Ci sono libri che bisogna leggere in un determinato momento della propria vita. Parlo di quelli che compri all’età sbagliata: ne leggi venti pagine e ti annoiano perché chissà che idea avevi elaborato a riguardo e poi, man mano che ti addentri nella lettura, scopri che dicono tutt’altro rispetto a quanto avevi immaginato. Poi li posi sullo scaffale e chissà perché l’occhio ogni tanto ti ci cade nuovamente. Cominci a leggerlo e subito il tuo cervello si fionda nella Russia zarista di metà ‘800, quella che vorrebbe occidentaleggiare ma che poi non riesce a elaborare un sistema alternativo a quello vigente; nella Russia di campagna, diversissima da quella di città; nei villaggi in cui i rapporti familiari sono impostati ancora “alla vecchia maniera”. In una realtà così diversa eppure così simile a quella attuale in cui qualcosa vorrebbe nascere – ma senza sapere realmente come e quando, avendo solo l’urgenza dalla propria parte – mentre dall’altra l’unica soluzione proposta è lo status quo. Accettato, più o meno passivamente, dalla gran parte della popolazione.
Il libro di Turgenev è un piccolo regalo dell’intelligenza umana. Non è Dostoevskij, non è Gogol’, non è Tolstoj, ma Bazarov e Arkadij sanno intrattenere un dialogo col lettore: ché è pur vero che ‘l’uomo è sempre l’uomo’, in ogni sua epoca e momento storico.
“Padri e figli” di Ivan Turgenev [210 pp.] è uno di quei romanzi che a buona ragione possiamo inserire tra i classici della letteratura russa (e anche europea). Se è vero il detto popolare per cui “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, “Padri e figli” rientra perfettamente in questa categoria. Le ragioni sarebbero molteplici, così come i bandoli della proverbiale matassa da sciogliere sarebbero molti: qui ci limiteremo a citare alcuni spunti che fanno del romanzo di Turgenev una lettura quanto mai attuale.
L’autore nasce e muore nell’‘800: viene al mondo nel 1818 in un piccolo villaggio (Mcensk) nell’oblast di Orel, si trasferirà a Mosca dove vivrà gran parte della sua vita ma morirà sessantacinque anni più tardi lontano dal suo paese, a Bougival (presso Parigi). Basterebbe snocciolare questi pochissimi dati per provare a inquadrare il romanzo più celebre di Ivan Sergeevič Turgenev. L’Europa, l’occidente di quegli anni (e di tutto il secolo) viaggiava su un binario parallelo rispetto a quello della Russia: due percorsi destinati ad incrociarsi solo allo scoppio del primo conflitto mondiale e all’inizio della Rivoluzione d’Ottobre, quando tutto l’impianto degli Stati e degli imperi centrali andrà a rotoli.
Quella volta davvero.
Il mondo descritto da Turgenev, però, è ancora un passo indietro rispetto a tutto quello che accadrà. Certo: imperversa il romanticismo, gli slanci ideali di singoli individui esaltati dalla letteratura mitteleuropea; iniziano a venir diffuse e discusse le dottrine filosofiche di Hegel, Schelling, Fichte, Feurebach, Marx; comincia ad essere sussurrata una parola “rivoluzione” prima da poche e poi da molteplici labbra. È il 1848 e il mondo occidentale sembra andare davvero a rotoli per un qualche tempo. Non sarà davvero una rivoluzione quella che investirà gran parte del continente europeo, ma il focolaio della rivolta è stato acceso e basta soffiare con un bel colpo di mantice per fargli riprendere vigore. Rivolta, tra tutti i termini che potrebbero indicare tumulti non sfociati nell’atto rivoluzionario così com’è conosciuto dalle vicende della storia degli uomini, è forse quello più adatto per indicare quel che accade nel ‘48.
La storia di Turgenev è quella della campagna russa e delle città che stanno sorgendo, vogliose e desiderose di modernità occidentale ma ancora profondamente legate a quel che è la cultura zarista e nobiliare.
Il mondo borghese emergente si scontra con i ceti sociali che hanno vissuto ascesa e modificazioni (nonché mortificazioni) del potere zarista: le famiglie, nonché i personaggi secondari presi in esame, ne sono chiaramente un esempio. I due protagonisti, Bazarov e Arkadij sono due giovani diversissimi: il primo viene descritto come il rappresentante della nuova cultura emergente, intriso di materialismo e di positivismo, si definisce “nichilista”, ed è la prima volta che questo termine viene utilizzato nella storia della letteratura; il secondo è il neolaureato figlio della famiglia Kirsanov, nucleo sistematosi nel villaggio di Mar’no nell’Oblast di Volgoda. Turgenev smania dal chiarire subito chi e cosa sia un nichilista: neanche una manciata di capitoli, poche decine di pagine ed ecco che l’autore mette subito in luce quell’insieme di inclinazioni e sentimenti racchiusi tutti nel riottoso (definirlo proto-rivoluzionario forse non sarebbe neanche troppo corretto), materialista, positivista, laico, anticlericale e libertario Evgenij Bazarov:
«Il nichilista è un uomo che non s’inchina dinanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato». La famiglia di Arkadij inorridisce, specie lo zio Pavel:
«Prima c’erano gli hegeliani, ora ci sono i nichilisti. Vedremo come farete ad esistere nel vuoto, nello spazio senz’aria»,
ma anche la critica spietata arriva non prima d’aver invitato il fratello (padre di Arkasa, diminutivo di Arkadij) a chiamare la domestica col campanello perché «è tempo ch’io beva il mio cacao».
Turgenev farà dire ancor di più a Bazarov:
«Agiamo [i nichilisti] in forza di ciò che riconosciamo utile. Nell’epoca attuale la cosa più utile è la negazione: e noi neghiamo».
Se il lettore di questa recensione sentirà riecheggiare i versi di Montale di “Non chiederci la parola”, non sta andando troppo lontano.
«Prima toccava ai giovani di studiare; non volevano passare da ignoranti e così faticavano, controvoglia. Mentre ora basta che dicano: “tutto al mondo è una sciocchezza!” e sono a posto. I giovani si sono rallegrati. E realmente, prima erano semplicemente cretini, ora sono diventati a un tratto nichilisti».
Lo scontro tra il borghese che vuole a tutti i costi mostrarsi occidentalista, parlando francese (spesso non propriamente corretto), che paga contadini e lavoranti rivendicando la sua azione come la più democratica che possa esistere al mondo, è quel che ora chiaramente, ora carsicamente, emerge in “Padri e figli”. Una Russia che vuole scrollarsi di dosso l’anticaglia di tutto quel che era il protocollo nobiliare, il riconoscimento del titolo ma al contempo consapevole che al di fuori dello Zar non ci sia molto altro se non il caos e la sconsideratezza.
I princìpi della Russia zarista, ad ogni modo, vengono distrutti tutti da Bazarov che, vuoi o non vuoi, frequenta la vicina città insieme ad Arkadij (celata per tutto il romanzo) e insieme entrano a contatto con la loro classe d’origine, sebbene tra la nobiltà della ‘Russia profonda’ e l’alta borghesia/nobiltà cittadina vi sia un abisso. E i protagonisti non tardano ad accorgersene: una classe filo occidentale ma ossequiosa del modo di vivere alla maniera dei padri. Il tratto tanto duro quanto ambiguo Turgenev lo affiderà nella descrizione della genitrice di Bazarov:
«Arina Vlas’evna era un’autentica piccola nobile russa del buon tempo antico […] molto religiosa e sensibile, credeva in ogni sorta d’indizi, profezie, stregonerie, sogni […]; credeva che il diavolo amasse stare dove c’è l’acqua e che ogni giudeo avesse sul petto una massa sanguigna […] non mangiava le angurie perché un cocomero sgozzato ricorda la testa di San Giovanni Battista […] Sapeva che al mondo ci sono i signori, i quali devono comandare, e il semplice popolo, il quale deve servire, e perciò non sdegnava la servilità, né i profondi inchini; ma coi propri dipendenti aveva un contegno affabile e mite, non lasciava passar via nessun mendico senza elemosina e non condannava mai nessuno, anche se talvolta pettegolava […] Simili donne vanno ormai scomparendo.
Dio sa, se sia da rallegrarsene!».
La primavera dei giovani di quell’epoca è in scontro totale con l’autunno del villaggio di Mar’no, in cui il campanile rappresenta ancora la scansione naturale delle giornate di chi abita in quell’agglomerato di case: la nobiltà contadina, quella da cui provengono entrambi i ragazzi, è condannata dalla storia ma Turgenev non sembra salvare neanche la nascente nuova coscienza.
A metà tra quel che avrebbe potuto essere e quello che non sarebbe stato mai, si colloca il pensiero dell’autore: vicino ad istanze rinnovatrici ma non ben definite e non troppo delineate da poter essere immaginate.
Recensione pubblicata sulla rivista della ‘Cub Rail’ nel numero di marzo 2023. L’immagine rappresenta il dipinto “Neve” di Mikhail Germashev (1897).