Ci sono quattro musicisti sul palco. Il chitarrista, uno dei due con l’elettrica al collo, si avvicina al microfono e abbozza un saluto: «Привет!» (Ciao!). È Yuri Dimitrevich Kasparyan, chitarrista dei Kino: senza perder troppo tempo inizia a suonare intonando distintamente le note di una delle canzoni che ha reso famoso il gruppo nel corso degli anni ’80 del secolo scorso. C’è anche una voce che canta ma nessuno dei quattro sta effettivamente proferendo parola di fronte al microfono. Eppure la voce è propagata chiaramente e distintamente dagli altoparlanti: si riesce a distinguere in maniera cristallina. È una voce calda e leggerissimamente gutturale, comunque molto profonda. Nessuno sta cantando il 31 gennaio 2021 a San Pietroburgo assieme ai Kino: non si tratta di una voce del presente. Non appartiene a questo tempo e all’oggi ma ad un vago “ieri”.
O meglio: appartiene agli anni ’80 (anche lei) e li si è cristallizzata per sempre nei dischi dei Kino. Nessuno sta cantando eppure la voce si distingue nitidamente. Il fatto è che la voce di Viktor Tsoi ha cessato di essere associata al corpo che gli apparteneva nel 1990, quando c’era ancora l’Urss e la dissoluzione era a un passo. Il concerto dei Kino senza il frontman ha rappresentato un’emozione enorme per tutti i presenti: nel video del concerto, caricato su Youtube dal gruppo stesso, ci sono evidenti segni di commozione tra i presenti. Metafisica dell’assenza che è anche presenza.
L’argomento che sento l’urgenza di trattare è quello relativo ad una parte della musica pop-rock prodotta in Russia a partire dalla fine degli anni ’70 fino agli anni ’90 del Novecento. Fino, cioè, alla dissoluzione dell’Urss. Un articolo molto interessante sul fenomeno dei kvartirniki è stato scritto da Martina Napolitano per Il Tascabile. Rimando a quello per chiarimenti sull’underground sovietico “d’appartamento”. Se si vuole leggere un post stracolmo di aprioristico sentimento di chi cura questo spazio verso le cose che lo appassionano, allora siete nel posto giusto.
L’invasione russa ai danni dell’Ucraina ha fatto scoppiare un’insensata russofobia per cui non sto qui a citare nuovamente tutto quel che è capitato (ad esempio) alle lezioni e alle presentazioni dello scrittore Paolo Nori, nonché all’assurda “caccia al nemico” che è andata sviluppandosi in questa fase della storia umana. Chi batte queste righe sogna che lo scrittore sopracitato leggesse questo suo post stracolmo di aprioristico sentimento perché la devozione che ha per i Kino è pari a quella che ha per Nori. Ma non è sicuro che possa accadere.
Ad ogni modo, è bene tornare a parlare di Viktor Tsoi e del suo gruppo.
Figlio di un ingegnere di origini nordcoreane e di un’insegnante russa, visse e lavorò a San Pietroburgo dando alla luce un figlio: Aleksandr, classe 1985, uno dei principali sostenitori del progetto di reunion del gruppo e di recupero del materiale d’archivio di suo padre. Prima del concerto nell’ex zona industriale di San Pietroburgo, erano state messe in atto delle prove per poter vedere se la cosa effettivamente potesse davvero funzionare: suonare con Viktor Tsoi senza che lui ci sia, sentire la sua voce e calibrare i musicisti che suonano dal vivo con lui dall’aldilà. In uno dei primi video di promozione del concerto tenuto il 31 gennaio scorso [2021], Aleksandr Tsoi ha commentato l’idea con un semplice, quanto emblematico: «круто!» (figo!).
La contestazione nel rock sovietico
Negli anni ’80 un’altra invasione (che nulla ha a che vedere con la guerra russo-ucraina in atto, tanto per chiarire) aveva portato a galla le criticità e le problematiche del sistema burocratico-sovietico di fine anni ’80: si sta parlando dell’invasione dell’Afghanistan. Uno stato socialista invade un altro stato socialista: cortocircuito politico-ideologico e morti, stragi, eserciti che combattono. Nel 1979 l’invasione dell’Afghanistan aveva iniziato a mobilitare un’avanguardia di persone che si stavano mostrando ostili a quel conflitto insensato: nel 1988 uscirà uno dei dischi più rappresentativi dei Kino e della discografia di Viktor Tsoi.
Canzone che da’ il nome al disco: Gruppa krovi, gruppo sanguigno. Il Vietnam statunitense era ormai passato eppure il movimento pacifista e contro la guerra avrebbe segnato per sempre l’immaginario politico, culturale, musicale della contestazione mondiale. “Run through the jungle” dei Creedence clearwater revival non era solo una canzone quanto piuttosto un manifesto politico contro la guerra e nei confronti dell’insensatezza di un conflitto che, col passare degli anni, si vedeva intensificare in violenza, morti e recrudescenza nei confronti di ogni tipo di resistenza armata contro l’esercito americano.
Gruppa krovi può essere considerata una sorta di manifesto di quell’epoca “dall’altra parte della cortina di ferro”: così come la canzone dei Ccr aveva una marcata valenza anti-bellicista, così “gruppo sanguigno” portava in dote una dura reprimenda nei confronti dell’insensatezza della guerra in atto da ormai troppi anni.
«Il mio gruppo sanguigno lo vedi sulla spalla: augurami buona fortuna quando sarò in battaglia».
Il rock negli anni ’80 parlava russo e non soltanto nei confini delle repubbliche socialiste sovietiche ma anche oltrecortina. Ci furono contatti, in effetti, tra Tsoi e parte della società statunitense tanto che il disco in oggetto venne anche registrato per il mercato d’oltreoceano e le canzoni cantate in inglese.
Non basterebbe un giorno per descrivere la creatività, l’ecletticità dei Kino e del suo fondatore, attorno a cui è stato girato un film “Leto” nel 2018 con una regia russo-francese e una trama davvero peculiare. Il rapporto della contestazione di chi viveva ai margini della società sovietica e suonava rock è descritto in modo curioso e rappresenta una sorta di unicum, fondendo immaginazione e realtà. Celebre l’incontro/scontro tra Tsoi e Naumenko che occupa praticamente tutta la pellicola: “Come fai a dire di poter utilizzare una drum machine per suonare rock? Dobbiamo utilizzare strumenti veri, non roba che ti fa essere pop/dance!”. Naumenko avrebbe voluto rappresentare l’avanguardia del rock sovietico ma non riusciva ad essere al passo coi tempi: i suoi anni ’80 erano ancora in odor di “rock around the clock” mentre Tsoi aveva già lo sguardo posato altrove.
Tra finzione e pellicola, tra racconto filmico e realtà, così anche queste righe si muovono tra una canzone e l’altra, cercando di sgusciare sinuosamente come le note del basso di Igor Tikhomirov. L’atmosfera del paese che stava cambiando e in cui c’era una vita da vivere pienamente, nonostante le contraddizioni della burocrazia sovietica di quegli anni, è rappresentata pienamente da un’altra delle canzoni tra le più iconiche di Tsoi: Trolleybus, filobus.
«Il mio vicino non può andar via: non conosce la strada […] Non c’è autista in cabina, ma il filobus è acceso, il motore è arrugginito, ma andiamo avanti / stiamo seduti senza respirare».
Un’atmosfera che prelude al fenomeno dei doomer e dei gruppi post-punk post sovietici di cui la scena musicale russa – nonché di tutto l’est Europa – pullula, basti pensare ai Ploho, Durnoy Vkus e agli oramai ben più celebri Molchat Doma.
Mia mamma si chiama Anarchia: mio padre è un bicchiere di Porto
Quando la tensione della censura sovietica stava per essere allentata, l’irriverenza e la creatività di Tsoi diedero alla luce una delle canzoni più particolari della sua produzione: “Mamma Anarchia”. Chitarra asciutta, batteria martellante: un brano punk a tutti gli effetti. Alla censura, per far passare la canzone, venne detto che era stata creata con uno scopo ben preciso: irridere il punk occidentale: «l’importante è che mi facciano cantare le mie canzoni e mi facciano suonare», quel che si dice “avere chiaro e limpido quel che si vuole fare nella vita, dato che per mantenere la famiglia e la sua vocazione da rockstar, Tsoi lavorava nei locali delle caldaie del suo condominio (soprannnominata da Tsoi stesso “Kamchatka”).
Sembra di ascoltare un riff tipico dei Sex Pistols o di altri gruppi punk occidentali e, invece, ecco che arriva la voce dell’est:
«Un soldato tornava a piedi a casa / Trovò dei ragazzi per strada. / “Ehi, ragazzi, chi è la vostra mamma?” / Quel giorno chiese loro il soldato. / Mia mamma è l’anarchia, mio papà un bicchiere di porto! / Avevan tutti giubbotti di pelle / E tutti di bassa statura. / Il soldato provò a andare avanti / Però non ci riuscì. / Uno scherzo un po’ insolito / Gli giocarono poi quei ragazzi / Gli pitturarono il viso di rosso e blu / E gli fecero dire parolacce». [1]
Gli pitturarono la faccia di rosso e blu: la futura federazione russa e la Csi stavano sorgendo tra i versi irriverenti di una canzone punk del gruppo più famoso della Russia sovietica; la bandiera tricolore era tanto manifestazione della contestazione quanto dissacrazione del potere militare di quel periodo.
Il video qui sotto riproduce la canzone cantata alla fine del concerto citato all’inizio di questo scritto: le chitarre e la batteria sono acide e corpose al tempo stesso, così come la canzone doveva mostrarsi alle orecchie di chi l’ascoltava attorno al 1985.
Ascoltare i Kino ora, nel 2022, potrebbe rappresentare forse un esercizio vintage, per così dire, specie per gli occidentali. Tuttavia, Viktor Tsoi e il suo essere tutt’ora una vera e propria icona per tutti i paesi russofoni, rappresenta un esempio e un elemento di studio per il rock mondiale.
Di come esso sia, in un certo qual modo, una sorta di koiné che travalica muri e sistemi politico-ideologici.
[1] La traduzione della canzone è reperibile qui: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=45313&lang=it
La foto a corredo del post appartiene al blog “Meg in Moscow” © e ne detiene tutti i diritti.
È visibile qui:
https://moscowmeg.com/2020/10/21/a-staycation-in-moscow/