O forse è solo l’inferno. Fino al 30 giugno sarò ad un Liceo delle scienze umane di Roma, in una scuola del centro, di quella parte di città in cui uno va perché ha qualche pratica burocratica da risolvere oppure per andare a vedere un film al cinema.
Entro in una tra quelle che saranno le “mie classi” fino al termine delle lezioni. Inizio a parlare di storia in un quarto superiore: manco a dirlo, sono già indietro con la programmazione.
Docente assente per un mese e mezzo, arriva una supplente che sta lì 10 giorni contati, fa in tempo a svolgere quattro ore, poi arrivo io.
Parlo un po’ della guerra dei trent’anni e della crudeltà sottesa a quest’evento bellico, del fatto che una guerra di religione sia rapidamente sfociata in un conflitto legato a tutto il continente europeo e che «arriva a coinvolgere la Russia».
Una studentessa, ragionando ad alta voce, dice: «Che poi, prof, la Russia non vince mai, come nelle due guerre mondiali».
Io rimango basito, il fervore mi attraversa tutte le vene del corpo e balla coi globuli rossi che corrono veloci dalla punta del mellino fino al dito indice che “brandisco” manco fosse Durlindana. Rimango impassibile nonostante il terremoto di scala Richter che sta avvenendo nel mio corpo: «In che senso, cara?»
«Nel senso – prof – cioè almeno da quello che ci hanno detto alle medie, la Russia riesce sempre a vincere grazie all’inverno. Cioè: in Russia fa freddo e a un certo punto le truppe si ritirano perché non sopportano le temperature rigide».
Avvampo e alzo la voce brandendo Durlindana (il dito indice) sempre più in alto.
«Nient’affatto: nella Seconda guerra mondiale la Russia ha stravinto contro i nazisti; la popolazione ha resistito eroicamente all’assedio nazista di Leningrado; li ha messo in fuga a Stalingrado: i tedeschi non hanno vinto più manco mezza battaglia ritirandosi sempre e, una volta tornati, a Berlino hanno fatto combattere le milizie cittadine tra gli ultimi uomini rimasti in città (coscritti) e i ragazzini di dieci anni ma alla fine l’esercito sovietico ha issato la bandiera rossa sul Reichstag!».
«E l’inverno non c’entra davvero, prof?»
«Ma certo, ci sarà pure la variabile del freddo ma il dato incontrovertibile è che nel 1941 i nazisti invadono la Russia sovietica e si macchiano di violenze indicibili contro la popolazione perché sono slavi e gli “ariani” li considerano inferiori. I russi vogliono far vedere loro che sono i nazisti ad essere inferiori: soprattutto militarmente».
«E nella prima allora? Lì hanno perso i russi, o no?», continua, non vuole credere che tutto quello che le è stato insegnato sia una sonora minchiata.
«Nella prima i russi si sono ritirati perché la guerra era insensata: si moriva al fronte per lo Zar mentre l’esercito, la gente, voleva la rivoluzione, il socialismo: voleva andare contro chi li stava mandando a morire di fame o a causa delle pallottole tedesche/austriache. E poi nel 1917 si sono ritirati perché – ad un certo punto – non è più esistito neanche più lo Zar: c’è stata la Rivoluzione, quella con la R maiuscola».
Forse alzo un po’ troppo la voce, forse mi sono lasciato prendere, anche perché eravamo partiti dalla guerra dei trent’anni. Però la classe è ammutolita, come se avessi detto loro che a breve il palazzo dove eravamo anche noi sarebbe crollato in un attimo.
Due ragazzi annuiscono in silenzio, uno fa all’altro: «E così, allora, me spiego pure perché c’era Berlino divisa», e l’altro: «È proprio n’altra storia, almeno ho capito qualcosa».
Considerazioni (poche e immediate) a margine.
Non sarà affatto facile scalfire il muro di cinta della narrazione anti-storica costruita ad hoc nel corso di questi anni. I ragazzi non hanno una visione d’insieme ma tanti piccoli pareri di svariati docenti che arrivano e poi sono costretti ad andarsene da quella stessa scuola in cui sono stati per poco tempo. Un condominio di dodici piani che si regge su una “incrollabile” struttura di stuzzicadenti. Prima o poi tutto crollerà: quando quel giorno arriverà, il botto si sentirà molto lontano.
Tuttavia, la questione è seria: per mesi i ragazzi non hanno docenti, le classi restano scoperte a lungo, la programmazione ne risente pesantemente. Ognuno di loro vorrebbe arrivare a capire come si è arrivati al punto in cui siamo oggi, dopo le guerre mondiali, studiando il Novecento: quello che è stato raccontato loro fa abbastanza ridere. Forse lo sanno, è per questo che, appena smetti di parlare della guerra dei trent’anni e ti infervori, loro stanno zitti e ti guardano.
Perché forse non avevano mai sentito parlare di tutto questo prima di quel momento in cui tu, brandendo il dito/Durlindana, hai parlato, in preda a vampe bolsceviche.
La nuova umanità verrà, ne sono certo. Anche se la sensazione è quella del suo allontanamento dall’orizzonte, ogni giorno sempre di più.