All’inizio c’erano le maestre dell’asilo che si facevano chiamare rigorosamente per nome, posto immediatamente dopo la qualifica: maestra Daniela, maestra Silvia, maestra Chiara e via dicendo. Gli si dava del tu quasi per legge: quel posto doveva essere l’estensione di un luogo familiare che avevi lasciato sul letto di casa poche ore prima.
«Scusa, maestra posso andare a bere?», e lei con un cenno della testa ti diceva che si, potevi andare, l’importante era utilizzare il tuo asciugamani con le iniziali cucite da tua madre ad hoc per evitare che il tuo andasse troppo in giro o che, peggio ancora, venisse scambiato con quello di altri.
Maestra era anche il modo con cui ci rivolgevamo alle elementari ma, già verso la quinta, si iniziava a dare del lei perché alle medie non c’erano più loro ma le professoresse. Il ruolo era lo stesso ma la figura si discostava leggermente: si faceva più imponente e più autoritaria. Quel lei conferiva distanza e vicinanza: la prima era tutta a vantaggio di chi stava «dall’altra parte della barricata», la seconda era – paradossalmente – a vantaggio del discente che iniziava a prendere le misure con il mondo oltre la maestra.
La professoressa era una sorta di übermaestra: sapeva tutto di te anche se non ti aveva mai visto e si sforzava a dirti che dovevi rivolgerti a lei con la terza singolare e con il verbo coniugato al congiuntivo. Se coniugavi male o pronunciavi un fantozziano vadi o facci ti toccava la flessione del verbo.
Inflessibile: appena sentiva un tu, diceva: «scusa, come?!».
Meravigliosa era la professoressa Fosca che, appena sentiva uno studente della classe dire «dai» rivolgendosi a lei, scattava incalzandoti: «dai?!? DAI?!?». Il più creativo era chi rispondeva: «DIA, DIA!» oppure c’era chi si sentiva già in odor di medioevo rispondendo: «Scusi, scusi: suvvia!»
Capitava, però, che nella foga del voler rispondere, in quel frangente simile alla lotta fra oppressi chiamata “interrogazione dal posto”, il termine professoressa si abbreviasse in «pessoré!»: tutte le altre sillabe, evidentemente inutili, erano state sacrificate per poter estendere verso l’alto il braccio destro o sinistro con l’indice ben visibile. Più lo si alzava, più si era sicuri della risposta che si dava.
Capitava, però, che l’abbreviazione da pié-veloce (pessoré!) venisse attribuita anche agli unici due professori maschi del consiglio di classe: don Angel e Pernaselci di musica. Un’anomalia bella e buona. In quel caso l’accento sulla e finale non rappresentava l’invocazione al genere femminile dell’insegnante: jamais!
Era piuttosto un rafforzativo del professore in sé: come se l’espressione fosse “OH, PROFESSOREE”. Con quella immaginaria doppia e che evidentemente andava a caratterizzare l’interlocutore uomo con cui si voleva intrattenere una conversazione, pur limitata in ambito scolastico.
Con le superiori si dichiarava finita l’esperienza del pessoré: quel termine veniva abbandonato alla chiusura dei cancelli delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Varcare le porte del liceo significava abbracciare l’idea che la professoressa (donna) poteva anche essere un professore (uomo): non più un’anomalia. Allora il termine si abbreviava naturalmente in «prof». L’abbreviazione era una vera e propria ancora di salvezza: veniva accettata dall’insegnante, uomo o donna che fosse, ed era tanto sbrigativo quanto professionale: «hai sentito il prof. di greco?». Improvvisamente diventavamo tutti grandissimi perché utilizzavamo le abbreviazioni.
E così è stato anche nei primi anni di servizio dall’altra parte della barricata: «buongiorno prof», «salve prof», «ciao prof». Talvolta i più audaci ti chiamavano «professò», riprendendo l’abbreviazione che fu tipica del genere femminile riservata alla parte docente delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Qualche ragazzo di qualche scuola di periferia osa, ma solo verso la fine dell’anno e solo se c’è stato un buon rapporto, con un «ciao professò» mentre si accinge ad entrare in aula con lo zaino su entrambe le spalle, strascicando le suole delle scarpe grosse come carri armati (ma rigorosamente alla moda).
Qui a Bergamo è diverso. Non c’è il prof ma il profe. Con la o chiusa. Ed è una abbreviazione che calza a pennello sia in caso di insegnante uomo, sia in caso di insegnante donna. «Profe, buongiorno!», ti dicono. Lo scrivono anche nei messaggi di posta elettronica. Ma è una cosa che vale solo a Bergamo: in nessuna altra zona della Lombardia c’è il profe: è tipicamente bergamasco.
È strana, neh, una sorta di unicum delle valli bergamasche nel rapportarsi con l’insegnante.
Strana… Ma, proprio perché è così, è anche molto tenera.
Un articolo chei ha fatto ricordare come l’esperienza scolastica si è giocata tanto sul modo di salutare l’insegnante di classe. Non ricordo più come li chiamavo…ma sicuramente i loro vinti no!