Una giornata “particolare” (ma non il film di Scola)

La giornata parte molto male: potresti dormire qualche ora in più del solito, se non fosse per l’appuntamento che hai stabilito con l’azienda municipalizzata (che però è una S.p.a.) per il ritiro dei rifiuti ingombranti che hai accatastato sul marciapiede adiacente al piccolo cancello d’ingresso del tuo condominio. 
Appuntamento alle ore 7:00, ma tieniti libero per le due ore successive: così, almeno, c’era scritto sulla prenotazione. 
Poco male: c’è un bar sotto casa tua. Colazione con caffè e danese perché sì, perché una volta ogni non-so-quanto una pastarella più elaborata tra quelle di produzione industriale ce la possiamo anche permettere.

Paghi, torni alla postazione da vedetta lombarda.

Sono le 8:00: nessun camion all’orizzonte, neanche un furgoncino di quelli piccoli, non sta passando nessuno. Uno dopo l’altro, come coroncine di un rosario sgranate da polpastrelli esperti, escono dal portone del condominio tutti gli inquilini: chi si recherà in ufficio, chi sta accompagnando i figli a scuola, chi sta andando a fare compere per la giornata.
Tu lì, fermo, impalato.

Sono le 9:00, per fortuna oggi a scuola attacchi tardi e non hai i colloqui mattutini con i genitori: nessun camion passerà.
Chiami il centralino specificando la problematica:
“Salvebuongiornoguardisénta, oggi avrei prenotato un ritiro di x/y/z cose ma non è arrivato nessuno e sono le 9:00, dovrei andare a lavorare“, la risposta ti gela doppiamente: “Può recarsi tranquillamente al lavoro: gli operatori agiranno in autonomia e non deve firmare alcunché“. Lo avessero scritto anche sulla prenotazione, ho pensato fra me e me, sarebbe stato carino: non mi sarei svegliato di nuovo alle 6:10. Poi, però, l’operatrice dice anche un’altra cosa: “Il giro per i ritiri dei rifiuti ingombranti, comunque, parte alle 8:00″
La mente corre subito, forse involontariamente, alla diatriba in seno all’Unione Europea sulla volontà di appianare la differenza fra ora legale e ora solare: per una frazione di secondo mi sono messo nei panni di chi stesse pianificando gli orari da consegnare ai dipendenti che poi avrebbero svolto il turno mattutino. Mi sono immaginato davanti alla notizia proiettata su uno schermo, di quelle “flash news” che campeggiano sui canali h24: «Abolita discrepanza fra ora legale e ora solare». Basito, con il mio quadro orario in mano, la penna nel taschino: “sono fottuto!”. 
Ma per fortuna non è il mio lavoro. Altrimenti sarei stato fottuto davvero. 
Salgo su casa: 9:15. Alle 9:38 chiama l’azienda: siamo sotto casa ma non prendiamo tutto solo uno tra le trecento cose che ci sono qui, per il resto ci vuole il servizio a pagamento
Il Vesuvio pare che in quel momento avesse dato segni di risveglio.

Prendo  la macchina e vado alla metro. Svolgo le mie lezioni, interrogo chi devo (per fortuna senza morti e feriti ma con addirittura dei volontari). Nel frattempo ti sei accorto che, a causa del trambusto mattutino con conseguente “eh no non se pijamo mica tutta sSa robba noi, eh”, hai dimenticato la tua fedele bottiglia d’acqua a casa anziché metterla nello zaino. 

Un moderno “prof, ho dimenticato il quaderno”. Però più grave: senza idratazione si sta / come occidentali / d’estate / nel Sahel. Trenta centesimi: bottiglietta d’acqua che riempirai alla prima fontanella di Castro Pretorio. Per la prima volta, però, hai tempo di allontanarti per qualche minuto dal frastuono delle campanelle e dei cambi di lezione e riesci a rintanarti in un pertugio per leggerti qualche pagina di un libro che hai fiduciosamente iniziato qualche giorno fa. È scritto da Barbero e ti ci immergi completamente. Momento di beatitudine. 
Alle 14:30 termina il tutto, poi cominciano le riunioni alla sede centrale a partire dalle 15:45. Tre riunioni, una dopo l’altra, riguardo tre casi specifici.
Si protraggono fino a tardi: finiamo attorno alle 18:00. Un incontro nello specifico tiene il banco del pomeriggio andando avanti dalle 16:50, circa, alle 17:59 (senza che nessuno lo avesse realmente voluto) se non per un paio di presenti che hanno iniziato a snocciolare questioni del tutto non inerenti alle tematiche all’ordine del giorno della discussione. Chissà perché, poi, hanno pensato bene di iniziare a parlare d’altro.
Magno cum disappunto, passate le 18:00 (pregasi notare l’ablativo assoluto), inizi la cavalcata verso la metro. Non si sa perché: istintivamente ognuno di noi attiva un meccanismo nel cervello secondo cui più sarà veloce nel raggiungere la stazione, prima arriverà la metro. Una sorta di principio fisico per cui all’aumentare della velocità podistica, si avvicina maggiormente il corpo C mosso da velocità costante. O un qualcosa del genere. Ovviamente è un teorema fallace: treno per Rebibbia in arrivo tra 13 minuti. Quando il tempo di percorrenza è superiore agli 8 minuti, la soave voce della linea B della metropolitana di Roma non viene neanche attivata.
In un attimo pensi a quando arriverai alla tua fermata, a quando prenderai la macchina, al traffico che dovrai sorbirti: nel frattempo uno spostato in evidente stato psicotico alterato ti chiede se questa sia la metro per Marconi quando sta passando un treno per Jonio. Nel frattempo due gemelli piangono nel passeggino davanti a te: la mamma si dispera cercando di coccolarli entrambi e riempiendoli di baci. Uno sciame di persone attraversa la banchina per andare a prendere la metro A: transito obbligatorio, ci sono i lavori da quando la stazione Termini è stata costruita, praticamente, fanno parte dell’architettura stessa.
Un altro pensiero trafigge le sinapsi: “Dovrei fare il pieno alla macchina, in effetti”. Non lo farai: controlli il portafoglio e ci sono solo 20€. Aggiungere alle cose da fare: spesa, doccia, buttare l’immondizia, mettere i voti della mattina, prelevare allo sportello automatico della banca e fare il pieno. Tutto oggi? Forse no.
A casa ci arrivi alle  19:05: tornando a casa hai evitato l’incidente con altre macchine almeno sei volte, tante quante alle 7:00 di mattina. 
Metti la macchina al garage, perché per fortuna non devi cercare posto in una via in cui l’autobus non passa nature, figuriamoci con le macchine parcheggiate in tripla fila al lato della strada.
Inserisci la chiave, apri la porta, posi lo zaino.
Vorresti riposare, ma devi preparare le lezioni per domani.

Lezioni che si affastelleranno nella testa di studentesse e studenti per cui tu sei solo un supplente, uno fra tanti. E invece a te mancheranno tutti quegli occhi, perché ci sono ancora le mascherine. Da novembre hai imparato a conoscere tutti i loro occhi e i loro sguardi: sai quando ridono, quando sono arrabbiati, quando non vogliono vederti, quando stanno pregando perché non interroghi, quando “prof, ma quanti anni ha?” oppure “prof, ma è fidanzato?”. 

Sai anche quando stanno per piangere, quando devi dar loro un fazzoletto e concedergli un abbraccio quando te lo chiedono, ma anche se non te lo chiedono e piangono come se gli avessi detto che, da domani, il loro braccio sinistro sarà amputato. E magari è solo per un 4, niente che un fazzoletto e un abbraccio non possa sistemare, insomma.
Però poi, a una certa, finisce il contratto e finiscono gli sguardi.
Lo sbattimento che fai anche per loro oltre che per dovere d’essere arrivato a casa alle 19:00 finisce d’imperio: arrivederci e grazie. 
Che poi grazie manco te lo dicono: dipende dai presidi e non tutti te lo dicono. Atto dovuto: hai lavorato, bravo, mo te ne poi pure annà, Marchese Onofrio del Grillo, ora pro nobis.
Sono le 20:17, tra neanche 21 giorni (sabati e domeniche comprese) la scuola finirà, tu non vedrai più i loro occhi, combatterai con gli scrutini, annegherai nel disappunto della valutazione calata dall’alto e su cui tu non puoi far più di tanto. 
Che poi non è una giornata particolare, ma la quotidianità nel fatato mondo capitalista, quello del profitto, quello dell’assurdo coaching aziendale-motivazionale degli “hey, che bello, una nuova giornata, siamo carichi oggi darò il mio meglio”. 
Quello di chi si sveglia alle 4 per spostare se stesso da una provincia ciociara o della Tuscia e recarsi alla scuola taldeitàli a Roma. E ritornare indietro la sera. E ti dicono “Tu sei fortunato che abiti a Roma”. 
Ma loro non sanno che stai sulla Casilina e la scuola è in pieno centro. 
Che poi non è una giornata particolare, è proprio la quotidianità.
La normalità, come dicevamo quando c’era il lockdown. 
Ma è proprio la normalità, questa normalità, ad essere un problema.

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