Si faceva chiamare Eric Carr ed è stato il batterista dei Kiss nel momento di prima crisi e successiva trasformazione del gruppo-azienda statunitense.
Alla fine degli anni ’70 il quartetto mascherato era abbagliato dalle luci del successo e i loro brani stavano via via assumendo una vena pop sempre più marcata: lo spettro della canzone “usa-e-getta” era ormai ben presente in tutti i loro dischi. Quel periodo venne rappresentato magistralmente da “I was made for lovin’ you”: canzone tutt’ora molto famosa che non rappresentava niente dello spirito di “Hotter than hell”, tanto per citare uno de dischi più rappresentativi della prima fase del “bacio”.
Gli anni ’80 premevano, i Kiss erano in difficoltà, droga e alcool iniziano ad essere sempre più presenti nella vita del quartetto: Ace Frehley è costantemente ubriaco prima di ogni concerto e in svariate occasioni ufficiali; Peter Criss viene sostituito da un altro batterista (Anton Fig) per la registrazione di Dynasty (1979) a causa del suo continuo abuso di droghe.
La salvezza del gruppo americano verrà da lontano: si chiama Paul Charles Caravello, figlio di italiani emigrati negli USA. Assumerà il nome di Eric Carr per suonare coi Kiss e andrà a sostituire il batterista, e co-fondatore della band, Peter Criss.
I Kiss sono ancora truccati e lui non ha deciso quale animale o personaggio fantastico interpretare. Ci pensa su qualche tempo: sceglie quello della volpe, anche se lo terrà pochissimo in volto. Nel giro di due anni il gruppo decide di fare a meno del cerone e di rivelarsi al pubblico con le proprie facce optando per la moda del momento, inseguendo le sonorità glam.
Prima di farlo, Carr ha tempo di registrare due album col trucco da volpe: “Music from: The elder” e “Creatures of the night”. Dopo sarà la volta del disco dal sobrio (gulp!) nome “Lick it up!”.
Né “The elder”, né “Creatures of the night” riescono però a risollevare i Kiss e a tirarli fuori dal baratro in cui s’erano cacciati: la fama, l’abuso di droghe e alcool li aveva resi porosi al successo istantaneo. “Le insegne luminose / attirano gli allocchi”, avrebbe cantato in Italia qualche anno più tardi l’attuale eremita di Cerreto Alpi. E sì che “The elder”, se ascoltato decontestualizzato dalla storia del gruppo, rappresenta tutt’ora una piccola gemma: un gruppo che sta ritrovando l’identità perduta e si inventa una colonna sonora di un film che manco esiste. Roba da visionari.
Il glam impazza, l’hair metal anche, così come il thrash. Il pubblico dei Kiss diminuisce sempre di più. Tiene una grande, ma non vasta, schiera di fedelissimi che continuerà a seguirli in ogni occasione.
I tempi di “Alive” sono lontanissimi.
Eric Carr, però, è deciso a dimostrare quel che vale e ce la metta tutta. Durante i concerti la sua presenza è sempre più predominante nonostante sia minuto dietro ad un “drumkit” immenso: doppia cassa (a volte tripla!), dagli 8 ai 12 tom, set di piatti che sovrasta la montagna di tamburi e, al di sopra di tutto questo, delle placche simil-batteria elettrica che fungevano da riproduzione di suoni tipo synth.
Mastodonticamente kitsch.
Eric Carr è organico in tutti i dischi del gruppo fino al 1991 quando viene a mancare a causa di un brutto male. L’ultima canzone che suonerà coi Kiss sarà “God gave rock’n roll to you II” (sul cui testo è meglio sorvolare) e l’ultimo tour che intraprenderà sarà quello terminato nel 1990 a seguito della pubblicazione di “Hot in the shade” noto al grande pubblico più per la copertina che per le canzoni in esso contenute: la Sfinge con gli occhiali da sole. Anche in questo caso, per me è impossibile trattenermi, da bravo nicchista: “Hot in the shade” contiene alcune tra le canzoni più belle della storia del gruppo “Hide your heart” e “Forever”. Certo, arrivano gli anni ’90 e i Kiss iniziano ad abbandonare le zeppe e il trucco da donna, si vestono con le magliettine giro-ombelico dell’Everlast e con le sneakers; i giubottini di piume (ora cari ai Måneskin) vengono sostituiti da quelli di pelle; la matita sotto agli occhi è un ricordo lontano, così come lo smalto nero sulle unghie; le Gibson rimangono ma sono molto più sobrie rispetto alle Washburn anni ’80 piene di brillantini e glitter dei vari concerti di promozione di “Animalize”.
Ma Eric Carr batteva tutti anche in quest’ambito e ha sempre suonato, fino all’ultima esibizione, con gli occhiali da sole tondi. Sobrietà al potere.
«Non ho nient’altro da dire su questa faccenda».