Rutilio, testimone del presente che cambia e l’impossibile restaurazione

 In occasione dei 2775 anni di Roma, mi sono deciso a pubblicare la conversazione con Claudio Bondì, pianificata e organizzata in vista di un progetto di tesi di laurea magistrale non più portato a termine. Era un pomeriggio di settembre di cinque anni fa [2017]: con Daniele e la prof.ssa Privitera ci inoltrammo verso Trevignano per incontrare il registra allievo di Rossellini.

Una conversazione con Claudio Bondì 

Elia Schilton in un fotogramma del film “De Reditu” di Claudio Bondì.

Questa intervista prende le mosse dall’incontro avvenuto, grazie alla professoressa Tiziana Privitera, presso l’abitazione di Claudio Bondì, autore del film «De Reditu», ispirato al poemetto di Rutilio Namaziano.

La prima domanda che gli ho rivolto è stata: «per quale motivo proprio Claudio Rutilio Namaziano?» (su cui infra) e Bondì ha serenamente risposto come ho riportato di seguito nella conversazione.

Personalmente, mi sono innamorato di Rutilio durante gli studi liceali. A seguito di una bocciatura in quinta ginnasio, ho ripreso gli studi cercando di non ripetere gli errori (e le mancanze) dell’esperienza pregressa. Mi appassionava molto studiare e approfondire, attraverso letture di saggi e di romanzi storici, le vicende imperiali successive alla morte di Marco Aurelio; tuttavia mi incuriosiva anche la paganità messa alle strette dalla cristianità, e dunque ho iniziato a documentarmi su Giuliano l’“Apostata”. Terminate le letture sull’imperatore “controcorrente”, ricordo di aver letto l’inno a Roma di Rutilio sul manuale di letteratura latina: fu una sorta di folgorazione. Una folgorazione dovuta in particolare ai vv. 63 fecisti patriam diversis gentibus unam e 66 urbem fecisti quod prius orbis erat1.

E da allora Rutilio non mi ha più abbandonato.

Nel V secolo d.C. l’Impero Romano era un’entità statale e territoriale che a stento riusciva a mantenersi salda e viva: l’età degli Antonini, la cosiddetta fase “aurea” dell’Impero, era ormai ben lontana, si susseguivano le usurpazioni e il territorio amministrato dall’Imperator si assottigliava sempre di più. La «caduta senza rumore»2, che Roma subì a seguito della deposizione di Romolo Augustolo, con conseguente presa del potere da parte di Odoacre, non destò forse tra i contemporanei così grande angoscia, spavento, smarrimento. Il dominio di Roma3 non rappresentava più l’entità invincibile del passato, ma il lento declino di una potenza mondiale, a cui si aggiungevano una classe dirigente sempre più dissoluta e dedita alla corruzione, la progressiva trasformazione dei costumi e del modus vivendi a seguito della cristianizzazione dell’Impero e di altri fattori. Roma cristiana era ormai egemone nei confronti degli idoli pagani.

E questo, probabilmente, provocò la reazione dell’aristocratico Claudio Rutilio Namaziano4.
Originario della Gallia, Praefectus nel 414, Rutilio, nonostante il suo supposto paganesimo, riuscì a conseguire nella Pars Occidentalis una brillante carriera di funzionario durante l’impero di Onorio, come dimostra la nomina a Praefectus Urbis nel 414, una carica, istituita da Augusto, che rimase tradizionalmente appannaggio della classe senatoria, mantenendo il suo prestigio in tutte le fasi della storia imperiale5.

Il Sacco e il Ritorno
Il ritorno di Rutilio ha una meta, la Gallia Narbonese, che lo stesso Alessandro Fo individua come verosimile destinazione del viaggio, dato che: «il codice Vindobonensis indica nella soprascritta come destinazione del viaggio. In terre cioè fra le più strapazzate dalle scorrerie barbariche, fra cui restano memorabili quelle del 413 ad opera dei Visigoti stessi, di ritorno dall’Italia meridionale sotto la guida di Ataulfo. […] Si è molto discusso sull’anno preciso del viaggio, in particolare schierandosi per il 417 o il 415. Comunque stiano le cose, Rutilio parte, e nonostante sia inverno, parte per mare: infatti, ci dice, non ci sono più ponti, né ostelli, tutto ha sofferto le recenti rovine (1, 37 ss.)» 6.

Foto scattata quel dì dal buon Daniele con la prof.ssa Privitera, Bondì e uno spettinatissimo (as usual) me

Il film
Claudio Bondì, regista e sceneggiatore, classe 1944, allievo di Roberto Rossellini, ha scritto e diretto numerose serie televisive per Rai Uno, Rai Tre, ORF, ZDF e tre film: Il richiamo (1999), L’educazione di Giulio (2000) e, per l’appunto, il De Reditu (2003). Quest’ultimo, a causa della estrema economia di mezzi, come ci ha raccontato nella conversazione avvenuta nella sua casa di Trevignano Romano, passò quasi sotto silenzio.

Perché realizzare un film sul V secolo dopo Cristo e, soprattutto, su Rutilio Namaziano?

«Ho scoperto Rutilio nel corso dell’esame di Letteratura Latina di [Ettore ndr] Paratore. Nel manuale era riportato come egli fosse l’ultimo poeta pagano della letteratura latina: la cosa non mi impressionò molto. Al contrario destò la mia curiosità il fatto che Rutilio Namaziano intraprese un viaggio con tre barche per tornare in Gallia e vedere in che condizioni fossero i suoi possedimenti a seguito delle devastazioni dei Visigoti. Mi sembrava una cosa molto romantica e mi rimase viva nella mente fino agli anni ’80, quando mi proposero di realizzare una serie per la televisione dal nome “Vita quotidiana di…”. Il programma si proponeva di raccontare delle epoche storiche attraverso dei personaggi. Dovevo scrivere 10 trattamenti e uno di essi fu quello su Rutilio Namaziano: attraverso la sua vita e il suo viaggio ho ricostruito la fine dell’Impero. Il testo piacque molto, ma non fui scelto a causa di limitazioni nel budget. Il testo lo pubblicai in seguito»7.

Cosa accomuna gli anni di Rutilio ai giorni nostri?

«C’è una “tangenziale” che unisce quegli anni ai nostri: sono epoche così dissimili per alcuni versi, ma fin troppo simili per altri. L’impossibilità, per esempio, che ha Rutilio di parlare con i cristiani è la stessa che proviamo noi nei confronti degli islamici. Anche negli altri film che ho realizzato ho parlato sempre della stessa cosa, se vogliamo: uno o una protagonista, attraversato dalle frecce della Storia, mentre lui o lei cerca di capire e difendersi da quello che gli o le sta capitando. Rutilio è attraversato da un evento che cambia completamente, di lì a cinquant’anni, il senso della vita di chi abitava i luoghi dell’Impero. Come aiuto regista di Rossellini ho realizzato Agostino d’Ippona, dunque mi è capitato di rappresentare una situazione analoga con loro: Agostino e i suoi compagni si sfregavano le mani a seguito della caduta della “Grande Meretrice”.

Non sono uno storico, ma certamente, nonostante le due epoche siano differenti, alcuni tratti non sono così dissimili, come dicevo: stiamo vivendo una situazione analoga a quella di Rutilio. La “grande povertà” di chi è costretto a emigrare entrerà infine nei nostri confini: non possiamo sparare a vista sulle barche, sarebbe un comportamento folle. Bisogna cercare di includere e di assimilare il più possibile, così come venne fatto in passato. Anche perché, se non sbaglio, Alarico voleva essere insignito generale dell’Imperatore. Solo a seguito del diniego dell’Imperatore ruppe il patto con Roma e successe quel che conosciamo. Nell’immaginario delle popolazioni non romane, essere insigniti di un titolo che, probabilmente, all’epoca non valeva moltissimo, sarebbe di per sé bastato».

Rutilio, nonostante fosse di estrazione aristocratica, nel film si scontra con quella che era la “miopia” politica della classe senatoria. Perché nel suo De Reditu si verifica questo scontro?

«Quando Rutilio va dai senatori a proporgli quel piano, del tutto visionario, di mettere insieme un esercito per rovesciare il potere imperiale e “sanare” situazioni che andavano sanate, per l’appunto, i senatori lo prendono per matto. D’altra parte, però, aspettano di vedere quali mosse metta in atto Rutilio. Non sia mai che quel “pazzo” fosse riuscito nell’intento!

Dunque, da un lato c’era l’intuizione, da parte mia, di mostrare quel che sarebbe accaduto di lì a poco, storicamente parlando, nel medioevo: l’incastellamento. I senatori, grazie ai possedimenti e al capitale accumulato nel corso della loro vita, iniziano a ritirarsi nelle loro ville e a vivere per conto loro.

D’altro canto c’era la volontà di mostrare il lato per così dire tutto “democristiano” dei senatori romani: accontentare tutti, non essere nemici di nessuno, senza necessariamente interpretarlo come un fatto negativo, dato che probabilmente non c’era altro comportamento da tenere. Rutilio, infatti, è molto rigido nelle sue posizioni e i senatori provano a fargli capire che già nelle legioni la proporzione di germani era decisamente elevata».

Democristiani” o meno, sembrano essere più realisti.

«Certamente: è proprio da quel dialogo e da quell’incontro che volevo far apparire il lato romantico di Rutilio. Il comportamento “democristiano” si rivela subito dopo, come dicevo prima: quando Rutilio va via dalla villa, i senatori, riflettendo tra loro, affermano che comunque non è stato cacciato via da loro.

Ho, poi, un difetto che dichiara la mia età: non riesco a fare un film o scrivere un libro senza alcuno scopo. L’utilità di questo film è chiarire alcune cose, non da un punto di vista didascalico, ma per far capire alcuni meccanismi fondamentali che si ripetono.»

Il meccanismo che sta dietro il finale, allora, qual è?8

«Il finale non lo conosce nessuno. Non avevo la minima intenzione di far morire Rutilio: sapevo che non era morto e che era arrivato almeno fino a Milano nel suo viaggio; non potevo farlo combattere contro i catafratti, che l’avrebbero schiacciato in pochissimo tempo. Non lo so neanch’io che fine fa Rutilio. Quando noi incontriamo un testo che, improvvisamente, si interrompe, bisogna fare in modo di far terminare il tutto. Nel film, peraltro, ho messo in scena cose non vere, come ad esempio il fatto che Rutilio si stia recando in Gallia anche per radunare delle legioni e scavalcare così l’Imperatore, che stava a Ravenna, come ho detto prima. Avevo bisogno di quello spunto per il percorso che segue Rutilio nel dialogo con i senatori, quando, rifiutandosi di seguirlo, si iniziava a delineare il processo dell’incastellamento medievale. Questo finale che ho trovato nel film vuole significare una mia devozione nei confronti di Rutilio».

Una devozione che legittimerebbe anche lo spunto dell’esercito da radunare contro l’autorità imperiale di Ravenna?

«Ci sono tante cose che sono state lasciate a metà e che vanno prese, per l’appunto, per la trattazione cinematografica in sé».

Nella narrazione filmica, però, si trattano anche tematiche letterariamente concrete, come le devastazioni dei cristiani nei confronti degli idoli pagani.

«Il discorso iniziale fra Rutilio e Palladio fa parte di un tema su cui la letteratura (già quella latina) ha prodotto tonnellate di testi. I cristiani, appena ottenuta un’oncia di potere, si adoperarono nella rimozione e distruzione degli idoli pagani. Successivamente, con l’intelligenza, si appropriarono di quel che la cultura e l’Impero aveva compiuto. Certo, con dei “filtri”, secondo me: molte opere non sono arrivate perché forse davano molto (o troppo) fastidio. Una scena in particolare, nel film, non ho potuto realizzarla e un po’ me ne rammarico: prima dell’uccisione del rematore, i catafratti avrebbero dovuto incontrare due processioni, una di cristiani e un’altra di pagani. Paradossalmente, entrambe le processioni proseguivano su strade diverse per andare nello stesso posto, ma in senso inverso: i catafratti avrebbero dovuto prendere tutti a bastonate indiscriminatamente. Con questo intendevo dire che la situazione era talmente complicata che non si riuscivano quasi a distinguere le due religioni e le due manifestazioni religiose».

Nel senso che le credenze religiose sono viste, in entrambi i casi, come un intralcio al potere?

«Esattamente: al potere non gliene importava nulla. Intendo dire che in quella fase tanto i pagani quanto i cristiani davano fastidio in egual maniera al potere. Rutilio vive, viaggia e scrive in un periodo in cui le differenze fra le due religioni, così come le loro manifestazioni, erano sottilissime. Quella scena avrebbe potuto far capire come e quanto fosse caotica la situazione dell’Impero nel V secolo.»

Anche nell’opera di Rutilio, infatti, il potere non ne esce benissimo, mi riferisco al medaglione su Stilicone…

«No, affatto. Un’altra scena, a proposito di questo tema, che non ho potuto realizzare, riguarda l’inizio del film, quando Rutilio arriva ad Ostia. Il protagonista avrebbe dovuto imbattersi in un gruppo di Visigoti, o comunque di non latini, i quali incontravano un vecchietto per strada, fracassandolo di botte senza una ragione specifica. Entrambe le scene, quella sopra descritta e quella che ho detto ora, avrebbero rappresentato cose che non sarebbero mai potute accadere cinquant’anni prima e che, invece, accadevano negli anni in cui Rutilio aveva deciso di intraprendere il viaggio»

Gli schemi saltano per tutti, insomma, tanto per i cristiani quanto per i pagani.

«Non solo, anche per l’autorità cristiana, la quale, come ho detto prima, tanto in ambito storico, quanto in ambito documentale, non fa arrivare delle testimonianze importantissime, di cui abbiamo solo i titoli. Giuliano, ad esempio, è diventato l’“Apostata”, il traditore: avrei voluto fare un film anche su di lui. Non era Apostata per nulla ma venne marchiato così dai cristiani, solo perché aveva osato dire che i maestri, dovendo insegnare la storia antica, non potevano essere cristiani. La sua non era un’ostilità aprioristica: era ben motivata. Come faceva un maestro a spiegare il complesso divino pagano e la storia precedente al cristianesimo, se condannava tutto quello che era avvenuto precedentemente a Cristo?».

I discorsi attorno alla religione, inevitabilmente, portano alle considerazioni sull’attuale e il riferimento non può che tornare all’integrazione e ai nostri giorni, cosa ne pensa a riguardo?

«La questione è complessa: pensiamo però al fatto che i cristiani distruggono, se vogliamo, buona parte di quello che era un mondo stabilitosi da settecento anni. Pensi al Pantheon: un meraviglioso esempio di integrazione, un luogo in cui erano presenti tutti gli déi: tutti diventavano cittadini romani e potevano venerare chiunque volessero. In un certo qual modo la tolleranza dell’Impero era simile a quella presente nell’Impero Asburgico, in cui convivevano circa quattordici nazionalità diverse».

A proposito di religioni, Rutilio se la prende anche coi giudei.

«Roma era, certamente, antisemita, ma solo perché i Giudei davvero non venivano capiti, erano percepiti come “strani”. Quando nel film faccio dire ai personaggi che il proprietario della locanda in cui si sono fermati è giudeo, perché aveva messo loro in conto anche l’erba che avevano calpestato, probabilmente sarà stato così [ride]: denigrare “la tirchieria” è un costume che attraversa le epoche».

Passiamo a Rutilio e alla sua figura storica e letteraria. Personalmente mi sono innamorato della sua opera letteraria quando ero al liceo, lei nel corso degli studi universitari. Prima di realizzare il film, però, passa moltissimo tempo. Come mai?

«Nella mia vita, quando ho cercato di fare determinate cose non sono riuscito a realizzarle. Quando invece non le pensavo neanche, è successo che le ho fatte e portate a termine. È strano, non trova? Se mi incaponisco a voler fare qualcosa, non c’è verso che riesca a farla. Devo scrivere, quello sì, e anche molto, ma se incontro resistenze non devo occuparmene o incaponirmi. Il film su Rutilio giaceva “da una parte”: per me era morto e sepolto a seguito del primo rifiuto televisivo. Inaspettatamente, arrivò l’occasione per Rutilio anni dopo. Tra l’altro c’è da dire che la Rai continua a mandare in onda pezzettini, di qualche secondo o minuto, a seconda delle necessità, del mio film nei più disparati programmi di divulgazione o anche storici: anche in “Ulisse” di Alberto Angela, ho ritrovato dei frammenti. Se questo film l’avesse comprato la Rai la sua sorte, forse, sarebbe stata diversa».

Si ricorda come venne accolto e quale fu il giudizio riguardo al film?

«Ero molto scontento del film. Mi sembrava di non essere riuscito a raccontare nulla di quello che avevo in mente, anche perché prima della sceneggiatura finale ne avevo realizzate nove. Testi, tutti e nove, che ho regalato ad Alessandro Fo. Ogni sceneggiatura successiva alla prima è stata una riduzione, a seconda di quello che il budget che avevo a disposizione consentiva di produrre. Avrei voluto girare con tre barche, anziché con una, avrei voluto girare le scene che ho descritto sopra oltre all’inseguimento dei catafratti, i quali, secondo la prima stesura, avrebbe dovuto essere una truppa, non “quattro scalmanati” come nel film. In me, probabilmente, era rimasto più forte che in altri uno scontento enorme rispetto a quello che ho dovuto togliere e che mi sembrava importante rispetto al [prodotto finale] montato. Alessandro Fo, che si imbucò [ride] letteralmente alla prima proiezione del film riservata alla troupe, dopo i titoli di coda mi fermò e mi disse che avevo realizzato una cosa straordinaria e mi riempì di elogi. Io mi aspettavo che, al contrario, mi prendesse da parte per darmi del mascalzone e farabutto!».

Quindi critica positiva nonostante la sua contrarietà?

«Esattamente! Il Manifesto fece un articolo a sei colonne con il seguente titolo: “Contro The Passion, De Reditu: un apologo pagano”, scritto, se non ricordo male, da Silvestri. Il ritaglio di quel giornale, insieme a molto altro, l’ho donato al Museo del Cinema di Torino, quindi ora non ce l’ho, ma spero sia facilmente reperibile in rete. Il tema era importante, per la verità, e la pubblicazione del film ha spiazzato un po’ tutti. Al contrario, io ero quasi furibondo dopo la pubblicazione del film. Pensavo ricorrentemente che una cosa a cui tenevo moltissimo fosse il film, che “alla fine dei giochi”, mi era venuto peggio. Pensavo perfino che la gente se ne potesse andare via a proiezione in corso!»

Quanto costò, infine, il film?

«Ottocento mila euro e le riprese durarono sette settimane. In una cosa sono stato feroce: la barca del film non è stata mossa da motori o nient’altro di meccanico. La barca ha funzionato coi suoi tempi.»

Quindi, nonostante le sue infelicità, il film venne accolto bene.

«Anche altri colleghi registi mi chiesero quello che mi hai chiesto, ovvero, come mi fosse venuto in mente di realizzare questo film. Mi ero appassionato all’aspetto romantico dell’avventura verso l’ignoto che un solo uomo vuole fare, nel tentativo di [recuperare] una situazione irrecuperabile. E ne è venuto fuori un prodotto che, in un modo o nell’altro, ha i suoi devoti. Non dobbiamo, però, vedere Rutilio come un anti-cristiano, piuttosto come un filosofo che reagiva a tutto quello che stava succedendo a lui».

Una reazione rispetto all’attualità che lo circondava, dunque?

«Necessaria, aggiungerei. Anche perché i cristiani di allora ritenevano imminente la fine del Mondo. Potevano dire, in sostanza, tutto quel che volevano, convincendo la gente del fatto che la fine sarebbe stata imminente e che presso di loro avrebbero trovato la salvezza».

A proposito di accoliti del film, in rete si possono trovare diversi articoli e post di blog di cinefili che plaudono alla sua opera. C’è un aneddoto, anche recente, che vuole ricordare a riguardo?

«Un aneddoto che ricordo con piacere, a tal proposito, è questo: nel 2010 ero a Trieste, al Festival del cinema latinoamericano: portavo un documentario La balena di Rossellini9. Finisce la proiezione del film e mi si avvicina una signora, chiedendomi se avessi realizzato anche il De Reditu: «Mi deve fare un favore» – mi disse – «c’è mio marito, uno storico, che passa ogni sera a recuperare i pezzi del suo film trovati su Internet, tra YouTube e altre piattaforme: non ci dorme la notte, gli faccia avere un dvd». Forse, allora, De Reditu qualcosa ha messo in moto nella comunità di appassionati, di storici e non. Ne ho avuto la riprova a seguito della proiezione che c’è stata alla Casa del Cinema quattro anni fa: la domanda che più mi è stata posta era come mi fosse venuto in mente di farlo, questo benedetto film».

È proprio questo, in fondo, che muove curiosità e interesse nei confronti del De Reditu: il film ha una sua platea di aficionados, facilmente rintracciabile tramite una ricerca in Internet attraverso un qualsiasi motore di ricerca. Proprio Bondì, a seguito di questo interesse10, ha concesso che il film venisse caricato integralmente su YouTube11.

1 Rutilio Namaziano, Il ritorno, a cura di A. Fo, Torino, Einaudi, 1992.

2 Momigliano, Storia e Storiografia antica, Bologna, Il Mulino, 1985.

3 Non fu sempre Roma la sede imperiale, tuttavia, come un immaginario collettivo ha erroneamente tramandato: Milano e Ravenna furono le città a cui gli imperatori preferirono affidare il titolo di capitale come lo si intende oggi. L’ultima sede imperiale fu appunto Ravenna. Né bisogna trascurare il fenomeno non inconsueto delle usurpazioni, a sua volta responsabile della designazione di una diversa sede imperiale, relativa alla porzione di territorio, su cui l’usurpatore di turno esercitava il proprio dominio.

4 Per una sintesi del vivace dibattito sull’ordine dei tria nomina, cfr. A. Fo, Ritorno a Claudio Rutilio Namaziano, Pisa, 1989, p. 50.

5 «Le belle proprietà di Gallia, di un uomo che ha trovato in Roma il vertice della bellezza della civiltà non sono sfuggite alle devastazioni, sì che ora egli deve ritornarvi. Claudio Rutilio Namaziano è un aristocratico, figlio del funzionario imperiale Lacanio, ha egli pure ricoperto importanti cariche, principale delle quali la prefettura di Roma (nel 413 o nel 414), e abbonda di amicizie e parentele eminenti». Così Fo, ibidem

6 Rutilio Namaziano, Il ritorno, cit. Significativo il passaggio, in cui chiarisce il motivo del viaggio, I, 19-22: At mea dilectis fortuna revellitur oris / indigenamque suum Gallica rura vocant. / Illa quidem longis nimium deformia bellis / sed quam grata minus, tam miseranda magis.

7 C. Bondì– A. Ricci, La storia a misura d’uomo: vita quotidiana nell’Italia antica, Torino, ERI, 1980.

8  Il de reditu è incompiuto: il film di Bondì prova a immaginare un finale, nel quale le guardie imperiali riescono a mettersi sulle tracce di Rutilio, uccidendo un membro dell’equipaggio della barca. «Sembra passato moltissimo, amico, e invece siamo appena a metà del viaggio», così Rutilio nella pellicola si esprime, rivolgendosi a Minervio (Rodolfo Corsato), il quale, sfoderando appena la spada, risponde enigmaticamente: «di questo o di quell’altro?», mentre i cavalli delle guardie imperiali galoppano (non pacificamente) in direzione dei due.

9  Film ideato da Rossellini nel 1971, ambientato in Cile, che non ha mai visto la luce.

10 La decisione di Bondì è in totale controtendenza rispetto a quello di registi, musicisti e artisti in generale: si veda il caso Napster/Metallica, la cui disputa aprì un dibattito feroce tra chi scaricava illegalmente musica e la difesa del diritto d’autore.

11 Qui, il link del film completo: <https://www.youtube.com/watch?v=6esfS4lrz5I>.

Ancora una cosa…

Piccola nota personale, a margine della conversazione. La passione per i versi di Rutilio Namaziano l’ho sempre condivisa (fin da quando si è palesata) con Domenico, compagno di liceo e ora docente a Oxford. Io bocciato in quinta ginnasio, lui vera e propria miniera di sapere già a 16 anni; lui autodidatta ma tecnico (nel senso stretto della parola) a suonare la chitarra, io grattacorde. Eppure, nonostante la distanza, siamo ancora in contatto, ed è davvero una tra le cose più belle che mi ha lasciato il liceo. A lui, però, Rutilio non piaceva affatto: il latino era “barbaro”, rozzo, altroché odi et amo quare id faciam etc etc.
Al momento dell’iscrizione all’Università andò alla Normale di Pisa e all’esame di ammissione, mi raccontò poi, gli chiesero di chi fossero i versi su cui tanto gli ruppi le scatole a 16 anni: non solo glielo ha detto ma gliel’ha pure citati a memoria. Ammesso alla Normale senza riserve, ovviamente. Rutilio ora pro nobis.

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