Il giorno del dì di festa

Un clacson suona in lontananza. O meglio: in strada. Il secondo piano di un condominio non è poi così troppo distante da terra. Probabilmente si tratta di un autobus che non riesce a transitare a causa della cosiddetta sosta selvaggia in cui imperversa la mainstreet torremaurense. Il rumore è ripetuto e distinto: l’autista spinge sulla parte cliccabile del volante dell’automezzo aziendale con molta forza, dando spinte a intervalli più o meno regolari. In tal modo si segnala, al proprietario che ha posteggiato il veicolo, il suo essere andato contro la norma che prevede il divieto di sosta in quel preciso punto della strada. Finalmente arriva l’automobilista, prova ad abbozzare una scusa con la mano destra: il palmo è rivolto verso il finestrino dell’autista mentre con la sinistra tiene saldamente le chiavi che dovrà inserire nell’apposito spazio all’interno del cruscotto del mezzo. Bastano pochi secondi e il traffico riprende a scorrere regolarmente. Riesci a sentire tutto distintamente, anzi: piuttosto nitidamente distingui ogni rumore che ha preso parte a questo siparietto che va in scena in più momenti nel corso del giorno, delle settimane, dei mesi e – infine – degli anni. Una sorta di costante torremaurense nell’ambito del teorema del parcheggio e della sosta: macchina messa male, di solito posta in doppia fila o obliqua, 313 che non passa. Fila, clacson, santi del calendario che vengono invocati e invitati, uno dopo l’altro, ad abbandonare la sede sapientiæ e a scendere sulla terra. Immancabile, nel caso la situazione non si dovesse sbloccare nel giro di qualche minuto, il negoziante che esce dal suo esercizio commerciale per guidare l’autista in ipotetiche manovre millimetriche: “CE PASSI, CE PASSI”. E poi, invece, “non ce passa”.

La stanza è buia e il sole vi entra soltanto tramite le piccolissime fessure della serranda in plastica che è stata accuratamente abbassata, ma avendo l’accortezza di far filtrare quel poco di luce necessario per un risveglio che sia doppiamente dolce e – per quanto possibile – indicante perentorietà. Come a dire: “ehi, guarda, non vorrei dirti nulla, tuttavia dovresti proprio alzarti, lo sai? Se continui a chiudere gli occhi e a stare sotto le coperte sei un maledetto perdigiorno”. Rievocazione manzoniana della stanza dell’avvocato Azzeccagarbugli: la luce del risveglio (come quella della giustizia che illuminava poco e male i codici e i libri aperti dall’uomo di legge) entra fioca e flebile ma decisa a illuminare. «Forse non è poi così presto», pensi. C’è, in questo caso, un dubbio che sale e assale: «La sveglia non ha suonato…». La mano destra arriva rapida e veloce a prendere lo smartphone: lo schermo digitale conferma quanto immaginato. Nessuna sveglia. L’orologio, il fido compagno di ogni lezione che ti dice a che punto devi interrompere ogni ardore da spiegazione circa le motivazioni riguardo la caduta dell’impero romano o sullo scoppio della prima guerra mondiale, l’orologio – insomma – conferma tutto: 9:20, martedì. 

«Dio mio: è martedì e non sono andato a scuola… Sarà successo un casino!». La mano destra corre di nuovo a prendere lo smartphone e a sbloccarlo con tutta la rapidità possibile e immaginabile: zero chiamate. «Possibile che la segreteria, la vicepreside, la preside, i colleghi non abbiano detto niente del fatto che, dal nulla, non sia andato a scuola? Ma che già m’hanno licenziato? Va bene che sono in ritardo di circa due ore e venti, però mancoafacosì. C’è qualcosa che non va…».

Ci deve essere qualcosa sotto. La coperta viene alzata dalla mano sinistra con un misto di rabbia e velocità stratosferica: come quando sono le 7:15, hai la prima ora e hai ignorato (in)consapevolmente la sveglia facendo sì che il tuo ritardo sia stato evidentemente già scritto nella storia che devi andare a raccontare riguardo quel giorno in cui potrai dire mesosvegliatoanemmenotrequartidoradallaprima.

Infili i piedi nelle ciabatte e ti dirigi verso il bagno: ti guardi allo specchio. Come nei film, provi a vedere se c’è qualcosa che non va con il tuo aspetto esteriore: ti avvicini sempre di più al vetro che riflette la tua immagine. Gli occhi stanno bene, assonnati, ma tutto pare funzionare. Tiri fuori la lingua: tutto in ordine. Ti tocchi la faccia e ti accarezzi un po’ la barba: i polpastrelli hanno sensibilità, dunque anche in questo caso tutto procede. 

Ti avvicini alla finestra: il sole splende, è altissimo. Controlli di nuovo l’orologio: 9:30. Le labbra si inarcano e le estremità corrono verso il basso del viso, spingendo giù verso il mento: il collo asseconda il movimento maxillofacciale nell’espressione che, in un po’ tutto il globo, è definita come BOH.

Poi arriva il momento in cui ti sovviene l’eterno (e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei): la meraviglia dell’assemblea d’istituto. 

Soddisfatto, metti l’acqua nella moka: sono le 9:35, la campanella della seconda ora non è suonata, ma a breve la macchinetta del caffè sbufferà. Tra poco danno in replica la rassegna stampa di Radio Radicale. 

Nella tua testa risuona il Morgenstemning i ørkenen di Peer Gynt. 

(Tutta sta manfrina per dire che, sì: ci vorrebbe un’assemblea d’istituto a settimana)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *