L’antidoto al razzismo è una corsa verso Lupionòpolis

Il disco americano di Peppe Voltarelli, a due anni dalla pubblicazione di Planetario, a dieci da «Lamentarsi come ipotesi» (ultimo disco di inediti), si chiama «La grande corsa verso Lupionòpolis» (Visage, 2023). È americano per un’ovvia ragione: è stato registrato negli Usa e alle canzoni hanno collaborato dei musicisti statunitensi che hanno non di poco impreziosito le canzoni di Voltarelli.  

«Era un desiderio covato per molti anni – ha dichiarato Voltarelli a BlogFoolk Magazineho passato dei lunghi periodi a New York City con residenze artistiche in club della città che mi hanno fatto scoprire ed amare la sua congestione urbana il suo linguaggio i suoi abitanti le sue difficoltà».
La complicità artistica con Simone Giuliani e Marc Urselli ha fatto il resto ed è nato «La grande corsa verso Lupionòpolis».
Le atmosfere newyorkesi hanno fatto bene al cuore artistico di Voltarelli e alla sua voglia di tornare a registrare: «[…] poi, il saluto alla signora che stava all’uscita della metro che ogni mattina mi diceva “Come on Pepe, today it’s the day” […] Quando entravo in studio e traducevo dal calabrese in italiano i testi dei pezzi e poi con Simone dall’italiano in inglese, sentivo una grande responsabilità ma sono abituato a giocare in trasferta»

Un antidoto al razzismo
«La grande corsa verso Lupionòpolis» rappresenta un ritorno a quello che Voltarelli sa fare meglio: raccontare storie di migrazione italiana, cantare la saudade italiana in terra straniera, sognare di essere felici anche nel posto meno ospitale del mondo. Basta saper guardare il mare: «si guardo u mare ‘un signu sulu mai» (Nun signu sulu mai – La grande corsa verso Lupionòpolis). 

Voltarelli riannoda con sapienza e maestria i fili che lo hanno reso ancor più celebre dopo la separazione da quel funambolico esperimento di contaminazione che era Il parto delle nuvole pesanti. Ogni canzone del nuovo disco sembra voler raccontare di quanto sia sofferta e unica l’esperienza di sentirsi italiani in terra straniera per i più disparati motivi.
Un’alterità che Voltarelli ha saputo raccontare con svariate canzoni, facendone la cifra del suo essere, del suo cantare e anche del suo vestire (nel senso letterale del termine).

Sembra che non sia passato un giorno da Onda calabra (pubblicata con Il parto delle nuvole pesanti) la cui visione del video era indispensabile per capire e comprendere a fondo le parole del ritornello («Onda calabra / In doichlanda / Und die kleine / Und die spiele / Und die arbeite») da Sta città. Italiani, calabresi in Germania. 

L’autore si spinge ancor più lontano: ben oltre il Brennero e le Alpi e decide di varcare l’Oceano, un «mare niro funno chi fa paura» (Mareniro). E anche se Mozza può apparire una canzone di poco conto al primo ascolto, al secondo si coglie subito il velo di tristezza, reso meno consistente dalla melodia e dal divertente ritornello: «Nu stamo caminammo ppe ri strade e Montrial / Simo troppo bell e ni volimo semp scialà / Tu dici all’improvviso iamuninn au cinema / Va bono sì ma prima ma prima fammi mangià» e ancora: «Trasimo ntra nu posto piccolino a San Michel / All’intra poca gente e tante foto e l’Italie / C’è pure nu cantante quanto è bravo poverino / Arriva ru mangiare forza sona Peppino […] Si po essere felici pure dintra u Canadà».
Certo, si può essere felici, vanno bene la mozzarella e i panzerotti, ma il cantante è «bravo» e «poverino». 

Il Mino Reitano del XXI secolo è certamente Peppe Voltarelli non solo perché canta d’emigrazione riuscendoci in un modo non banale, ma perché lo fa in totale controtendenza a quello che è il clima presente nel Bel Paese. Le destre al governo cercano di esaltare la cultura italiana (o meglio, una piccolissima parte di essa) per far sì che l’identità nazionale si saldi in contrapposizione con la paura del diverso rappresentato da migranti, dai richiedenti asilo e dagli stranieri in cerca di patria, di cittadinanza. Ma il risultato è solo quello di fornire un’idea di Italia fatta di luoghi comuni, come ha fatto Giorgia Meloni al G7 parlando ed esaltando la cultura enogastronomica italiana in un luogo che non c’è: «un resort di lusso dove non ci sono abitanti ma solo lavoratori». 

Lavoratori, laureati, professionisti che ogni anno lasciano l’Italia per diventare cittadini di altri paesi. Italiani in terra straniera che diventano inglesi, statunitensi e tedeschi. L’emigrazione è cosa seria e gli italiani lo sanno benissimo. E Voltarelli la canta ancor meglio.

Europee ed egoismo: anticamera del presidenzialismo [Atlante editoriale]

Foto di Elimende Inagella su Unaplash

C’è speranza? Forse sì. Ma la speranza passa per l’autocritica che, al momento, non parrebbe essere all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. 

«Gli elettori europei hanno parlato. […] Si ipotizzeranno vecchie e nuove maggioranze, si inizieranno anche le trattative per nominare i nuovi vertici. Si cercherà lo schema classico: un presidente della commissione al Partito popolare europeo, un presidente del consiglio ai socialisti del Pse, un altro rappresentate ai liberali e qualche altro strapuntino per i sovranisti considerati frequentabili. Si approverà un’agenda europea piena di slogan già vecchi ma ripetere la solita stanca liturgia della politica europea non ha senso». A scriverlo è stato David Carretta, giornalista tra gli altri del Foglio e di Radio Radicale, all’indomani dei risultati delle europee in Italia.

Che la struttura (politica) europea non potrà più essere la stessa risulta evidente, perfino ai più sostenitori dell’UE così come si è mostrata nel corso di questi decenni e il risultato elettorale non è, in effetti, tra i più scontati (come invece parrebbe essere stato dalle parti di Libero, Giornale e La verità). Da mesi politica e giornali parlano dell’onda nera che avrebbe travolto l’Europa e in effetti, al netto dell’astensione dal voto, così è stato.

L’Europa – o meglio: il suo establishement – dovrà mettere in discussione se stessa per far sì che riesca ad essere percepita nei confronti degli elettori e dell’opinione pubblica, ma l’autocritica non parrebbe all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. Antonio Tajani, eco del Ppe in Italia, non parrebbe porsi sul chi-va-là dell’astensionismo o del clima generale di un Presidente (Macron) che scioglie le camere e indice le elezioni nel suo paese nel corso dei primi exit polls: «Noi siamo il Ppe, primo partito: saremo centrali ed essenziali», come ha dichiarato nel corso della notte elettorale al Corriere della Sera

Respinti all’uscio 

Evitando la ripetizione di percentuali raggiunte dai partiti e dalle liste, dati che il lettore potrà trovare visitando qualsiasi sito di quotidiani allnews, scorrendo sul proprio smarphone tra le Google news o anche accendendo una televisione, in questa sede proviamo a tracciare un profilo diverso di questa tornata partendo da chi non sarà rappresentato al Parlamento Europeo, nonostante tutti i pronostici. Il riferimento è all’area liberal-democratica: le due liste che facevano riferimento a Renew Europe (e all’Alde), ovvero Stati Uniti d’Europa e Azione, si fermano al di sotto del quorum. I due rassemblement liberal-democratici non hanno convinto pienamente coloro che si sono recati alle urne e molti commentatori hanno notato che le due liste hanno finito con l’annullarsi.

Perché «i due rassemblement»?

Perché sia Stati Uniti d’Europa che Azione miravano a rappresentare un variegato mondo liberal-democratico, ora con sfumature socialiste liberali ora con nostalgie da Prima Repubblica (Psi e Pri erano alleati rispettivamente con Stati uniti d’Europa e con Azione). L’operazione ha finito col rappresentare una propagandistica testimonianza, come spesso accadeva per le liste della sinistra radicale (o comunista) da essi spesso dileggiate per la ripetuta mancanza di consensi necessari ad accedere all’Europarlamento. Le matrioske liberali non hanno funzionato e sono state sonoramente bocciate, nonostante i nomi scesi in campo a supportare i cartelli elettorali (Renzi e Caiazza su tutti). Allo stesso modo, cambiando fronte, l’operazione della lista Santoro (Pace terra dignità) è sembrata l’ennesimo tentativo di una sinistra che non sa elaborare un progetto di lungo periodo: gli elettori hanno preferito premiare l’alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana (Avs), intrisa di moderatismo e realpolitik data la riproposizione di candidati provenienti dal Partito democratico (Orlando e Marino su tutti) ma anche di Ilaria Salis su cui si dovrà vedere ora il confronto diplomatico con Budapest come procederà. 

«Prima io» 

La destra gongola e Meloni si lascia andare sui social con la pubblicazione di un selfie con la V di vittoria, gesto che fu caro a Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo il parlamentare Fd’I Donzelli, raggiunto la notte del 9 giugno [2024] dal Corriere della Sera, l’operazione di Meloni di candidarsi in tutti i collegi, compresa quella di indicare il voto per Giorgia non è stato altro che «un atto d’amore nei confronti di tutti gli italiani». Il deputato ha proseguito: «[Meloni] non lo ha fatto per sé, non ne aveva bisogno […] tranne la manifestazione del 1 giugno a Pescara non ha tolto un solo minuto al suo lavoro di Governo».

Per sé sicuramente no, tuttavia per il partito certamente. E il discorso vale tanto per lei quanto per la segretaria del Partito democratico. Il bottino delle preferenze di Giorgia Meloni detta Giorgia fa urlare di gioia un già sgolante Nicola Porro che, sul suo blog, mette nero su bianco: «da sola “Meloni detta Giorgia” vale più del Movimento Cinque Stelle nel suo complesso (2,2 milioni di voti) ma anche più di Lega (2 milioni) e Forza Italia (2,2 milioni). Più di un terzo dei voti di FdI porta il nome del leader».

Il messaggio è chiaro. Le elezioni europee erano una sorta di elezione di mid term in salsa italo-europea: tanto più è forte la Presidente del consiglio (che è leader di Fratelli d’Italia), tanto più sarà imponente la sua campagna sul referendum riguardo il presidenzialismo. I rimpasti c’entrano poco e non sono all’ordine del giorno. Quantomeno per ora.

Egoismo. Questo è stato il fattore maggiormente presente e imponente nel corso di questa bassa (si veda la polemica sulle parolacce) campagna elettorale. Ideologia assente (jamais!) e dibattito completamente annichilito dall’onnipresenza leaderistica della figura forte di partito che puntava tutto su di sé.

È l’anticamera del presidenzialismo: un referendum permanente su una figura. Che sia Giorgia detta Giorgia o Elena Ethel Schlein detta Elly la medaglia ha due lati identici. 

Chi ne fa le spese sono gli elettori. Quelli che a votare ancora ci vanno, s’intende.

Articolo pubblicato su Atlante editoriale https://www.atlanteditoriale.com/europee-ed-egoismo-anticamera-del-presidenzialismo/

«Nun me po’ nterogà domani?»


Foto di Stefan Spassov su Unsplash

Dice: «Quindi oggi non me ‘nteroga? »
Dico: «Caro *** devo già interrogare cinque persone che il penultimo giorno di scuola si sono rese conto di essere insufficienti: non c’è troppo tempo, non credi?»
Dice: «C’è sempre domani»
Dico: «I voti però li devo inserire oggi» 
Dice: «Quindi lei domani nun lavora?»
Dico: «Certo che lavoro e tu domani verrai a scuola»
Dice: «Eh ma se nun me nterroga che ce vengo a fa»
Dico: «Perché comunque conta come assenza»
Dice: «Quindi lei lavora sempre tranne l’ultimo giorno de scola?»
Dico: «Io lavoro sempre, o ti è risultato diversamente? A me pare che so più le volte che non sei venuto a scuola de quelle quando c’eri. Come la mettemo?»
Dice: «Vabbè ma quindi se io me voglio fa interroga domani? L’altri prof ce nterogano»
Dico: «Okay: domani è l’ultimo giorno, però, caro ***»
Dice: «Vabbè io comunque oggi me giustifico»

Cosa importa se è finita, che cosa importa se ho la gola bruciata o no? [una amara splendida giornata a Rocca di Papa]

Cosa scrivere? Da che punto partire?
Spesso il modo migliore è partire dalla fine: la Borgata ha perso 4-1 in casa dei Canarini Rocca di Papa ed è sprofondata in terzultima posizione. Proprio quando il gioco stava migliorando e le vittorie (ad esempio contro il Monteporzio) stavano tornando.
Terzultima posizione significa play-out contro la Polisportiva Ciampino.
Il dato in sé è implacabile. Dopo un campionato che, come si dice in gergo, è stato tiratissimo, in cui la squadra (davvero) non si è mai risparmiata, giunge la scure implacabile dell’ulteriore prova da dimostrare nell’ancor-più-ultima-giornata, peraltro contro dei rivali con cui la Borgata non ha ottimi trascorsi.
Per chi volesse rileggere i precedenti scontri col Ciampino, può farlo a questo link: https://www.longolocammino.it/search?q=polisportiva+ciampino.

Stop that train: I wanna get… off
Domenica il clima era quello delle grandissime occasioni: la squadra di Rocca di Papa (Canarini Rdp) aspettava questo scontro per laurearsi campionessa della Prima Categoria ed approdare al campionato di Promozione, il gradino successivo del dilettantismo.
Partiamo con un pullman come quando si va in gita scolastica e i prof fanno l’appello [abbiamo fatto pure quello]. Cinquanta magliette granata salgono diligentemente sul pullman in direzione Campi d’Annibale: troviamo il paese intero sui gradoni dello stadio del Rocca di Papa e un numero piuttosto ingente di forze dell’ordine.

Una volta arrivati, nonostante fossimo consci di essere in netta minoranza, e che già gli avversari si stessero preparando mentalmente alla vittoria, ho percepito che il clima fra di noi fosse quello di esserci. (Heidegger ora pro nobis).

Che, in un certo qual modo, la Borgata poteva farcela, poteva dire la propria in un campo complicato, all’ultima giornata di un campionato complicatissimo.

Il primo tempo dà l’illusione che la Borgata potesse davvero, con un inatteso coup de théâtre contro la prima della classe, affermare il proprio gioco: al 6′ Mascioli (Moreno) calcia una punizione delle sue ma il portiere dei Canarini riesce a prendere l’imprendibile e deviare in angolo.
E, come in quelle storie in cui niente deve andar bene dall’inizio alla fine, anche i calci d’angolo della Borgata (marchio di fabbrica delle tattiche di mister Amico) non vanno bene fin dall’inizio.
Due minuti dopo l’attacco dei Canarini fa vedere la sua potenza e per poco la gialla non passa in vantaggio due minuti dopo la punizione di Mascioli.
Al 15′ il gol del centravanti arriva davvero. La gialla continua a spingere e la Borgata è in difficoltà: ha accusato il colpo e, sebbene provi a reagire, gli avversari non cedono terreno. Gli affondi dell’attacco canarino riescono a divorare metri del centrocampo granata (Cassatella ci manchi!).

A metà primo tempo i nostri sembrano aver accusato così tanto il colpo che i Canarini si limitano a gestire gli errori che la Borgata commette a centrocampo: così, si soffre ancora di più, sia in campo che sugli spalti. Voci incontrollate (alias Tuttocampo) dicono che l’Oir stia vincendo contro il Trigoria. A un certo punto (attorno al 40′) viene aggiornato il risultato su 1-10 per il Trigoria. ¡Mentirosos!
Cerchiamo il conforto di Rizzotto, presente al campo dell’Oir per aggiornarci sul risultato dell’altra gara importantissima in chiave salvezza: gli ingegneri stanno vincendo.
Al 36′ Colavecchia, neanche lui sa come ha fatto, riesce a sventare il possibile raddoppio dei Canarini. Il fortino granata è sotto attacco da ogni lato.
Quarantacinquesimo. Il Direttore di gara manda tutti negli spogliatoi: i nostri restano in panchina guidati da mister Amico. Il clima è rovente, e non solo per le scottature che ci siamo presi sui gradoni.


Nella ripresa la gialla dilaga: al dodicesimo Piccardi viene saltato dal 18 locale che serve per il centravanti e batte Capostagno. Un errore a centrocampo al 16′ regala un’azione d’attacco per i canarini che ne approfittano subito: 3-0. Dieci minuti dopo Mascioli (Moreno) commette una fin troppo grande leggerezza (non da lui) a centrocampo e regala il contropiede ai Canarini: pallonetto dell’11. 4-0.

L’Oir vince. Il Nuova Lunghezza anche, vince anche il Ciampino. Lo spettro dei play-out.

Ferma il treno: voglio scendere.
Stop that train: I wanna get… off
È vero che “non c’è partita, sconfitta né diffida” che ci possa tenere lontano dalla borgata, ma anche il morale comincia a vacillare. In campo i nostri provano a destarsi ma la salita è fin troppo impegnativa: mancano meno di 20 minuti e siamo sotto di quattro gol.
Al 36′ Cicolò tenta un tiro dalla linea mediana che fa sognare tutti per una frazione di secondo. Un lampo, un fulmine a ciel sereno, un guizzo.
Poi il gol arriva davvero, il gol della bandiera: Soru insacca mentre la squadra locale sembrava essersi distratta per un secondo e anche il tifo non se ne accorge davvero. Sul pullman di ritorno c’è stato qualcuno che ha negato il gol fino alla fine.

Play-out.
Arriverà il Ciampino a casa della Borgata, al ‘Vittiglio’, e sarà uno scontro fino all’ultimo secondo, fino all’ultima goccia di sudore per rimanere in Prima Categoria.

Torniamo a casa. Tristi perché ci sarà ancora un’altra gara, infelici perché ci sarà ancora un’altra prova da dimostrare ma con la «gola bruciata» e con la consapevolezza che c’è ancora speranza.

Personalmente non riuscirò ad esserci, e questo è un rammarico grande,  per impegni familiari che giungono una volta nella vita come la comunione della prima nipote.

Il rammarico è ancor più grande perché quella di Rocca di Papa è stata davvero l’ultima per me spettatore: se l’anno scorso era in forse, quest’anno il trasferimento è sicuro e alla ripresa del campionato non ci sarò.
Mi mancherà, la Borgata.
Mi mancheranno i gradoni del Pro Roma.
Mi mancherà avere «la gola bruciata».
Mi mancherà incontrare casualmente mister Amico all’incrocio con Via Grotta di Gregna in motorino.
Mi mancheranno gli urli che chiedono: «A che minuto stamo, professò?!».

La Borgata vincerà!

Cosa importa se è finita?
E cosa importa se ho la gola bruciata, o no?
Ciò che conta è che sia stata
Come una splendida giornata…

Ultima giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone G

Per quanta polizia, carabinieri (c’era pure la protezione civile, a
far che non è dato sapere) c’erano, andare a chiedere le liste delle due
squadre all’arbitro era piuttosto difficoltoso. Ho provato ma il
tabellino, stavolta, sarà solo dei nostri con i numeri dei Canarini per
ammoniti e gol. Anche i titolari della Borgata non sono scritti in ordine numerico come al solito.

CANARINI RDP – BORGATA GORDIANI 4-1

BORGATA GORDIANI: Capostagno, Caporalini, Piccardi, Colavecchia (35’st Barsotti), Chimeri, Mascioli M. (7’st Cultrera), Mascioli F., Pompi (24’st Soru), Di Stefano (24’st Ciamarra), Cicolò, Marku (1’st Seydi).
ALLENATORE: Fabrizio Amico.
ARBITRO: Matteo Altobelli (Frosinone).
NOTE: AMMONITI: 17’pt 9 Rdp, 15’st 3 (Rdp), 18’st 10 (Rdp), 42’st Mascioli M. (BG), 44’st 13 (Rdp). Angoli: Borgata Gordiani 3 – 7 Canarini Rocca di Papa. Recupero: 0’pt – 2’st.

Un altro manifesto [sempre a Santa Maria del Soccorso]

  

Foto di Adriano Pucciarelli su Unsplash

Non c’è più il manifesto di Lenin a Santa Maria del Soccorso. È stato strappato del tutto, fino agli ultimi brandelli. Per tre settimane il muro è rimasto “pulito” da ogni affissione.

Attorno al 15 del mese l’organizzazione italiana della Tendenza marxista internazionale ha provato ad attaccarvi due manifestini riguardo un’iniziativa che stavano promuovendo in quei giorni sulla lotta partigiana: uno è stato strappato e ne è rimasto uno solo. Ancora coraggiosamente attaccato al muro d’ingresso della fermata di Santa Maria del Soccorso.

È il giorno dopo il 25 aprile, in cui un lungo fiume di persone ha invaso le strade tra Villa Gordiani e Quarticciolo. È il giorno dopo la lieta marea.

In una delle due scuole in cui presto servizio quest’anno il ponte non è il 25 e il 26 aprile ma il 29 e 30, dunque mi incammino verso l’entrata della Metro B alle 7:30. Mentre cammino verso l’ingresso faccio un controllo delle cose toccandomi le varie tasche della giacca e dei pantaloni una dopo l’altra: moderna e attualizzata versione del tuca tuca di Raffaella Carrà. C’è tutto, anche la mascherina FFP2: per insegnare alla sezione ospedaliera serve ancora, nei reparti dell’ Umberto I è ancora obbligatoria. 

Finito il servizio torno indietro con pensieri e sguardi avvolti dalle pagine di Meneghello e dai racconti di Malo, ma purtroppo arriva il momento di scendere. Salgo le scale per riemergere alla luce del sole e noto sull’altro muro di destra, quello che dà verso l’uscita di Largo Viola, un altro manifesto. È scritto a vernice rossa e a caratteri cubitali: «W Mario Fiorentini».
Non c’è la firma: la scritta è rossa.
Mi fermo immobile, anche questa volta, oltre i cancelli dell’uscita della metro e resto a contemplare la scritta rossa qualche secondo. Non vedevo un manifesto per Mario Fiorentini da un po’ e vederne uno mi ha fatto respirare aria fina di montagna.

È proprio vero, penso, quello slogan che ci ripetiamo (benché ovunque
collocati, dispersi e divisi): quando muore un compagno o una compagna
ne nascono altri cento.
E vanno in giro ad affiggere i manifesti in ricordo di Mario Fiorentini.

Lo spirito di chi crede non si abbatte facilmente, come nella scena di Italiani brava gente in cui i nazisti e i fascisti, tedeschi e italiani occupanti le zone limitrofe al Don, stuzzicano un gruppo di civili russi facendo cantare loro L’Internazionale a mo’ di sfregio.
Ma loro l’hanno cantata davvero e quasi non si fermavano neanche coi colpi dei mitra tedeschi.

Sono teste dure, i comunisti.
Menomale.

Corri, Borgata! Pompi e Mascioli stendono il Monteporzio (2-1)

Chi se la ricorda la partita d’andata in casa dell’Atletico Monteporzio?
Sfortunatamente sugli spalti eravamo in pochissimi ma non è stata una domenica positiva. Iniziata male e terminata peggio: 0-2 e senza una reazione vera da parte granata.
Ma oggi è andato in scena tutto un altro spettacolo e gli undici di mister Amico hanno conquistato una vittoria importantissima.

Ma riavvolgiamo il nastro.

Il primo gol arriva al settimo minuto del primo tempo ma nessuno l’ha visto. Cioè: sappiamo che Pompi ne è stato l’autore ma un attimo prima erano giunti dei Borghetti in dono per tutti i presenti sui gradoni. Il tempo di una torsione del busto verso i bicchierini di plastica, che contenevano la necessaria benzina per la giusta e animosa prosecuzione del tutto, e la Borgata va in vantaggio.

Clamoroso al Vittiglio!

L’inizio è scoppiettante: Marku e Di Stefano sono letteralmente due furie che non riescono, in nessun modo, ad essere fermate dalla difesa del Monteporzio. Più d’una volta l’11 granata tenta di incornare il pallone per trafiggere De Angelis ma non ci riuscirà mai, sfortunatamente. 
Otto minuti dopo l’arbitro indica il dischetto: è rigore.
Dice: Ma per chi?
Dice: Oh! È rigore per noi!

In un attimo sembra di assistere alla scena in cui Fantozzi è costretto a lasciare la visione di Inghilterra-Italia per andare a vedere il film cecoslovacco (ma coi sottotitoli in tedesco) in cui il commentatore radiofonico inizia ad urlare tutte le parti del corpo colpite dal pallone dicendo «erano centosettantanni che non si vedeva un inizio così scoppiettante dell’Italia».
 

Mascioli (Moreno) trasforma il rigore e va a -2 da Pompi nella classifica marcatori di quest’anno.
La Borgata continua a spingere senza sosta e il Monteporzio sembra rintronato: fino al 25′ della prima frazione di gioco la squadra di Tripodi non riesce ad organizzarsi per una pur minima reazione. Al 37′ ancora un guizzo del duo Marku-Caporalini: il 2 tenta un tiro-cross ma non riesce a cogliere prontamente Di Stefano.
Gli undici granata sembrano non volersi più fermare e cercano il terzo gol con tutte le forze. Ma proprio mentre la squadra spinge, arriva l’unica distrazione difensiva della Borgata: ne approfitta Confaloni che accorcia le distanze al 44′ del primo tempo.

Certo: andare in vantaggio sul 2-0 al termine della prima frazione di gioco sarebbe stato ottimo per il morale, ma – come dice il proverbio – «il diavolo ci ha messo la coda» e ora è la Borgata a dover dimostrare, di nuovo, quanto vale. Come se non lo avesse già dimostrato abbastanza contro una delle prime della classe del girone.

Il primo quarto d’ora della ripresa è tutto biancorosso: la squadra di Tripodi spinge ma la Borgata sa soffrire e chiudersi a dovere. Niente distrazioni: c’è solo la volontà di serrare ogni pertugio che possa portare al potenziale gol del pareggio.
La tensione che c’era sugli spalti era tale che di appunti – francamente – ne ho presi pochi: il fortino granata ha resistito fino all’ultima vera occasione del Monteporzio (al 32′), poi gli schemi sono saltati.

La Borgata riesce a sfruttare ogni benedetto contropiede: ogni varco lasciato dagli ospiti è un’autostrada per Piccardi e Soru. Proprio capitan Piccardi al 40′ riesce a macinare chilometri e ad arrivare all’altezza della linea mediana, la difesa del Monteporzio è sfilacciata, c’è solo il portiere davanti a lui, sopraggiunge Proietti dalla destra che tira a portiere battuto. Dovrebbe essere gol ma un centesimo di secondo dopo aver visto la rete gonfiarsi, l’arbitro alza il braccio: fuorigioco, gol annullato. Non sappiamo cosa abbia detto Proietti, ma l’arbitro gli mostra il rosso diretto.
Borgata in 10.
Sisifo ce fa un baffo.

È ancora assedio Monteporzio e, ancora una volta, è una grande Borgata a resistere e ripartire.
Al 43′ Cultrera si mangia un gol dopo aver controllato la palla con la faccia (Sparwasser, ora pro nobis) ma la partita è ancora lunga.
Attorno al 50′ l’arbitro indica altri tre minuti addizionali di recupero arrivando ad otto totali: nel frattempo il Monteporzio perde la testa e resta in 9

Mancano due giornate, l’ultima fuoricasa contro la prima in classifica. In tre punti sono racchiuse sei squadre che si giocano la permanenza in Prima Categoria. 

Hic manebimus optime!

 

Il tabellino della ventottesima giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone G

BORGATA GORDIANI – ATLETICO MONTEPORZIO 2-1
MARCATORI: 7’pt Pompi (BG), Rig. 15’pt Mascioli M. (BG), 44’pt Confaloni (AM).
BORGATA GORDIANI: Pagano, Caporalini (20’st Capostagno), Piccardi, Pompi, Chimeri, Colavecchia, Di Stefano (34’st Soru), Mascioli F., Cicolò (28’st Cultrera), Mascioli M. (31’st Seydi), Marku (28’st Proietti). PANCHINA: Minotti, Segatori, Ciamarra, Martucci. ALLENATORE: Fabrizio Amico.
ATLETICO MONTEPORZIO: De Angelis, Bonamici (1’st Gagliassi), Torregiani, Brunetti (28’pt Laurenzi), Cupellini, Bono, Stornaiuolo, Tiberi, Composto, Kammou (37’st Lucci), Confaloni. PANCHINA: Litterio, Calicchio, Vasari, Schiavoni, Casale, Terenzio.
ALLENATORE: Domenico Tripodi 
ARBITRO: Matteo Altobelli (Frosinone)
NOTE: ESPULSI: Proietti (BG) al 44’st; al 47′ espulso per doppia ammonizione Confaloni (AM). Contrariato, ha dato uno schiaffo al cartellino facendolo cadere dalla mano dell’arbitro che lo stava mostrando al giocatore; al 48′ eslpulso Tiberi per doppia ammonizione (AM).  
AMMONITI: 26’pt Pompi (BG), 15’st Di Stefano (BG), 17’st Composto (AM), 31’st Pagano (BG) per perdita di tempo, 38’st Cultrera (BG), 41’st Tiberi (AM), 42’st Seydi (BG).
ANGOLI: Borgata Gordiani 2 – 3 Atletico Monteporzio.
RECUPERO
: 2’pt – 5′ più 3′ addizionali indicati al 50′ (dunque 8 in totale secondo tempo).

Tra Gesù di Nazareth e Karl Marx: la scelta (e la vita) di “Miguel”

Lo scorso anno, prima della partenza per la Bolivia, ci [a Maria e me] è stato regalato un libro [grazie Giusi!] scritto da Luca Bonalumi attorno alle disavventure rivoluzionarie di Antonio Caglioni a Viloco e nel paese che l’ha ospitato per molti decenni. Una volta giunti dall’altra parte del mondo, siamo andati a conoscere Antonio Caglioni e abbiamo trascorso del tempo con lui, pur alloggiando a Cairoma (cittadina vicina a Viloco).

Per chi volesse, questi sono i due link agli articoli scritti a Cairoma su Antonio Caglioni e sul sistema sanitario a 5200 metri d’altitudine: Il sacerdote rivoluzionario alla fine del Mondo e Sanità pubblica e privata in Bolivia. Cercando l’assistenza capillare, trovando disordine generale.

L’introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo – a parere di chi scrive – rientra tra i pregi piuttosto che nell’ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.

Don Emilio nell’introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente – dopo varie ore di fuoristrada – riescono ad arrivare là, “alla fine del mondo”, a cinquemila metri d’altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e – c’è da immaginarselo – c’era una stellata meravigliosamente impressionante, data l’assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d’ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.

Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: “ma che si ruberanno mai, qua” (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.

Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.

Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d’introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se – in piena notte – prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.

«[…] Mi fanno alzare dal letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento. Bontà loro, niente  manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè? Siete stanchi e la strada è lunga”»1.

Ma chi era Miguel?

Michael Miguel Nothdurfter era un italiano-sudtirolese di Bolzano che ha avuto una vita piuttosto intensa, una di quelle storie da raccontare, sebbene il tragico epilogo che ha avuto, ovvero ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia boliviana.

Scrive ancora don Emilio nell’introduzione al libro di Bonalumi:

«[…] Alle tre di notte cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo
trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono) altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti, impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario, nella casa di padre Antonio2, in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già profumo di promozione».

Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.

A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.

Il comandante Gonzalo va alla guerra
La vicenda di Nothdurfter viene raccontata dettagliatamente da Paolo Cagnan in un libro pubblicato nel 1997 [Il comandante Gonzalo va alla guerra, erremme, 20.000 lire, 175 pagine] ed è colmo di riferimenti, racconti, testimonianze raccolte in loco, chilometri macinati tra le città boliviane.

«Caro Fratello, il tempo speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a vederli anche i miei occhi si appannavano»3.

Nothdurfter giunge in Bolivia il 26 agosto del 1982 dopo aver contattato la Compagnia del Gesù richiedendo di entrare a farne parte. Prima di questa sua decisione c’è stato il diploma di liceo classico e l’aspirazione a diventare prete:

«All’ultimo anno del liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori di una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.

Parte per Londra e segue il primo anno di noviziato al «Mill Hill» per poi approdare a Roosendal, in cui trascorrerà il secondo anno.
Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:

«La mia opzione politica è un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»6.

Le parole di Michael sono macigni: sta cercando di essere e di porsi come cerniera tra il mondo dell’utopia socialista e quello del cristianesimo agìto, reale, praticato e non clericalizzato in rigide strutture opprimenti.

Seguire l’insegnamento di Cristo significa uscire all’esterno e aprirsi al mondo e non rimanere ancorati alla realtà del noviziato, scrive ancora Michael nell’aprile 1984 da Cochabamba:

«In confronto al “popolo semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata. […] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”, pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo “giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare, ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo significa, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […] Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada nella Compagnia del Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo, siamo pronti a cercarla altrove»7

A maggio dello stesso anno scriverà al fratello Othwin di aver abbandonato i Gesuiti.
L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.

Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:

«In Bolivia le rivoluzioni sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179 negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre presidenti in uno stesso giorno»8.

Veduta di La Paz dal mirador Killi Killi

Certo, sono passati ventiquattro anni da quando Nothdurfter è arrivato in Bolivia, ma la situazione non pare essere cambiata più di tanto: sono gli anni post golpe di Garcia Meza (1980-1981) in cui viene creata una nuova parola per indicare quel governo. Narcodictadura.

Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.

Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.

Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.

Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.

Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:

«D’ora in poi ti scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini “estremiste”»9.

Non c’è altro tempo da perdere: i poveri sono sempre più poveri, i ricchi vedono accrescere sempre di più il loro patrimonio, la sinistra è divisa, la politica strizza l’occhio ai grandi capitalisti e affama il popolo.


«[…] La sinistra boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si salva. Per questo motivo  bisogna costruire qualcosa di nuovo. […] Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno, innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza ideologica. Io, però, sono deciso – assieme alla mia organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso, poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.

E ancora, l’anno successivo:

«Mi trovo più o meno d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio, però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una necessità imperiosa»11.

Inizia a militare davvero: aderisce prima ad un partito, poi ad un secondo entrambi marxisti, rivoluzionari e nazionalisti ma nessuno di essi ha quel che fa per lui, che ormai è diventato pienamente boliviano e non è più Michael ma Miguel. Abbandona entrambe le organizzazioni e decide di creare un gruppo insieme ad altri fuoriusciti. È la fine del 1988 e l’inizio del 1989. Il Muro di Berlino sta già scricchiolando e l’Unione Sovietica è a un passo dalla fine, ma questo, Miguel, ancora non lo sa né vedrà la fine dello stato sovietico.

Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.

«Considero un compito principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.

Il 1989 è l’anno del primo “esproprio proletario” con cui Michael Nothdurfter e il suo gruppo di rivoluzionari, che nel frattempo s’è coagulato attorno a lui.

La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz).

Il simbolo della Cnpz [Fonte: Wikipedia]

Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:

«Nestor è il fratello dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime: il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è
comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex dittatore Hugo Banzer»13.

Poi arriva davvero il colpo: il sequestro riesce e dura mesi senza che la famiglia dell’industriale sia realmente interessata a riavere Lonsdale. Attorno al sequestro e al suo epilogo ci sono un mucchio di cose che non quadrano e che sia il libro di Paolo Cagnan sia i due docufilm prodotti espongono come criticità attorno al fatto. Tra i fatti che non tornano14 ci sono: Lonsdale presenta dei fori da arma da fuoco che non quadrano con le dichiarazioni della polizia, Miguel venne accusato subito (anche perché straniero, dunque elemento ancor più perturbatore del “semplice” fatto di essere un rivoluzionario15) di aver ucciso l’industriale ma senza una prova concreta, non ci sarebbe stata trattativa tra polizia e sequestratori e le forze dell’ordine hanno sparato subito anche di fronte a uomini che si stavano arrendendo e poi… il volto di Miguel, sfigurato dai proiettili «al punto da rendere impossibile l’identificazione attraverso i tratti somatici». Le autorità boliviane «hanno voluto impedire il nascere di un nuovo mito guerrigliero».

Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.

«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una cronaca di una morte annunciata».

Eppure Miguel, in una lettera-testamento ai genitori e alla famiglia, racconta il suo percorso, dalla partenza all’epilogo (senza essere troppo esplicito) ma che restituisce un animo in cerca di giustizia, libertà, equità e solidarietà. Di questo, penso, è bene occuparsi nell’analisi della vita di Nothdurfter e di quanto è accaduto nella vicenda del sequestro Lonsdale: andare alla ricerca, insieme a Miguel, di quanto l’occidente fosse malato allora e di quanto non sia cambiato oggi; di quanto il primo mondo sfrutti, di quanto sia impelagato in una riflessione di giustificazione e autoassoluzione senza la minima autocritica. Non assolvere Miguel per la sua guerra, ma stare dalla parte della sua anima e del suo spirito. Lo spirito di un uomo innamorato della vita a tal punto da voler ingaggiare una lotta senza quartiere contro le ingiustizie che rendono il povero ancor più schiacciato da un capitalismo selvaggio e da una borghesia sfrontata e superba. Talmente innamorato della vita da aver deciso che valesse la pena anche perderla, pur di continuare nella sua lotta.

Tra le strade della regione di Araca. Agosto 2023.

Dalla lettera-testamento, scritta nell’agosto 1990 da Miguel ai suoi genitori:

«[…] So bene che nessuna delle persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi. […] Dopo la guerra fredda
arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama “guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e “stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci, soverchiante e iniquo: il neoliberismo.
La principale questione è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.

La teologia della liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina hanno così poco a che vedere con Stalin…

So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di commettere degli errori».

NOTE

1Luca Bonalumi, Il prete che mirava in alto, p.10, 2016, Edizioni Gruppo Aeper, Torre de’ Roveri (BG).

2Nelle medesime pagine don Emilio, a proposito della stretta sorveglianza delle autorità di polizia nei confronti di don Antonio, accenna alle vicende del libro di Bonalumi scrivendo:  «[…] al posto di controllo, i gendarmi notano al volante un certo padre
Antonio, da tempo sotto stretta sorveglianza per le tante vicende raccontate in questo libro; Riccardo, un volontario italiano ben
conosciuto per i numerosi progetti in atto insieme a uno sconosciuto».

3Da una delle lettere scritte da Michael al fratello Othwin contenuta sia nel libro di Cagnan che nel documentario «Der Pfad des Kriegers» di Andreas Pichler, 2008.

4Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.21, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

5Avendo avuto esperienza diretta dei trasporti e delle strade boliviane, quella di Nothdurfter non è stata un’iperbole.

6Lettera al fratello Othwin scritta a Cochabamba e datata 31 dicembre 1982.
Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.28, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

7Ibidem.

8s.n., On the top of the world, 14 ottobre 1960, «Manchester evening news».

9Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.42, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

10Ibidem.

11Ibidem.

12Lettera all’amico Ludwig Thalheimer del 6 aprile 1988, citata nel volume di Cagnan.

13Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra, p.80, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

14Cagnan ne elenca sette.

15Nelle sue ultime lettere si definiva “guerriero”.

16«Sento profondamente il silenzio dentro di me, la solitudine imposta dal mio destino [aveva definitivamente rotto con la sua ormai ex fidanzata], questa congiunzione di fattori e circostanze. Mi sono scappate alcune lacrime ma non mi arrendo al mio dolore. Il guerriero non può evitare la sofferenza ma non si lascia mai sopraffare da essa». 18 agosto 1990.

Il destino fantozziano continua a perseguitare la Borgata [ma quanto cuore!]

Ve la ricordate la nuvola di Fantozzi? Prendo in prestito le parole di Villaggio per poter descriverla correttamente: «ogni impiegato ha la sua nuvola personale: sono nuvole maligne che stanno in agguato anche quattordici mesi ma quando vedono che il loro uomo è in ferie o in vacanza gli piombano sulla testa scaricandogli addosso tonnellate di pioggia fitta e gelata».
La prima apparizione del nuvolone dell’impiegato compare proprio nella prima pellicola della saga (Fantozzi) durante la memorabile partita tra “scapoli e ammogliati”.
La stessa nuvola, fatte le debite differenze, piomba sul destino della Borgata ad ogni partita di campionato e ogni volta che le cose sembra che stiano mettendosi non dico bene ma dignitosamente per i nostri.

Al ‘Vittiglio’ arrivano gli undici del Castelverde: primi in classifica con più di sessanta gol fatti e neanche venti subiti, sempre a pieni punti nelle ultime settimane, ultima sconfitta in casa contro il G. Castello l’11 febbraio. 

I primi dieci minuti sono molto duri e il Castelverde prova a mostrarsi subito minaccioso ma il fortino granata regge: al 9′ Capostagno respinge di piede su iniziativa di Silvestri, pochi minuti dopo è ancora il 10 ospite a farsi vedere fortunatamente senza successo. La Borgata prova a reagire ma non riesce a risultare minacciosa per la difesa avversaria. Ci pensa ancora una volta il Castelverde al 22′, su sviluppo di un calcio d’angolo, a far tremare la difesa gordiana: in qualche modo il pallone viene respinto e calciato fuori dall’area piccola. Al minuto successivo la partita viene sbloccata: Campisano salta Piccardi e cavalca verso la fine del campo, tende il cross a cercare Silvestri che, a tu per tu con Capostagno, insacca lo 0-1.

Colpo di reni granata. Dopo il gol subito la Borgata si desta: al 31′ Mascioli (Moreno) calcia una punizione delle sue dalla linea mediana ma finisce fuori di un nonnulla, un minuto dopo Cicolò prende il palo interno a portiere battuto ma la palla non entra e torna tra i piedi di un difensore ospite. 

[Inizia ad addensarsi la nuvola fantozziana, nel frattempo]

Al 34′ la Borgata pareggia con un gol di Mascioli (Francesco) ma, dato l’incedere fantozziano della gara, l’arbitro non concede subito il gol fischiando a causa di un fallo di mano (da parte di un difensore del Castelverde) verificatosi in area. L’esultanza si strozza come i singulti dei bambini a cui il bulletto gli ha tolto dalle mani le goleador alla frutta. Si forma il classico capannello attorno all’arbitro e poi, il signor Lattanzio, dopo un consulto freudiano con se stesso – evidentemente – sebbene accerchiato, concede il gol del pareggio ai granata.

Apriti cielo, squarciati mare.

Il Castelverde protesta vibrantemente (per cosa, poi, non s’è ben capito): il mister entra in campo proferendo, facile da immaginarsi, espressioni ingiuriose. L’arbitro gli mostra il cartellino: rosso diretto.
Neanche dieci minuti dopo Cicolò, lasciato solo, riesce a coordinarsi per il cross a cercare la testa di Di Stefano ma il 7 riesce solo a sfiorare la palla offertagli dal capitano.

La ripresa è la rappresentazione della realtà fantozziana.
Dopo sei minuti, Musci riesce a cogliere una minuscola crepa nella difesa granata e insacca il vantaggio.
Un minuto dopo Marku, che ha macinato decine di chilometri durante la partita, coglie al volo l’imbeccata di Mascioli (Moreno) dalle retrovie: l’11 tenta il tiro, solo davanti al portiere, ma Giatti si tuffa sul pallone e respinge coi piedi. Una roba da film di Steven Seagal, vista da lontano. 

[Secondo temporale del nuvolone]

13′, punizione per gli ospiti, batte Di Giosa. La barriera a due si apre, inaspettatamente, Mascioli (Moreno) viene colpito dal pallone sulla schiena e la sfera compie una traiettoria che spiazza Capostagno.
Autogol. 1-3. 

[Tuoni e fulmini]

Al 16′, finalmente, la Borgata accorcia le distanze: punizione di Mascioli, incornata vincente di Chimeri.

Poi c’è stato tanto cuore granata: un sacrificio mai visto che ha messo a dura prova la prima della classe (se fosse entrato quel pallone di Cultrera per Di Stefano…) ma il risultato è impietoso e condanna ancora la Borgata alla sconfitta. 

Mancano quattro giornate e non tra le più facili: manca la partita contro l’Atletico Monteporzio, contro il Rocca di Papa e contro il G. Castello.

La grinta c’è, il sostegno fuori dal campo anche.
Conquistiamo la salvezza!
[E allontaniamo ‘sta nuvola…]

Il tabellino della ventiseiesima giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone G

BORGATA GORDIANI – CASTELVERDE 2-3

MARCATORI: 23’pt Silvestri (C), 34’pt Mascioli F. (BG), 6’st Musci (C), 13’st aut. Mascioli M. (BG), 16’st Chimeri (BG)

BORGATA GORDIANI: Capostagno, Caporalini, Piccardi (28’st Seydi), Mascioli M. (35’st Cultrera), Chimeri, Colavecchia, Di Stefano, Mascioli F., Cicolò, Pompi, Marku (35’st Proietti). PANCHINA: Pagano, Soru, Ciamarra. ALLENATORE: Fabrizio Amico.

CASTELVERDE: Giatti, Falasca, Ponzo, Campisano, Ansini, Valente, Vommaro, Di Giosa, Musci (20’st Corsetti), Silvestri (30’st Gaglio), Di Cataldo. PANCHINA: De Bernardo, Bruno, Colozzi, Orsini, Ochianu, Massari, Battaglia. ALLENATORE: Damiano Casarola.

ARBITRO: Francesco Lattanzio (Ciampino)

NOTE: ESPULSI: 35’pt mister Lattanzio (C) per proteste, a partita finita espulso Colavecchia (BG). AMMONITI: 35’pt Musci (C), 12’st Mascioli M., 44’pt Di Giosa(C), 4’pt Chimeri (BG), 36’st Valente (C), 41’st Seydi (BG). ANGOLI: Borgata Gordiani 0 – 9 Castelverde. Recupero 4’pt – 4’st.

Stati uniti d’Europa: “matrioska” radicale, libdem e centrista

L’ossessione elettorale radicale per gli Stati Uniti d’Europa.

Nonostante le dichiarazioni incrociate, la lista “Stati Uniti d’Europa” pare ci sia. Senza Carlo Calenda (Azione) ma con Matteo Renzi (Italia Viva), Enzo Maraio (segretario del Partito socialista italiano), Volt (ma ancora non è detta l’ultima parola) e Andrea Marcucci (presidente di LibDem).
«Il nostro progetto è attrattivo», ha dichiarato Matteo Renzi nella giornata di ieri [4 aprile 2024], «Per ogni parlamentare europeo che prendiamo noi, un posto in meno per i candidati Meloni, Salvini, Conte, Schlein». Sul pronome noi c’è da intendersi: probabilmente il segretario di Italia Viva ignora (consapevolmente) il fatto che gli eventuali deputati eletti dalla lista siederanno senza una direzione unitaria e le direzioni in cui si muoverebbero sono già molteplici. Così come lo ignorerebbe anche Emma Bonino: «Ho lanciato la lista per gli Stati uniti d’Europa – ha dichiarato a «SkyTg24» il 3 aprile [2024] perché tenga insieme tutti i gruppi liberali europeisti, federalisti anche per condizionare le prossime scelte del parlamento e delle istituzioni europee». Bonino ha poi concluso: «Calenda ha scelto di tirarsi fuori per motivi che non so e che non mi interessano. Mi pare un grande errore».

A ciascuno il suo (seggio)
Al momento, dato Volt deciderà di partecipare o meno alla lista soltanto sabato 6 aprile, gli eventuali europarlamentari che dovessero risultare eletti a Bruxelles/Strasburgo andrebbero in gruppi diversi e spesso non alleati tra loro, come già accennato.
Il Partito socialista italiano
è fondatore e membro del Partito socialista europeo (Pse/S&D), ovvero il gruppo in cui è presente anche il Partito democratico, organizzazione ormai non amica di Matteo Renzi (e di altri esponenti della lista di scopo).
Italia Viva e la parte radicale di +Europa andrebbero a sedersi tra i banchi di Renew Europe ma Radicali Italiani ha il suo riferimento nell’Alde Party mentre Italia Viva al momento ha un solo eletto (Nicola Danti) vicepresidente del gruppo ma in quota Pde (Partito democratico europeo [1], l’organizzazione nata nel 2004 dalla cooperazione e azione congiunta di Francesco Rutelli e François Bayrou).
Della medesima collocazione di Danti-IV c’è la componente L’italia c’è (autodefinitasi “lista civica nazionale”) ex Italia in comune: la corrente di Pizzarotti aveva anche esplicitato la propria collocazione alla scorsa tornata elettorale europea nel simbolo comune di +Europa.
L’organizzazione di Marcucci (LibDem), infine, ha anch’essa come riferimento l’Alde party, ma tra i fondatori del progetto liberal democratico c’è anche Sandro Gozi, rappresentante del Pde ed eletto in Francia nel 2019 nella lista Renaissance.

Partiti contenitori
Uno schieramento, quello della lista Stati uniti d’Europa, che assomiglia sempre di più alla disposizione in campo della Longobarda allenata da Oronzo Canà (integerrimo sostenitore, nonché inventore, del 5-5-5). Ma la «confusione generale», pure citata da Canà ai giocatori al momento dell’illustrazione del modulo, si potrebbe spiegare andando a chiarire un equivoco di fondo: Emma Bonino, Riccardo Magi, Federico Pizzarotti, Benedetto della Vedova e altri esponenti di primo piano di +Europa non fanno parte di un unico partito quanto, piuttosto, di un progetto comune che unisce realtà ex montiane (della Vedova venne eletto con Scelta Civica e ne fu uno dei maggiori sostenitori), ex grilline (Pizzarotti), liberali e radicali. Stati uniti d’Europa verrebbe ad essere il risultato di un accordo tra organizzazioni a loro volta contenitori di altre realtà più o meno rappresentate a livello nazionale e regionale.
Una matrioska liberal-radicale. Un brodo primordiale che fa invidia solo alla galassia della sinistra radicale, socialista e comunista.
Tanto più che i radicali, a partire dal 2015, sono letteralmente esplosi in varie correnti spesso non alleate tra loro (allora le due macro categorie di collocazione erano Radicali italiani e il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito – Prntt). Il nome stesso della lista è un riferimento ideale oggetto di contese tra le due porzioni più rilevanti del mondo radicale.

«Fantasia e rigore»
Il 24 marzo 1987 il Partito Radicale aveva indetto un convegno a Roma intitolato “Stati uniti d’Europa subito” in cui Marco Pannella dichiarò che l’allora Comunità economica europea avrebbe dovuto avere «un pizzico di follia». Il «Corriere della Sera», nella breve dedicata all’assemblea radicale, aveva raccolto la dichiarazione del fondatore del Pr: «la gente vuole l’Europa subito e occorre rigore e intransigenza per ottenere l’obiettivo». Una volta entrati nel nuovo millennio, fu la volta della rivista «Quaderni radicali» (diretta da Giuseppe Geppi Rippa) a promuovere un numero monografico sul tema, eccezionalmente diffuso in edicola insieme al quotidiano «Il Riformista» (l’allora direttore era Antonio Polito, che si smarcò subito sostenendo che le opinioni espresse dalla rivista non erano le medesime del quotidiano). «Fantasia e rigore sono sinonimi», disse allora Pannella.
La campagna pro Stati uniti europei divampò nelle proposte radicali attraverso la presentazione elettorale di simboli il cui bordo rappresentava la bandiera dei paesi aderenti all’ex Cee. Nel 2009, quando un gruppo di radicali venne eletto nelle fila del Pd alle politiche, i dirigenti della lista “Bonino-Pannella” fecero campagna elettorale con la Stella di David sul bavero della giacca e alle spalle lo slogan “Stati uniti d’Europa subito!“. Gli stessi sentimenti animarono il congresso del 2016 del Pnrtt (tenutosi al carcere di Rebibbia) e anche la querelle che nel 2018 e 2019 divampò a seguito dell’iniziativa degli allora vertici della Lista Pannella, del Prntt e del Psi per l’ipotesi di strutturazione del progetto di lista comune “Stati uniti d’Europa“. In quella fase l’ex tesoriere di Radicali italiani Valerio Federico aveva dichiarato che il progetto della lista era stato evocato «allo scopo di danneggiare Radicali italiani e la lista +Europa». La storia di quella lista fu tormentata (corsi e ricorsi storici?) e qui non la rievocheremo interamente: Maurizio Turco depositò il simbolo al Viminale – come raccontava in quei giorni il docente Gabriele Maestri – ma la cosa non ebbe seguito. Anche se, stando alle rivelazioni del prof. Maestri, la questione non fu indolore:

«[…] quello tra Psi e Lista Marco Pannella non era un semplice rapporto ma un vero e proprio accordo formalizzato in un atto costitutivo di una vera associazione, denominata Stati Uniti d’Europa, volta a “presentare un proprio simbolo e liste di candidati in ogni tipo di elezioni a partire dalle prime elezioni che si terranno dopo la sua costituzione”: l’atto, molto simile nel contenuto a quello che costituì nel 2006 l’associazione La Rosa nel Pugno, è stato rogato da un notaio il 24 ottobre 2018 e lo hanno sottoscritto, oltre a due figure legate alla Lista Pannella, il segretario e il tesoriere del Psi in carica fino al congresso. “Il Partito socialista italiano – ha dichiarato il presidente della Lista Pannella, Maurizio Turco – ha stracciato l’accordo politico (notarile) con la Lista Marco Pannella per la presentazione della lista Stati Uniti d’Europa, accordo che aveva raccolto il 75% dei favori degli iscritti al Psi».

Il battage ideologico continua, la lista verrà presentata ma non dalla medesima parte radicale che ne aveva strutturato l’associazione. E chissà che il simbolo, pur provvisorio, non venga contestato dalla parte del Prntt.

Pubblicato su Atlante Editoriale

«Scusi, lei è un professore?»

Tornare a scuola dopo le vacanze di Pasqua significa che l’anno scolastico è in pieno declivio. Tutti si sono lasciati alle spalle i mesi più duri di gennaio, febbraio e marzo: aprile e maggio indicano che giugno è alle porte. Rien ne va plus.

I più severi diranno che non si tratta di un momento facile: siamo ai proverbiali sgoccioli e gli studenti dovrebbero iniziare a sentire la pressione, il fiato sul collo dei consigli di classe di aprile, dei colloqui pomeridiani con i genitori. Dovrebbero, per l’appunto.
Al tecnico sono perlopiù dediti a indossare magliette a maniche corte dalla discutibile colorazione: è cambiata la stagione e, sebbene abbia ripreso a piovere, non appena la temperatura inizi ad aumentare si diminuiscono gli strati di vestiario e si è pronti per la passerella d’istituto, meglio nota come ricreazione.

Ma in questo periodo c’è anche un altro avvenimento che inizia a palesarsi negli istituti scolastici di ogni ordine e grado: l’avvento dei rappresentanti editoriali.

Sempre più simili ad agenti immobiliari, varcano la porta dell’istituto con una valigia a rotelle come se stessero andando a prendere il treno dalla stazione di Milano Centrale, ma alle loro spalle c’è solo la remota fermata “La Rustica U.I.R.”.
Si dirigono sorridenti al gabbiotto dei bidel…personale Ata chiedendo dove sia ubicata la sala insegnanti: vi si dirigono con passo deciso e prendono possesso dell’unica grande scrivania presente in ogni sala docenti da Luino a Mazara del Vallo (occupata in gran parte da computer fissi, raccoglitori ad anelli con le circolari, fogli con le firme del giorno e stampe di varie comunicazioni sindacali). Posizionano i libri, ancora nel cellofan, come al mercato avrebbero fatto con le cassette dei carciofi: ci sono edizioni più nuove ogni anno che sono migliori di quelle dell’anno scorso e di quelle dell’anno in corso. Gli autori dei libri che propongono sono gli stessi di quelli dell’anno precedente, le parole utilizzate all’interno anche, l’interlinea – perfino – rimane invariata ma «quest’edizione è stata rivisitata e migliorata».
Lo è tutti gli anni e guai a chiedere in cosa lo sia stata: il rappresentante potrebbe prenderti per sfinimento. La loro arma più tremenda è un bloc notes in cui hanno scritto i cognomi degli insegnanti di quella scuola: che siano tre o trecento, loro li conoscono tutti sia di nome sia, talvolta, di persona.

Al cambio dell’ora  si verificano delle scene simili a quelle del Secondo tragico Fantozzi in cui Calboni trascina la signorina Silvani e Fantozzi (per l’appunto) a Courmayeur iniziando a salutare tutti pur non conoscendo nessuno: i rappresentanti delle case editrici più grandi sono l’alias vivente di Calboni.

Tutto questo ad eccezione dei supplenti: i signori nessuno dell’anno scolastico, coloro che anche la burocrazia, spesso, ignora.
Una salvezza, pensi ingenuamente.

Sono le 10:50: è ricreazione. Suona la campanella e tu, mestamente, torni in sala insegnanti, ignaro del fatto che subito dopo la prima ora siano entrati sgattaiolando i rappresentanti e si siano piazzati al centro della scrivania presente nella stanza. Vedi un uomo in giacca e cravatta che sta intrattenendosi con una collega: non hai mai visto quel volto, sarà sicuramente un rappresentante. Vuoi evitarlo per una ragione: vuole convincerti ad adottare nuovi testi per il prossimo anno scolastico. Ma tu l’anno prossimo non ci sarai.
Lui, l’agente immobiliare dell’editoria scolastica, ti incalzerà: «ma lei ha potere decisionale anche sulle adozioni del prossimo anno scolastico, professore! Le consiglio, a tal riguardo…», mentre dice così, di solito, prende dal tavolo un volume dai colori sgargianti e attacca bottone fino a prenderti per lo svenimento, fino a farti strappare un «grazie per questa proposta, ci penserò su».
Fili via dal corridoio in direzione del bar che, finalmente, ha riaperto (una delle gioie dell’anno scolastico).

Prendi tempo con un caffè e chiacchierando del più e del meno con la collega di francese: è ancora lì, lo vedi con la coda dell’occhio, ma per fortuna è sufficientemente distante dalla porta d’ingresso della sala insegnanti.
Decidi di bere l’ultima goccia del caffè ed entrare nella sala insegnanti a testa bassa, brandendo già la chiave dell’armadietto forzato in più parti dal bidel…personale Ata che te lo ha aperto con un arnese metallico l’unico giorno in cui ti sei dimenticato la chiave (generalmente c’è una sola chiave e se un giorno la dimentichi hai la sola chance del piede di porco).
Dai le spalle all’ingresso e guardi la serratura di fronte a te, inserisci la chiave e mentre apri l’armadietto senti dei passi dietro di te, passi di scarpe col tacco, passi di camicia inamidata con le iniziali cucite e cravatte salmonate che manco Gianfranco Fini quando era ministro.
È finita: ti ha trovato.

«Scusi, lei è un professore?»