Davvero non c’è alternativa a Trump-Harris?

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Poco più di due milioni di voti. Due milioni, centocinquantanove mila e quarantanove è la cifra mostrata dall’Associated Press. Si tratta del bottino, se così si può dire, di tutti i third parties americani (terzi partiti) a spoglio ancora non chiuso in vari stati ma a vittoria repubblicana già certificata: avendo ottenuto la maggioranza dei grandi elettori al Congresso e avendo superato la soglia dei 270 necessari, Trump può gioire di fronte ai suoi elettori.

Le cifre racimolate dai terzi partiti statunitensi sembrano essere risibili in confronto allo strapotere espresso dalla diarchia repubblicana-democratica, roba da quinto quarto della politica: basti pensare che Jill Stein, candidata del Partito verde (Green party) e terza assoluta alle spalle di Kamala Harris, si è attestata su un misero 0,4%, pari a poco più di seicentoquaranta mila voti, in netto calo rispetto ai dati delle precedenti elezioni: nel 2016, ad esempio, gli ecologisti riuscivano a raggiungere il milione di voti a livello nazionale. Certo, i verdi riescono a sorpassare il terzo partito più popolare degli Stati uniti d’America, il Partito Libertario (Libertarian party), ma si tratta di una magrissima consolazione, data la percentuale di entrambi che prevede uno 0 prima della virgola.
Sembra essere ancora più lontano il 1996: l’anno in cui venne fondato il Reform Party of the Usa (tradotto, forse un po’ liberamente, Partito dei Riformatori degli Stati Uniti d’America) che raggiunse l’8,40% alle Presidenziali di quell’anno, che ebbe tra le proprie linee anche Donald Trump per un breve periodo di tempo, che nel 1998 riuscì a strappare il governo del Minnesota al blocco repubblicano-democratico e che nel giro di pochissimo tempo implose sotto il peso di scandali e mala gestione all’interno della stessa organizzazione politica.

Stavolta è andata nettamente male a tutti i terzi partiti, perfino ai libertari che pure nel 2016 erano riusciti a strappare più di quattro milioni di voti (3,28%) a livello nazionale e ad ottenere cifre ragguardevoli perlomeno in New Mexico e South Dakota (sfiorando la doppia cifra, il 10%, nel primo stato e attestandosi sul 6% nel secondo). La lunga crisi del Partito libertario si è mostrata drasticamente a seguito dei risultati elettorali: affidatisi alla candidatura di Chase Oliver, pur se a seguito di sette votazioni nella convention preposta, i libertari non hanno avuto la capacità di attestarsi come nuova forza che sosteneva di avere con sé una «nuova classe dirigente per gli Stati Uniti d’America». «Oltre 40 milioni di elettori della Gen Z sono pronti ad ascoltare un messaggio che non provenga dal sistema bipartitico», aveva dichiarato Oliver alla National public radio.

Ma, anche se pochi, i voti dei terzi partiti fanno gola ai grandi, per quella legge non scritta che tanto più si ha, quanto più si vorrebbe avere. Il 25 maggio [2024] Trump, facendo seguito alla legge di cui sopra, ha tenuto un discorso all’assemblea nazionale libertaria mantenendo lo ‘stile’ che lo contraddistingue, dichiarando: «Vincerete solo se sosterrete la mia campagna, altrimenti potete continuare a ottenere il vostro 3% ogni quattro anni». Pur se tra i fischi del pubblico, come ha testimoniato un articolo pubblicato nel maggio di quest’anno dalla National public radio, Trump ha fatto il suo show in casa libertaria continuando a spaccare le fazioni interne del partito, promettendo un libertario tra i ruoli di comando della nuova presidenza repubblicana. Così facendo, il partito non ha neanche lontanamente raggiunto il vituperato, da parte trumpiana, 3%.

Non solo i repubblicani hanno volutamente tarpato le ali ad ogni iniziativa che vedesse un’autonomia di organizzazione al di fuori della campagna pro-Trump, è stato così anche in casa democratica. A fine agosto l’iniziativa giudiziaria dei democratici di ricorso alla presenza di chi avrebbe potuto offuscare anche solo lontanamente l’immagine di Harris, ha avuto i suoi frutti: Cornel West (indipendente di sinistra) e Claudia de La Cruz (Socialismo e liberazione – PslParty for socialism and liberation) non hanno potuto partecipare con il proprio simbolo e hanno dovuto ricorrere al write-in nella campagna elettorale – ad esempio – nello stato della Georgia. La stessa candidata socialista, de La Cruz, rappresentava la forza politica che in agosto, a Detroit (Michigan), aveva interrotto con slogan pro Palestina l’evento di Kamala Harris che reagì stizzita: «Ogni opinione conta: amiamo la democrazia, ma ora sto parlando io! Se volete che Donald Trump vinca, ditelo [chiaramente]». Da quel momento in poi la strada del Psl per l’accesso al voto in determinati stati è stata completamente in salita. La candidatura dell’ambientalista Jill Stein, che – a tal proposito – ha indossato la kefiah per tutta la campagna elettorale, è stata il refugium peccatorum anche della variegata galassia della sinistra trotskysta statunitense, assente perfino in termini di write-in candidate. Ma tutto l’appoggio ricevuto non è servito a far raggiungere cifre migliori alla candidata Stein.

Cos’è il write-in?
Se un partito o movimento non è riuscito ad esser presente sulla scheda col proprio simbolo, sia per ragioni amministrativo-giudiziarie che per altre più prettamente politiche, il sistema elettorale statunitense prevede che l’elettore possa scrivere il nome del candidato che intende votare nello spazio preposto della scheda. Una possibilità non da poco, se ci fosse stata pari risonanza mediatica per ognuno dei candidati presidenti. Di fatto, a tutti gli altri candidati progressisti o indipendenti presenti in dieci o meno stati, il write-in non è servito a molto: non è stata solo la sinistra radicale ad essere stata esclusa (Socialist equality party, Socialist workers party, American solidarity party) ma anche gli ultra conservatori del Constitution party e del Prohibition party. Se i libertari hanno avuto accesso elettorale in 47 stati su 50 e i verdi in 38, pur essendo entrambi matematicamente già tagliati fuori dalla corsa presidenziale per ovvie ragioni matematiche, tutti gli altri candidati, nonostante il write-in, sono stati ben lungi dall’avere un minimo riconoscimento da parte dell’elettorato, avendo raccolto nel loro complesso, sommando tutte le candidature, lo 0,3% a livello nazionale.

Forse è una battaglia donchisciottesca, quella dei terzi partiti, ma tanto più vitale affinché il pluralismo americano non soccomba sotto i colpi della propaganda politica e del capitale a disposizione dei grandi gruppi finanziari, nonché dei miliardari che sostengono i due blocchi principali. Elon Musk, ad esempio, nell’ultima fase della campagna elettorale ha promesso (e realizzato) che avrebbe regalato 1 milione di dollari al giorno, fino al giorno delle elezioni, per coloro che «avrebbero firmato la petizione del suo Comitato di azione politica» riguardo modifiche costituzionali. Modifiche che si rivolgevano al secondo emendamento, ovvero alla libertà di detenzione di armi da fuoco. Eppure, nonostante alcuni autorevoli pareri raccolti dall’Associated Press in queste settimane abbiano parlato di iniziativa fuorilegge o ai limiti della legalità, Elon Musk ha potuto agire indisturbato grazie anche alla sua enorme influenza nel dibattito politico.

La polarizzazione dello scontro, in una campagna elettorale che ha lasciato ben poco spazio a qualsiasi candidato che non fosse Harris o Trump e i loro rispettivi insulti, promesse altisonanti, dichiarazioni sulla necessità estrema di votare per l’uno o per l’altro candidato senza disperdere il voto, ha rappresentato così la sublimazione del ‘fine utile’ del proprio diritto-dovere.

Nonostante le piazze dei sostenitori pro Palestina, in sostegno alle lotte dei lavoratori aeroportuali (vicenda Boeing) e in sostegno alle istanze ecologiste siano state sempre più partecipate dalla società civile americana nell’ultimo lustro, nonché talvolta guidate in grandi città proprio da uno di questi terzi partiti menzionati (Green party e Psl su tutti), la grande domanda di alternativa non ha trovato (né trova da decenni nella granulosità politica e sociale statunitense) una via di rappresentanza che possa trasformarsi anche in consenso elettorale.

E anche stavolta il copione elettorale è parso essere il medesimo di sempre.

Pubblicato su Atlante Editoriale atlanteditoriale.com

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