l’onore e l’onere di dirigere il Pr di Marco Pannella: «eletta all’unanimità meno un voto» [6], riporta il «Corriere della Sera» del 4 novembre di quell’anno.

E ancora: nel 2008 un’altra figura femminile di riferimento per una parte politica, quella della sinistra trotskysta, fu quella di Flavia d’Angeli: portavoce di Sinistra Critica, organizzazione in vita fino al 2013 [7] e tra le più attive della stagione della balcanizzazione della Rifondazione comunista post bertinottiana. 

Note:
[1] Michele Prospero, Se Elly Schlein punta alla segreteria del PD studi prima la storia del PCI…, 6 dicembre 2022, «Il Riformista».
[2] Monica Guerzoni, «È l’ora di nuove scelte. Rompere con il M5S ci è costato le politiche», 27 febbraio 2023, «Corriere della Sera».
[3] Redazione Repubblica Tv, Primarie PD, Schlein: “Abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione”, 27 febbraio 2023, «La Repubblica».
[4] Antonella Scarcella, Botta e risposta Schlein a Salvini: “Perché non venivate alle riunioni su Dublino?”, 21 gennaio 202, «Bologna Today».
[5] Redazione, Pd, Fioroni: “Partito di sinistra distinto e distante da noi. Nasce nuovo network cattolici”, 27 febbraio 2023, «Tv2000».
[6] s.n. La prima donna segretario di un partito, 4 novembre 1976, «Corriere della Sera».
[7] La conferenza nazionale del 2013 si divise in due documenti contrapposti con pari sostenitori e si decise per lo scioglimento. Ne nacquero due organizzazioni: Solidarietà Internazionalista (gruppo d’Angeli) e Sinistra Anticapitalista (Gruppo Turigliatto), il secondo è tutt’ora attivo e ha fatto campagna elettorale per Unione popolare alle elezioni politiche del 2022. 
 
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