I Klimt 1918 fanno parte del mio ascolto quotidiano (letteralmente “quotidiano”) da quando avevo 16 anni. Era appena uscito “Just in case we’ll never meet again” e devo averlo notato su una di quelle riviste che adoravo leggere, nonostante i loro articoli pieni di sintassi non indoeuropea, come Metal Shock e Metal Maniac.
Se non ricordo male, venne intervistato proprio il frontman Marco Soellner. Articolone a tutta pagina: foto dei quattro musicisti, spiegazione delle ragioni che hanno portato alla pubblicazione di quell’album. Il voto dato a quel disco fu ben oltre la sufficienza, se ben ricordo, così come il fatto che il recensore lo descrisse giudicandolo davvero molto positivamente. Curiosità alle stelle: mi fiondo in un negozio di dischi del Pigneto e compro il loro primo cd. La prima canzone che ascoltai (“Naif watercolor”), infatti, non apparteneva al nuovo disco bensì ad “Undressed Momento”: nella recensione, l’articolista lo descriveva entusiasticamente ponendolo, tuttavia ma a ragion veduta, un gradino sotto “Dopoguerra”.
Una volta tornato a casa il primo “atto” è stato quello di convertirlo per inserirlo digitalmente nell’iPod.
L’indomani mattina mi trovavo sul 556 per andare a scuola: quella canzone mi accompagnò per tutto il giro attorno a Tor Tre Teste che il bus era obbligato a percorrere. Era inverno e mi sembrava che il tragitto fosse stato brevissimo così come, allo stesso tempo, lungamente etereo. Per giorni nelle orecchie c’è stato il suono delle chitarre di “Naif Watercolor”. Da quel momento in poi non sono più riuscito a fare a meno dei Soellner e della loro creatura dal nome così particolare.
Per un motivo o per un altro, col passare degli anni, non sono mai riuscito ad andarli ad ascoltare dal vivo: spesso anche con motivazioni che poi non sono ben riuscito a decifrare, col famoso e infame “senno di poi” con cui siamo soliti passare in rassegna gli episodi più o meno felici della nostra esistenza. La prima volta è stata quella con la nuova formazione a settembre 2021, a tre anni pieni dall’uscita del meraviglioso “Sentimentale-Jugend”, in quel concerto che è stato promosso come “piccolo concerto di fine estate”. Appena vidi la possibilità delle prenotazioni cliccai subito sul pulsante di invio della mail che avrebbe sancito la presenza futura a quel piccolo e intimo concerto.
In realtà, piccolo concerto a parte, c’è dell’altro. Ovviamente, altrimenti non avrebbe senso questo post.
Stamattina, dopo tantissimo tempo, ho riascoltato “Sleepwalk in Rome”, una delle tracce con cui mi “svegliavo” per andare a scuola. Tralascio, in questa sede, l’evidente contraddizione di svegliarsi con una canzone che si chiama “sleepwalk”, ma tant’è. Georg Wilhelm Friederich Hegel, ora pro nobis.
Quando riuscimmo ad occupare scuola, ero già all’ultimo anno di liceo, così come miei altri compagni approdati a Largo Agosta dopo una più o meno lunga sosta nel liceo di Piazza Zambeccari. La prima sera d’occupazione dormii in palestra con chi era rimasto: eravamo in molti, per la verità. Prima di riposare il corpo lasso, mi misi a parlare tutta la sera con una compagna di liceo e che ora è una delle persone più care che affollano la mia vita, insieme al suo compagno Alessio. Dopodiché, mi diressi a dormire qualche ora prima del turno di guardia delle 4 di mattina: divisi lo stuoino per il sacco a pelo con un altro reduce ex-Kant con cui avevo condiviso un quadrimestre piuttosto delirante. Volevamo dormire con un po’ di musica nelle orecchie, dunque ci dividemmo le cuffie dell’iPod che tenevo in mano: «Devi sentire questi, Simò, sono spaziali».
Ascoltammo tutto “Dopoguerra” e poi mi chiese di rimettere “Sleepwalk”: «Quella che aveva la parte cantata in italiano era stupenda: c’era quella schitarrata che m’ha fatto volà. Rimettila per favore!».
Ci addormentammo uno di fronte l’altro con una cuffia per orecchia e con la voce di Soellner che quasi sussurrava, come fosse una ninnananna: «Stringete lana imbevuta / Mi bagno il viso un’altra volta, no / Non mi dite che / Dovete andare più lontano / Umide vesti scolorite / Che fate male sulla pelle / Come la mota sulla pelle / Le ore lorde degli incanti / I sogni scuri dei perdenti, sì / Scorrono come se / Il buio fosse acqua e terra / Torrente scuro, silenzioso / Le labbra viola seducenti / Umide membra già basite».
Ci addormentammo uno di fronte l’altro con una cuffia per orecchia e con la voce di Soellner che quasi sussurrava, come fosse una ninnananna: «Stringete lana imbevuta / Mi bagno il viso un’altra volta, no / Non mi dite che / Dovete andare più lontano / Umide vesti scolorite / Che fate male sulla pelle / Come la mota sulla pelle / Le ore lorde degli incanti / I sogni scuri dei perdenti, sì / Scorrono come se / Il buio fosse acqua e terra / Torrente scuro, silenzioso / Le labbra viola seducenti / Umide membra già basite».
Mentre stamattina prendevo la metro a Santa Maria del Soccorso, mi è passata davanti quella notte e sono stato attraversato da ogni tipo di sensazione di quel momento vissuto. Le stesse identiche. Come se stessi nel sacco a pelo, anziché entrando dentro i vagoni della linea B.
Prossima fermata “Quintiliani”. Next stop “Quintiliani”.