Matteo Renzi, ovvero: la versione più aggressiva del bonapartismo

Tutte le politiche, le scelte messe in atto da Renzi sono  state strutturate dal carattere antioperaio e reazionario delle stesse. Il proponimento è sempre stato il medesimo. Renzi non aveva alcun principio politico, tanto che in un’intervista rilasciata al Foglio, quando si definiva rottamatore del Pd assieme a Civati, si dichiarò «liberista di sinistra», andando così a spaziare dal “mastellismo”, alla socialdemocrazia europea sino a giungere al liberalismo.  Questo almeno rimanendo nell’ambito del formale, in realtà – ovvero nella sostanza delle cose – ha sempre rappresentato il bonapartismo fatto e finito con ben poco rispetto per il dissenso e prono alle politiche di Confindustria.
La politica di Renzi, quando era Presidente del consiglio, ha rappresentato un approdo per quello che non è riuscito a Berlusconi, Bossi e Fini per oltre un decennio, ovvero: la libertà di licenziare da parte dei padroni (questo è, nei fatti, il “Jobs Act”). 

Il renzismo parla(va) “d’innovazione”, di “nuovi tempi” come se Renzi stesso avesse compreso e conoscesse le dinamiche storiche del mondo del lavoro, dello sfruttamento capitalistico ma la verità è esattamente capovolta, Renzi è molto ancorato, più di quanto voglia far apparire, al passato e alle logiche di potere. 

È bene portare alla mente quando Renzi, durante il dibattito referendario cui seguì la promessa di abbandono della scena politica in caso di sconfitta (proponimento poi disatteso), diceva pervicacemente: «Con noi c’è una maggioranza silenziosa», un richiamo al potere reazionario e democristiano non a caso. La Riforma Renzi-Boschi, profondamente lesiva per gli spazi democratici, nei fatti era solo la declinazione più becera del progetto bonapartista: quello dell’uomo solo al comando. 

La legge elettorale “Italicum” d’altronde aveva delle preoccupanti similitudini con la legge Acerbo fatta approvare da Mussolini nel 1923. Una legge che elargiva a chi raggiungesse il 25% dei voti validi i due terzi dei seggi alla Camera dei Deputati (il Senato era di nomina regia). 

Con l’aiuto di questa legge, Mussolini prese il controllo della Camera: legge che fece accelerare la formazione dello Stato totalitario.
Ora, alla luce del fatto che le elezioni del 25 settembre 2022 (convocate in neanche due mesi e che vanno a configurarsi all’interno di un quadro del tutto privo di libertà democratica e di partecipazione reale e concreta da parte dei soggetti che vorrebbero concorrere e dare un contributo non già alla Rivoluzione ma allo stato borghese) rappresentano la prima tornata con il numero ridotto di parlamentari a seguito della vittoria referendaria sul “taglio dei costi della politica“, andrebbe ricordato che Renzi sventolò il medesimo scalpo.
Per indorare la pillola circa il referendum da lui proposto e da egli stesso personalizzato a tal punto da vedere in quel momento di consultazione elettorale uno spartiacque della propria vita politica, nei confronti del mondo del lavoro sventolò la riduzione dei costi della politica, a favore di una totale controriforma, come avrebbero fatto in seguito i grillini. In un colpo solo ci sarebbe stata: l’abolizione del Senato e del Cnel, dunque la collettività avrebbe risparmiato gli stipendi dei senatori e altri “annessi e connessi” relativi al Cnel. 

È vero che ci sarebbe stato un risparmio a seguito del taglio di 200 senatori, ma si sarebbe trattato di pochi spiccioli (50 milioni l’anno e non 500 come sbandierato da renziani). Così come è valso per il referendum promosso dal Movimento 5 Stelle qualche anno dopo: se si avesse davvero voluto tagliare “i costi della politica”, si sarebbe dovuto andare a colpire il salario dei parlamentari.
In sintesi: non un taglio del numero ma una sforbiciata ai loro stipendi ed emolumenti: retribuzione massima di 2000 euro per tutti gli eletti  e non ridurre gli spazi democratici di rappresentanza, così come andrà a comporsi il parlamento del 26 settembre 2022. 

Insomma la politica di Renzi era ed è anche la linfa funzionale dell’aggressione sociale ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici, alla dissoluzione progressiva dei loro diritti, delle conquiste e delle rappresentanze a vantaggio dei profitti dei pochi e delle restrizioni UE.
Senza contare il balbettio istituzionale sul DDL Zan che vide Renzi pronto a mediare con la destra (cioè gli amici di Orban) e al dileguarsi al momento del voto: la tipica mossa renziana degli ultimi anni che nasconde la mano che ha lanciato il sasso, proverbialmente parlando

Il mondo del lavoro non ha nulla a che fare con questa politica atta a comprimere tutti i suoi interessi economici e sociali.
La strada della sinistra è altra: dobbiamo avere come perno, come rivendicazione centrale, la cancellazione delle leggi antioperaie realizzate in questo trentennio a partire dal Jobs Act e dalla Buona scuola (cosiddetta). Una strada (e una rivendicazione) che ponga come base del conflitto sociale le ragioni di classe del lavoro, contro ogni subordinazione alla borghesia; che rivendichi il diritto alla piena rappresentanza proporzionale di queste ragioni, contro ogni mercimonio alla governabilità del sistema.

È la prospettiva, dei consigli, della democrazia socialista.

Eugenio Gemmo

Marco Piccinelli

Articolo pubblicato sul blog: Trotskysmo – Quarta internazionale: https://www.quartainternazionale.it/2022/09/12/matteo-renzi-ovvero-la-versione-piu-aggressiva-del-bonapartismo/

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