Una capatina in Euzkadi

Quest’estate mi sono concesso quasi due settimane tra Bilbao e il nord della Spagna: in Euzkadi, insomma, il Paese Basco.  dove la lingua spagnola è denominata castellano e l’idioma più frequentemente utilizzato è l’euskera.

A Bilbao è facile e meraviglioso perdersi tra le vie del Casco Viejo. Tutto appare diverso rispetto all’ordinarietà della periferia romana: abituato alle costruzioni irregolari, a vie che finiscono con cancellate o che seguono il corso di un muricciolo basso costruito prima della gettata d’asfalto, anche la periferia bilbaina sembra logica e razionale. Palazzi alti, appartamenti generalmente più piccoli dei nostri e dai soffitti piuttosto bassi, riempiono i quartieri alla fine della città, come quelli di Abusu, La Peña e Olatxu Auzoa. 

Inaspettatezze

Non credo che il termine esista, in caso sarà un neologismo. Il secondo giorno di permanenza a Bilbao decido di andare a scattare qualche foto per il Casco Viejo. Pioviccica, o almeno, agli occhi di un romano sembra che stia pioviccicando, ma la finestra su Zamakola Kalea (Calle Zamakola, Via Zamakola) sembra voler comunicare tutt’altro clima. «Attento al txirimiri: Bilbao è famosa per la pioggia fina e incessante che ti entra in tutte le parti del corpo e oltrepassa i vestiti. Finisci per non accorgertene e sei bagnato fin dentro alle mutande». Ci penso su: anche a Roma è così: la pioggerella che fa finta di bagnare, arriva e sporca tutto quel che può. Pensiero colpevole di ingenuità plurima.

Rendersi conto che tra la pioggerella di Roma e lo txirimiri c’è un abisso, è stata la prima scoperta e conseguente consapevolezza della mia permanenza in Euzkadi. Prendo la macchina fotografica dal nastro  di tessuto che dovrebbe essere posto attorno al collo: lo giro due volte attorno al polso ed esco imbacuccato con un k-way del Decathlon. Seguendo un corso di fotografia a Roma, l’insegnante ci ha detto che uscire a fare foto sotto la pioggia si può e si deve fare, tuttavia deve essere protetto l’apparecchio. Quindi, nell’ordine: prendere un sacchetto da alimenti di quelli che vanno nel congelatore, un elastico, tagliarne l’estremità sigillata per far sì che possa uscirci l’obiettivo; ripetere l’operazione per il corpo della macchina. 

Non ho fatto niente di tutto questo perché: massì, ma tanto poi smetterà di piovere. È piovuto 24 ore su 24 con pochi attimi d’interruzione e sporadica comparsa di un timidissimo sole. La macchina ha continuato a scattare imperterrita: nonostante l’età sembrava voler dimostrare di farcela benissimo, al pari di tutte quelle moderne mirrorless compatte da strapazzo. Il punto non è la macchina fotografica, quanto più il soggetto che la impugna avvezzo a foto storte, non centrate, fuori fuoco. La specialità di chi scrive: 800 scatti, 4 buoni. C’est la vie. 

¿Eres periodista?

Mentre mi perdevo per le vie del centro storico della città, fotografando serrande di locali con vistose ikurriñas disegnate su di esse, o con falci e martelli o ancora con simboli propri dei centri sociali, si affaccia una signora anziana da un balcone. La via è abbastanza stretta: sembra una delle calli di Venezia, una di quelle non proprio minuscole. Piove, al solito: txirimiri incessante, il mio cappuccio del k-way non è nient’altro che un riparo garibaldino dalle infinite gocce che stanno finendomi anche sotto le unghie dei piedi. Gli occhiali sono costantemente pieni di gocce e di condensa del mio respiro: una visione da aerosol ambulante. In strada, ovviamente, non c’è nessuno, ma di questo parlerò più avanti. Si affaccia dal balcone, dicevo, una signora sulla settantina rivolgendomi qualcosa in euskera e additandomi con l’indice della mano destra, muovendolo avanti e indietro: ce l’ha con me. Provo ad arrabattarmi con quel poco di spagnolo che ho appreso leggendo i comunicati delle organizzazioni comuniste latinoamericane e iberiche: «Yo no hablo euskera: solamente castellano». La signora chiude gli occhi e annuisce, contemporaneamente indietreggia e ripropone la mano verso di me ma, stavolta, aperta, come a dire: si okay, aspetta che mi devo sintonizzare sullo spagnolo. Parla di nuovo: «¿Eres periodista?», sei giornalista? Che diavolo ne sa questa tizia che in teoria sarei giornalista? È una frazione di secondo, penso: “Ora le dovrò raccontare tutto? Perché in teoria lo sono ma che non lo sono davvero? Che devo dirle?”, il turbinio di pensieri si interrompe quando rifletto che la cosa migliore da fare è assecondare la tipa: «Si, soy periodista pero soy italiano, no español ni frances». «Aah, venga vale: es que todos aquí conocemos a los periodistas y no eres de los que viene solitamente». Controllo del territorio: non sei uno di quelli che viene abitualmente, “chi sei? che vuoi da noi?”. Una sorveglianza così capillare del controllo cittadino l’ho riscontrata solo nei piccoli centri della Sardegna. È stato come sentirsi a Sant’Antonio di Santadi dopo la manifestada a Capo Frasca (2013, ma sembra davvero passato un secolo).

Ongi etorri errefutxiatoak

“Benvenuti rifugiati”. Si tratta della versione in lingua basca del motto “Refugees Welcome” che anni addietro fece irruzione nell’opinione pubblica riguardo la popolazione siriana, in fuga dal Vicino Oriente per arrivare in Europa. Le bandiere gialle, insieme a quelle che chiedevano l’amnistia per i prigionieri politici della stagione dell’ETA e del terrorismo, campeggiano sulla maggior parte dei balconi bilbaini e delle ringhiere antistanti le finestre dei palazzi. Inutile dire che a queste due bandiere viene sempre accostata l’ikurriña. La coscienza civile e antifascista di Bilbao sembra essere viva e consapevole: non che non esistano le destre, ma qui l’egemonia culturale, nonché la fusione tra il socialismo-comunismo e l’indipendentismo, sembra avere ancora una certa rilevanza. Certo, al governo c’è il PNV, ma il sottobosco culturale della sinistra indipendentista e comunista è più che presente. Ancora un riferimento de coro viene senza neanche volerlo troppo ad a Manca pro s’Indipendentzia, il partito comunista e indipendentista sardo, che poi ha lasciato spazio all’esperienza del Fronte indipendentista unidu e ad altre organizzazioni. 

A proposito di bandiere, una volta arrivati a Bilbao: di fronte la Catedràl, cioè San Mamés, lo stadio dell’Athletic Club, campeggiava un caseggiato piuttosto imponente di almeno sette piani; all’ultimo di essi ho notato una bandiera spagnola repubblicana. Non quella attuale monarchica, dunque, ma quella gialla, rossa e viola. Mi giro verso Angel: «Guarda! Una bandiera repubblicana!», lui, scherzosamente, risponde: «Si vede che vuole mostrare il fatto di essere fieramente anti-basco». Inizialmente non capisco, poi si spiega meglio: «Qui le persone sono per l’indipendenza nazionale del Pais Vasco: quindi o mostrano l’ikurriña o niente. Se tu vuoi mostrare la bandiera spagnola significa che sei uno spagnolista, uno che all’indipendenza non è che ci bada troppo. Anzi. In questo caso il tipo sta affermando il suo essere spagnolista e repubblicano… nel Pais Vasco: un’affermazione audace!».

L’Athletic

«Que Atletico?! No es Atletico, es a-t-h-l-e-t-i-c-c-l-ù-b: es inglès, no castellano!», Ramon, il fratello di Angel, è socio da quasi trent’anni. L’Athletic è un’istituzione: «Es como tu piel, no se explicar bien ma es solamente nuestro, l’Athletic, y ninguna ciudad del mundo tiene un club así». Ogni volta che entro in casa di Ramon mi accoglie indossando una maglietta diversa dell’Athletic: immutati colori, cambiano gli sponsor o l’anno di appartenenza della camiseta. Oltre ad essere un’istituzione, l’Athletic vive e sopravvive grazie all’azionariato popolare: l’iscrizione al campionato è assicurata grazie ai soci che ogni anno versano la quota di iscrizione alla società e sono proprietari della squadra in base a quanto hanno versato. 

I racconti di Ramon sono nitidi, le immagini di attaccamento alla maglia estremamente vivide, le parole – anche se in castellano – estremamente chiare anche alle mie orecchie. Ogni singola sillaba mi riporta al recente passato di Roma e della scena di calcio popolare: una meteora terminata troppo presto. L’Ardita, la Spartak Lidense, l’Atletico San Lorenzo: di queste tre rimane in vita solo l’ultima a cui – con pieno spargimento di cuore, come scriveva Pietro Giordani a Giacomo Leopardi – è bene augurare ogni bene e ogni successo. Così come, allo stesso modo, è bene ricordare la Borgata Gordiani, nata nell’ultimo lustro e che, territorialmente, è ormai diventata cardine irrinunciabile per il gruppo di sostenitori (e non) di Villa Gordiani. Terza, seconda, prima categoria o Promozione: spesso queste squadre calcano campi di terra o sabbione (specie in provincia), a Bilbao è tutta un’altra storia. L’Athletic disputa la serie A e la Cattedrale, lo stadio, nuovo di zecca, in pieno centro città, sta lì a dimostrare che non serve avere in squadra Messi o Cristiano Ronaldo: «somos el mejor equipo del paìs y representamos la mejor ciudad del mundo!». La moglie di Ramon abbassa lo sguardo sorridendo: «I bilbaini sono molto modesti, come hai visto!». 

Quarantacinque mila soci e più. La base sociale dell’Athletic consta di una popolazione grande quasi quanto il quartiere in cui abito: ogni dieci persone c’è un socio compromisario, ovvero delegato, che partecipa alle assemblee ed elegge il presidente, discute del bilancio e via dicendo. Una sorta di Parlamento interno targato Athletic Club. Il video qui sotto non lo sottotitolo perché è effettivamente molto comprensibile.

Ovviamente, il club che fa giocare nella propria squadra solo giocatori di nazionalità basca, deve necessariamente avere un supporto molto ben radicato nella città. È il caso delle decine e decine di squadre affiliate all’Athletic sparse per Bilbao: Danok Bat, Santutxu FC, Otxar Koaga sono solo alcuni nomi di società giovanili e dilettantistiche che fungono da cantera dell’Athletic. Il figlio di Ramon, Gorka (nome più che basco!),  per qualche anno era componente effettivo della prima squadra dell’Otxar Koaga: il campo è nelle immediate vicinanze del loro caseggiato popolare. Sì: a Bilbao esiste l’edilizia popolare ed è il contrario di come ce la immaginiamo. «Quando verrai a Bilbao – mi ha detto un giorno Angel – ti accorgerai che la periferia non è come qui: a Roma sembra essere stata creata con cattiveria, perché tu possa sentirti escluso da ogni cosa e lontano dal centro città. A Bilbao i palazzi popolari, las viviendas municipales, spesso non li distingui dagli altri». 

Txurdinaga è un quartiere popolare limitrofo a Santutxu: «immagina Tor Bella Monaca ma con servizi, metro, sedi di partito, federazioni calcistiche locali, associazioni, insomma: pieno di vita e non di criminalità. Bueno: c’è anche qui, ma mai come a Tor Bella o Torre Angela o Torre Maura!». 

Il campo dell’Otxar Koaga a Txurdinaga
Il campo dell’Otxar Koaga a Txurdinaga

Uno dei due campi del Danok Bat

“Dos canetas, gracias”

Il primo giorno ho rischiato il coma etilico. Scherzo, ovviamente. Tuttavia, la pratica paniberica di andare per bar e bere qualcosa ad ogni posto in cui ci si trattiene, è più che comune. Così come quella di non uscire prima delle 17:00: se si dovesse uscire alle 14:00 o, ad esempio, alle 9:00 è facile che non si trovi nessuno per strada per ore. Si pranza tardi, non prima delle 14:00/14:30, spesso anche le 15:00; lo stesso vale per la cena: consumarla alle 20:00 fa di te il classico turista tedesco che a Roma pranza alle 11:00 con gli spaghetti surgelati e la tazza di cappuccino di fronte al Colosseo e dice Wuuuundabaaar, mentre si mette in posa per farsi scattare una foto storta dal cameriere. La seconda sera siamo usciti per andare a cena alle 22:30. Tutto normale, così come pure i miei sbadigli. 
Non mi soffermerò molto sui chili presi, sui pintxos, o su quanto io abbia oltremodo bevuto, farò in modo che le foto parlino da sole:

Vale lo stesso anche se stavamo a Donostia

Vale lo stesso anche se stavamo a Donostia
Un aneddoto breve, ma molto tenero, è doveroso. Non mi vedevo con Almudena da un paio d’anni, dunque con l’occasione siamo andati a visitare il Guggenheim e poi ci siamo fatti due passi insieme ad una sua amica. Erano le 19:30, io pregustavo di decidere dove andare a cenare. «Beh, birretta?», dice Almu rivolgendosi a noi. Nelle mie vene c’era più luppolo che sangue: inutile dire che ho accettato. Sembrava alquanto scortese rifiutarsi di bere insieme. Appare altresì superfluo menzionare quanto fosse affollato quel bar sull’Erripa Kaia. 


Azkarate
«Si tu vai, mira, no c’è niente: solamente un frontòn para jugar a frontenis pero solo eso». Una settimana l’ho trascorsa in completo isolamento nelle montagne, ad Azkarate, dove la popolazione censita non arriva neanche a 100 persone fermandosi a quota 98. Ci si svegliava con il suono dei campanacci appesi al collo delle mucche e delle pecore, alle 8:00 di mattina la niebla copriva tutte le montagne più alte della zona: poco più di mille metri, ma l’effetto scenico da Signore degli Anelli era più che assicurato. 
Al frontòn, oltre la pelota basca, si può giocare a frontennis (cioè con la racchetta da tennis) o con il pallone da calcio e, dunque, senza supporti per lanciare il pallone addosso al muro. La pelota e il frontennis  sono più che popolari nella quotidianità di chi vive nel Pais Vasco: anche ad Azkarate ce n’era uno tenuto piuttosto bene e con le delimitazioni del campo riportate rigorosamente in euskera
La natura, ad Azkarate, la faceva da padrona: non c’era nient’altro che vegetazione e verdissimi prati: l’Irlanda era vicinissima, nonostante stesse dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, ben più a nord. La permanenza in quel posto sperduto delle montagne della Navarra (o Nafarroa) scorreva placida secondo regole e tempi opposti a quelli a cui siamo abituati. Si regolava l’orologio con il campanile della chiesa, si vedevano le stelle e si sentivano muggire e belare gli animali. A ridosso dei primi di agosto passava qualche macchina: ci si intratteneva con chi parlava in euskera, non con me, evidentemente. L’aria era sottile e riempiva i polmoni: spesso le nuvole si addensavano ed ecco che arrivava il solito txirimiri

Questa foto vuole essere un pensiero per ricordare Juanmi, venuto a mancare qualche giorno fa mentre era intento a percorrere un sentiero in montagna

In realtà dovrei scrivere ancora molto altro: di Donostia, dell’Oceano, ma ho il timore che se continuassi a scrivere, diventerebbe un post interminabile e il pollice del lettore, adibito allo “scrolling” sullo schermo del telefono, potrebbe deteriorarsi a forza di scorrere. Per cui, forse, meglio tacere e non proseguire oltre.

Giusto qualche altra foto…

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