La stanza è buia e il sole vi entra soltanto tramite le piccolissime fessure della serranda in plastica che è stata accuratamente abbassata, ma avendo l’accortezza di far filtrare quel poco di luce necessario per un risveglio che sia doppiamente dolce e – per quanto possibile – indicante perentorietà. Come a dire: “ehi, guarda, non vorrei dirti nulla, tuttavia dovresti proprio alzarti, lo sai? Se continui a chiudere gli occhi e a stare sotto le coperte sei un maledetto perdigiorno”. Rievocazione manzoniana della stanza dell’avvocato Azzeccagarbugli: la luce del risveglio (come quella della giustizia che illuminava poco e male i codici e i libri aperti dall’uomo di legge) entra fioca e flebile ma decisa a illuminare. «Forse non è poi così presto», pensi. C’è, in questo caso, un dubbio che sale e assale: «La sveglia non ha suonato…». La mano destra arriva rapida e veloce a prendere lo smartphone: lo schermo digitale conferma quanto immaginato. Nessuna sveglia. L’orologio, il fido compagno di ogni lezione che ti dice a che punto devi interrompere ogni ardore da spiegazione circa le motivazioni riguardo la caduta dell’impero romano o sullo scoppio della prima guerra mondiale, l’orologio – insomma – conferma tutto: 9:20, martedì.
«Dio mio: è martedì e non sono andato a scuola… Sarà successo un casino!». La mano destra corre di nuovo a prendere lo smartphone e a sbloccarlo con tutta la rapidità possibile e immaginabile: zero chiamate. «Possibile che la segreteria, la vicepreside, la preside, i colleghi non abbiano detto niente del fatto che, dal nulla, non sia andato a scuola? Ma che già m’hanno licenziato? Va bene che sono in ritardo di circa due ore e venti, però mancoafacosì. C’è qualcosa che non va…».
Ci deve essere qualcosa sotto. La coperta viene alzata dalla mano sinistra con un misto di rabbia e velocità stratosferica: come quando sono le 7:15, hai la prima ora e hai ignorato (in)consapevolmente la sveglia facendo sì che il tuo ritardo sia stato evidentemente già scritto nella storia che devi andare a raccontare riguardo quel giorno in cui potrai dire mesosvegliatoanemmenotrequartidoradallaprima.
Infili i piedi nelle ciabatte e ti dirigi verso il bagno: ti guardi allo specchio. Come nei film, provi a vedere se c’è qualcosa che non va con il tuo aspetto esteriore: ti avvicini sempre di più al vetro che riflette la tua immagine. Gli occhi stanno bene, assonnati, ma tutto pare funzionare. Tiri fuori la lingua: tutto in ordine. Ti tocchi la faccia e ti accarezzi un po’ la barba: i polpastrelli hanno sensibilità, dunque anche in questo caso tutto procede.
Ti avvicini alla finestra: il sole splende, è altissimo. Controlli di nuovo l’orologio: 9:30. Le labbra si inarcano e le estremità corrono verso il basso del viso, spingendo giù verso il mento: il collo asseconda il movimento maxillofacciale nell’espressione che, in un po’ tutto il globo, è definita come BOH.
Poi arriva il momento in cui ti sovviene l’eterno (e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei): la meraviglia dell’assemblea d’istituto.
Soddisfatto, metti l’acqua nella moka: sono le 9:35, la campanella della seconda ora non è suonata, ma a breve la macchinetta del caffè sbufferà. Tra poco danno in replica la rassegna stampa di Radio Radicale.
Nella tua testa risuona il Morgenstemning i ørkenen di Peer Gynt.
(Tutta sta manfrina per dire che, sì: ci vorrebbe un’assemblea d’istituto a settimana)