«Soy América Latina / un pueblo sin piernas pero que camìna»
Atterriamo all’aeroporto internazionale più alto del mondo che è mattina. Abbiamo viaggiato tutta la notte da Madrid a Santa Cruz andando incontro ai fusi orari e inseguendo l’interminabile notte all’interno dell’apparecchio. Poi l’ultimo volo: un messaggio sul telefono ci informa del fatto che la compagnia aerea (Amaszonas) di cui avevamo acquistato il biglietto per il volo interno, è inabilitata ad effettuare voli, dunque veniamo spostati su un volo della Boliviana de Aviaciòn (Boa). L’aereo è vecchio, la plastica al suo interno traballa: le montagne che si vedevano in lontananza dall’aeroporto Viru Viru di Santa Cruz iniziano a farsi tremendamente e maestosamente minacciose man mano che ci avviciniamo a El Alto. Scendo dall’aereo e mi sento leggero e pesante allo stesso tempo: sono gli scherzi dell’altitudine che vanno via solamente col primo matecito de coca (mate di foglie di coca).
Siamo al piano terra dell’aeroporto: c’è una grande sala con una vetrata enorme da cui si riesce a vedere la presenza imponente dell’Illimani e delle altre altissime vette boliviane. Dobbiamo aspettare Riccardo Giavarini, anzi, don Riccardo Giavarini, dunque ci sediamo e aspettiamo anche e soprattutto per far riposare la testa dall’altitudine.
Riccardo arriva, ci fa salire sul suo pick-up Ford e iniziamo a immetterci nelle strade di El Alto. C’è subito un gran traffico: le macchine che stanno a fianco a noi sono completamente immobili, si procede a passo d’uomo: c’è un odore fortissimo di gas di scarico. Mi fa malissimo la testa ma provo a rimanere concentrato e a tenere gli occhi aperti, mantenendomi vigile nella conversazione che abbiamo iniziato per conoscerci vicendevolmente.
«Dev’essere successo qualcosa: è impossibile che ci sia tutto questo traffico», Riccardo è sconsolato, allarga le braccia, immagina che ce ne sarà ancora per molto. Mentre guardo fuori dal finestrino vedo degli edifici che cozzano l’uno contro l’altro in termini di realizzazione architettonica – o perché decisamente opposti o perché ancora non terminati – osservo un fiume di gente che cammina sul marciapiede: sono ragazze e ragazzi universitari, studentesse e studenti delle scuole medie/superiori in divisa, persone normali, lavoratori. C’è anche chi cammina tra le colonne delle macchine in fila: alcuni per cercare di intercettare un minibus, altri perché vogliono venderti qualcosa. Una signora in particolare sta vendendo, per un boliviano o due, dei dolci fatti da lei e posti in un bicchiere: sembra che siano composti da uno sciroppo sul fondo del bicchiere di plastica e sopra abbiano una sorta di panna o composizione simile a una meringa. Un camionista la ferma con la mano e le porge un paio di monete: avviene lo scambio e lui, felice, si inizia a gustare il suo dolce.
Io e Maria, notando la compravendita, rimaniamo un po’ interdetti (come per varie altre cose che non staremo qui a scrivere, altrimenti non basterebbe tutto questo numero de «L’Incontro»), Riccardo ci tranquillizza subito: «Sì, sapete, qui se c’è traffico ci si può organizzare anche così: ci si ferma, si mangia una cosa in macchina per ingannare il tempo, poi si riparte. Mi piacciono quei dolci che ha preparato quella signora, solo che non ve li consiglio: non vorrei che iniziaste a star male da subito», ride mentre ci parla. Il problema è l’acqua che scorre dai rubinetti di El Alto e La Paz: se il dolce (o una qualsiasi altra pietanza) è preparata con quell’acqua, meglio diffidare. L’inquinamento delle falde è elevatissimo e gli stomaci occidentali stanno subito male e per giorni (avremmo poi sperimentato anche quello, ma adesso siamo ancora in coda tra i gas di scarico e le cholitas che vendono dolci e gelatine tra le auto). Anche le gelatine sono tra i dolci preferiti dei boliviani, soprattutto dei ragazzi ma anche lì vale la regola dell’acqua.
Il nodo del traffico si scioglie e percorriamo vari chilometri: «Scusate, mi sono dimenticato di dirvi che devo incontrare una persona con cui avevo appuntamento: dobbiamo aspettarla un momento». Aorita, adesso adesso, mo’ mo’, insomma: un lasso di tempo piuttosto breve, si potrebbe immaginare. E invece no. Aorita significa adesso sia in senso letterale che metaforico: il più delle volte nella sua seconda accezione. Siamo un passo prima del casello dell’autopista (superstrada/autostrada) che collega El Alto a La Paz e viceversa. Fermiamo la macchina in un’area semi sterrata prima di immetterci nella superstrada e vediamo uno sciame di persone e animali (i cani randagi o abbandonati sono tantissimi a El Alto e La Paz) che apparentemente disordinatamente percorrono le vie laterali rispetto alla superstrada. Un ragazzo cammina e urla che è vicino il regno dei cieli. «Si cammina moltissimo qui, neh: vedrete un sacco di gente che cammina. Non tutti hanno la macchina, né la possibilità di acquistarne una usata o rimetterne a posto una. Si cammina per arrivare al teleferico, per prendere un minibus, per arrivare da tutte le parti: i mezzi pubblici non sono così diffusi, specie a El Alto». Mi torna subito in mente la canzone con cui ho aperto questo breve scritto: Latinoamerica di Calle13. Un pueblo sin piernas pero que camina: un popolo senza gambe ma che cammina. O che ha imparato a farlo: scossone dopo scossone, caduta dopo caduta, rivoluzione dopo reazione e via dicendo.
Nel 1980 un giornalista del «Manchester evening news» ha scritto un reportage in cui ha riportato un concetto abbastanza significativo per la storia contemporanea di questo paese: «In Bolivia le rivoluzioni sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179 negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre presidenti in uno stesso giorno». [1]
Avremmo scoperto nel corso dei giorni boliviani quanto fosse importante il cammino, anche quando Riccardo ci avrebbe proposto di venirci «a prendere al teleferico morado (viola)» che ha il capolinea a El Alto: da lì in poi i mezzi pubblici non passano e ci sono persone che continuamente vanno e vengono alla ricerca di un minibus o – arresi – si dirigono a piedi. Un passaggio lo avrebbero trovato sicuramente da una macchina che sarebbe passata di lì. Come hanno fatto le signore che stavano aspettando che si muovesse una macchina dal carcere di Qalauma a cui poter chiedere un passaggio, mentre si erano già incamminate nel brullo e piatto territorio dell’altipiano. È quello che è successo con noi: Riccardo muove il pick-up dirigendo il mezzo verso la superstrada Viacha-El Alto e subito delle signore alzano le braccia chiedendo un passaggio. Impolverate dalla testa ai piedi (le strade asfaltate o pavimentate sono pochissime) salgono sul cassone del pick-up.
«Anche a la carcel de Chonchocoro succede lo stesso», ci dice Riccardo. «Ogni carcere è lontanissimo dal centro abitato, specialmente quello di massima sicurezza di Chonchocoro, e chi vuole visitare i detenuti può farlo prendendo certamente un passaggio da un minibus o da un pullman che si ferma nei dintorni: bueno, l’andata è assicurata ma il ritorno…», allarga la mano destra aprendo un palmo verso l’alto effettuando un movimento circolare con il polso. Come a dire: non passa proprio niente. E allora si va a piedi, senza porsi troppe domande, rassegnati ma anche affidati, nonostante il sole che brucia la pelle, nonostante le distanze siderali di una città che ha avuto uno sviluppo caotico e diseguale, nonostante l’estrema povertà in cui versa questa porzione di America Latina a causa delle vessazioni del primo mondo.
Da occidentali dobbiamo imparare da quel loro passo a camminare, ad affidarsi nel chiedere un passaggio, ad andare avanti nonostante la retromarcia. Imparare a camminare non in senso letterale, non a porre un piede davanti all’altro, ma a «camminare domandando», come scriveva il SubComandante Marcos descrivendo l’esperimento del Chiapas: andando a porci nell’ottica di interiorizzazione dell’espressione che è utile per porre in discussione le proprie granitiche certezze e andare costantemente alla ricerca di qualcosa di più.
Camminare domandando in ogni caso, sia in avanti che in retromarcia, a passo d’uomo, cercando un percorso per arrivare alla propria meta, come abbiamo visto fare in Bolivia.
Come stiamo cercando di fare io e Maria, metaforicamente e non.
(*) Il titolo è un esplicito omaggio al volume di Massimo Zamboni In Mongolia, in retromarcia, 2009, Nda Press.
NOTE:
[1] s.n., On the top of the world, 14 ottobre 1960, «Manchester evening news».
Articolo pubblicato su L’incontro, rivista delle Edizioni Gruppo Aeper di Torre de’ Roveri (BG).