Ieri ho avuto uno scambio con un interlocutore – collega, si direbbe – della secondaria di primo grado. Mi chiede perché non mi avessero ancora chiamato per un incarico, perché il mio nome, dunque, non sia stato riportato nei primi due bollettini di convocazione pubblicati dall’Ufficio scolastico regionale. Gli spiego che mi hanno saltato in una classe di concorso – di nuovo, come lo scorso anno – ma che stavolta ho presentato reclamo e ho contattato il sindacato, così da capire come muovermi.
«Ma per le scuole medie, invece, perché non ti hanno chiamato?», dice guardando da un’altra parte. «No», rispondo con un sospiro (già sapevo dove si voleva andare a parare), «non le ho proprio inserite le medie nelle Gps».
L’interlocutore allarga le braccia come in segno di resa: «Eeh ma allora non è che vuoi proprio lavorare, eh».
«Non ho capito», rispondo basito.
«Ma, almeno le medie, mettile!» a questo punto viene interrotto dall’altro interlocutore che dice, serenamente, ma col tatto di una scavatrice a otto benne: «è che non ha famiglia, può anche non lavorare». Paternamente, il secondo prosegue: «è che si entra più tardi di ruolo alle superiori: io sto ancora su sostegno, ma sono di ruolo e non mi caccia nessuno, poi al massimo farò il passaggio su altra classe di concorso». Iniziava a sibilare nelle mie orecchie una voce familiare che diceva “amico caro..”.
Il primo interlocutore continua: «ma con le medie lavori subito, se non le metti nemmeno significa che non ti interessa di lavorare».
«No guarda – provo a ribattere – il problema è un altro: non mi sento in grado di lavorare con i ragazzi delle medie: ho bisogno di altro, dico sul serio, farei solo danni alla secondaria di primo grado».
«Ma che danni e danni! Ma tu co le medie devi aprì il libro e dì “dai, ragazzi, aprite il libro a pagina 7 e leggiamo”, così devi fa!», come a voler sottintendere: “Li fai sta zitti un’ora, te passa la giornata e c’hai lo stipendio”. Se ne va voltandomi le spalle con aria di sufficienza perché “non ho famiglia” e dunque “non ho esigenza di lavorare”.
Si potrebbe aprire un lunghissimo – e forse noiosissimo – dibattito sull’affermazione per cui se una persona non tiene famiglia, non abbia reale esigenza di lavorare, dunque non ha quella voglia di “sgomitare” che sarebbe il contemporaneo istinto di sopravvivenza proprio delle metropoli del XXI secolo. Se una persona convive, non ha impellenze per i figli: fa quel che vuole con serafica calma, aspettando il posto giusto e il cadavere del nemico sul letto del torrente. Evidentemente non è così, ma loro non sanno dei dottorati tentati in circa quattro anni, tutti respinti o con motivazioni futili, o per un punto in meno o perché “dia retta a me, non è il suo turno”, oppure “lei vuole creare dibattito nella società scientifica: aspetti di avere una quarantina d’anni per questo”. E varie altre porte in faccia di cui ancora ho il solco sulla fronte (sul naso no, data la dimensione).
Ma basta con le doglianze. Andiamo al punto vero.
Lo strumento di trasmissione del sapere con cui il collega in materia scientifica, di ruolo presso un noto istituto comprensivo romano, imposta il lavoro, segue una teoria scientifica codificata dal già senatore Antonio Razzi: «fatt li cazz tuoi» (andando a chiudere il cerchio della frase che iniziava a ronzarmi in testa “amico caaaro…”). “Prendi il posto e fingiti morto” o – alla meglio – fai passare la giornata e tutto passa, alternativa statale a “prendi i soldi e scappa”: nessuno guarderà il tuo operato, nessuno ti giudicherà per quello, l’importante è che tu sia ineccepibile da un punto di vista formale. Mentre la conversazione volgeva al termine, il pensiero correva subito alle pagine di Fiori italiani e al suo incipit: «Che cos’è un’educazione?».
«Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori”, disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”». [p. 47]
La mente corre ai professori che ha avuto S., protagonista del romanzo, nel corso del suo percorso, dalle elementari alle superiori, nonché al sistema scolastico dell’epoca fascista in generale, plasmato dal regime con dovizia di particolari ideologici ma che alla sostanza e alla “fioritura” non badava affatto.
«Per gli Agonali, che parevano allora aspetti concreti della vita come
gli Stivali, tutti gli alunni di una determinata città, in gara tra
loro, svolgevano per iscritto temi di interesse pubblico del tipo :
“L’Italia ha finalmente il suo Impero” (dove ci sarebbero da discutere
tre idee principali: “ha”, “finalmente” e “suo”) con la solita tecnica
di identificare le risposte alle domande in esse implicite: Chi ha
finalmente l’Impero? (L’Italia.) Che cos’ha finalmente l’Italia?
(L’Impero.) Di chi è ciò che l’Italia finalmente ha? (Suo.)» [p. 112-113]
«Si soffriva per la mancanza di idee e di convinzioni, non già per il tentativo di indottrinarci. I pochi che ci provavano facevano ridere, mentre la mancanza di idee non era ridicola, era tragica». [p. 137]
E se Meneghello si chiedeva [p. 67]:
«Ci saranno pur stati maestri e genitori che avevano delle riserve [sul tipo di messaggi e contenuti veicolati dai libri di testo del regime fascista, ma dov’erano? Il bambino è padre dell’uomo: ma chi è il padre del bambino?».
Nel caso specifico del colloquio avvenuto, il padre del bambino non c’è: s’è acclimatato al “si fa così” e alla sopravvivenza del mondo spietato di questa contemporaneità. L’interesse non è il vivaio quanto piuttosto il mantenimento di un’unica pianta: la propria. La speranza risiederebbe nella fioritura del “bambino-padre-dell’uomo” sperando che incontri insegnanti disposti a mettergli un po’ d’acqua nel vaso di tanto in tanto. Perché non importa cosa si fa in classe, l’importante è stare – per loro -. Che si producano danni irreparabili al termine di quel percorso di studi, non è un problema che li riguardi, dopo una certa data. Sarà questione che si affronterà al liceo: “ma tanto io insegno alle medie”.
Lo spirito erinnico di Razzi continua a volteggiare.
Così, mi è tornata in mente una supplenza – breve, per fortuna – prima dell’incarico annuale che ho svolto un paio d’anni fa in una scuola bene del centro di Roma: vedevo il Tevere a un passo, di fronte a me grandi vie a due corsie portavano il flusso di automobili alla tangenziale o dentro l’intestino della città. Il mio io periferico era curioso di entrare in contatto con quel mondo, distante da Torre Maura poco più di una ventina di chilometri ma sideralmente lontano da svariati punti di vista. Entro in una classe e dico loro di togliere i telefoni e di poggiarli sulla cattedra, come faccio di solito. Lamenti, frasi sprezzanti dette sottovoce “ma io mica so se è legale, sta cosa, mo me nformo”, contrarietà plurime: «E ‘r suo ndo sta prof?!», chiede una ragazza vestita di rosa dalla testa ai piedi. Mentre me lo chiede lo sfilo dalla tasca e lo rivolgo a “schermo in giù” sulla cattedra: tutti i dispositivi sono lì. Dopo quattro secondi netti i ragazzi cercano distrazioni: c’è chi inizia a contare le penne, chi smania sulla sedia, chi rivolge lo sguardo da una parte all’altra facendo impazzire le pupille, una ragazza in particolare inizia a disegnare su un foglio ma poi inizia a pigiarci sopra le dita. Mi avvicino: aveva disegnato lo schermo di uno smartphone con tanto di applicazioni. (*)
Il fiore va annaffiato, ma esistono i fiorai in grado di potare, anziché recidere?
(*) Non mi soffermo in giudizi o critica nei confronti del piano di digitalizzazione e “nuova didattica” (im)posto dal Governo dal momento che credo traspaia evidentemente come sia molto critico nei confronti di un provvedimento abominevole.