Qualche anno fa sono andato a Lisbona. Davanti la Torre di Belém ho pensato che sarebbe stato bellissimo srotolare la sciarpa giallonera dell’Ardita e mandare la foto agli altri con cui stavamo portando avanti quel progetto, pur consapevoli che gli eventi lo stavano conducendo ad una fine che nessuno avrebbe voluto. O, almeno, nei cuori di chi animava la squadra, in campo e fuori, nessuno avrebbe voluto veder chiudere quell’esperienza. Eppure è quel che è successo. Analizzarne le cause, le motivazioni, le concause per cui questo è avvenuto non è il caso di farle ritornare a galla. So solo che un giorno, davvero, come si canta negli stadi mi innamorai di lei, dell’Ardita, del Nicolino Usai, di quel campo di Pietralata, della Terza Categoria, degli “assistenti di parte” al posto dei guardalinee, rammaricandomi di non averla conosciuta prima quando si chiamava Ardita San Paolo. Quando disputava le proprie partite su di un campo di terra battuta.
Le vicende della Super Lega (https://sostienepiccinelli.blogspot.com/2021/04/la-super-lega-e-la-morte-del-calcio.html) mi hanno riportato alla mente di quando, per un momento, sia a Roma che in Italia il movimento del cosiddetto calcio popolare stava non solo gettando le basi per costruire qualcosa di alternativo ma lo stava davvero praticando, riuscendoci. Impensabile, mi dicevo. Eppure stava succedendo. Gli anni sono passati troppo rapidamente e al movimento in rapida anabasi successe, con altrettanta repentinità, di accartocciarsi su se stesso. Catabasi profonda. Certo, esistono ancora delle realtà ma purtroppo devono far fronte ad un mondo – calcistico e sociale – ancor più spietato di sei o sette anni fa. Sostenere chi ancora ci riesce è un dovere morale, civile, politico, sociale. Penso alla Borgata Gordiani, che dopo il bruttissimo episodio di violenza nel parco, ha aperto il megafono per far parlare il quartiere esprimendo la solidarietà della comunità che rappresenta; penso all’Atletico San Lorenzo, che ha da poco compiuto 10 anni e che possa compierne altri 10.
Penso a loro e mi convinco che niente è perduto finché c’è chi si batte per un presente, un avvenire e un poi diverso dall’ora che – evidentemente – fa un po’ schifo.
Sei anni fa, davanti la torre di Belém. |
Per puro amarcord, pubblico anche un post che avevo conservato da qualche parte e che non avevo ancora mai pubblicato: credo ne valga la pena. (Luglio 2015)
Cronaca sghemba di un tizio alle prime armi con la cronaca sportiva.
Ma il titolo potrebbe anche essere: “di proposte umorali, errori, paesaggi pre-urbanizzati”, la scoperta dell’Usai di Pietralata.
«E perché non Casal Barriera — Spes Montesacro?», tolgo gli occhi dal computer come se avessi trovato un tesoro inestimabile sullo schermo e dovessi raccontarlo immediatamente al mio vicino di scrivania, altrimenti chiamato caporedattore.
«Scontro salvezza! Perché no?!». E’ mattina, una piovosa e fredda mattinata di un venerdì dei primi di febbraio, ho accordato una delle tre partite che sono andato a vedere nel fine settimana di metà del mese: campionato Juniores d’élite del Lazio, girone A del 2014/2015, anno primo della collaborazione con il ‘Nuovo Corriere Laziale’.
Con la scusa che devo andare a vedere delle partite di diversi campionati giovanili regionali, imparo l’ubicazione dei campi in cui le più disparate società sportive del quadrante sud est romano disputano le loro gare; le società sportive i cui nomi sono noti solo agli addetti ai lavori, così come la caratterizzazione grammaticale dell’articolo determinativo femminile o maschile nella descrizione della stessa. In sei mesi di collaborazione ho vagato tra Tor Tre Teste e Tor Bella Monaca, passando per Prenestino, Pietralata, San Basilio e affini.
Quello di Pietralata, più degli altri, me lo ricordo perché il campo è completamente di terra e avvallamenti, dico ‘e avvallamenti’ perché parte integrante del campo stesso: ci sono andato a vedere una delle mie prime partite dei campionati provinciali, dei giovanissimi provinciali. In quel giorno si fronteggiavano Sporting Roma e Borgo don Bosco, l’arbitro era una ragazza della sezione di Tivoli con dei lunghissimi capelli ricci.
La partita, non molto prodiga di emozioni, era finita zero a zero con un episodio molto caratteristico: il centravanti dello Sporting Roma si era fatto vedere più volte nella tre quarti avversaria, aveva tirato un numero imprecisato di volte e la palla era sempre uscita fuori, compiendo ogni volta lo stesso percorso, all’ennesimo tiro finito fuori il guardalinee — un compagno di squadra del centravanti sopracitato — getta rabbiosamente a terra la bandierina lasciandosi andare nell’eloquente commento “e vabbè, ma dai, ma pure io ce riuscivo a segnà stavolta!!”.
Molto meno diplomatica, come al solito, si è dimostrata la sezione parentale degli astanti sulle tribune di pietra del campo: un urlo belluino parte verso il campo, con tanto di mano tesa posta a fianco della congiuntura destra delle due labbra “AO GUARDA CHE SI NUN SEGNI NUN TE FACCIO MAGNAAA!”.
Riprendendo il filo del discorso, sabato 14 vado a vedere Casal Barriera — Spes Montesacro: la partita, sulla carta, doveva essere una facile vittoria per la squadra casalinga contro l’ultima in classifica, staccata di sei punti. Lo stadio, anch’esso nella zona del tiburtino come quello prima scritto, si trovava dalle parti di Via dei Durantini, o meglio, al vicolo di casale rocchi. Non essendo molto pratico della zona, ed essendo fiducioso che un supporto tecnologico fosse più o meno valido all’opera umana, decido di controllare l’ubicazione del ‘Nicolino Usai’ con l’opzione delle ‘indicazioni stradali’ di google maps e già sorgono le prime complicazioni: in redazione mi ero appuntato Via di Casale Rocchi e mi ritrovo catapultato su Vicolo di Casale Rocchi sulla mappa virtuale. Il lettore romano di quelle parti, leggendo questa mia ignoranza riguardo la via in questione, sorriderà mentre quello che abita in tutt’altra zona si porrà lo stesso problema di chi, come me, si era messo alla ricerca dell’’Usai’: a Roma, specialmente nelle borgate sviluppatesi sulle statali che terminano in –ina, la differenza tra Via e Vicolo non è una questione della pur famosa lana caprina, bensì un problema dirimente che l’autista deve essere in grado di porsi.
Anche perché, ad esempio, chi è che non si è scontrato tra Via e Vicolo di Porta Furba, cercando di capire come vi si entrasse (!) da Via di Porta Furba? In ogni caso, decido di andare lo stesso a Via di Casale Rocchi e, per fortuna, le indicazioni stradali poste dalla società sportiva all’inizio della via mi guidano. Imbocco Vicolo del Casale Rocchi e mi si para davanti un paesaggio pasoliniano, di quelli descritti in ‘Ragazzi di Vita’: la strada è piccola, stretta, piena di buche sopra di un asfalto che avrà visto molte più disgrazie consumarsi che amori nascere; a sinistra ci sono due cancellate coperte su cui c’è scritto a vernice parcheggio privato — non sostare; a destra una palazzina che, con tutta probabilità, sarà stata costruita quando l’erba spadroneggiava sul cemento e l’asfalto era solo quello della strada che ti portava a Roma, non al centro, d’altra parte nel quadrante est si dice ancora vado a Roma; al di sotto della palazzina, poi, c’era una carrozzeria che ora è abbandonata.
Un cartello dell’Atac indica una fermata di una linea proprio di fronte alla palazzina post-bellica e alla ‘carrozzeria’, ai piedi del cartello giallo c’è uno di quei bidoni di latta che, nell’immaginario dei film oltreoceano, vengono usati come camino per l’accensione di un fuoco da abitanti di quartieri poco raccomandabili di gigantesche metropoli.
La strada prosegue e l’indicazione per il ‘Nicolino Usai’ è a destra ma, cammina cammina, non vedo campi, e sì che normalmente non è difficile perdersi campi da gioco o stadi: di lì a qualche metro incontro un signore anziano che, dall’aspetto, avrà avuto una settantina d’anni, e io, confortato dalla presenza di una persona nel bel mezzo di una zona a me sconosciuta, abbasso il rapidissimo finestrino del lato passeggero della rampante Y su cui viaggio da un po’.
«Scusi, per il campo di calcio…sempre dritto?», «Un chilometrë, e ddavandë».
Dall’accento, dalla frugalità con cui il concetto veniva espresso e dall’estrema sinteticità quasi ermetica, ho dedotto che quell’anziano signore avrà avuto origini marsicane.
‘Confortato’ dalle indicazioni del signore, proseguo sulla stradina che, continuando ad essere a doppio senso, si annodava in curve a destra e a sinistra, si lasciava alle spalle il caos della periferia e dei clacsons che suonano ad ogni scatto di semaforo e, finalmente, portava al campo. Arrivato lì mi risuonano in testa le parole che pronunciava Nanni Moretti in ‘Caro Diario’ riguardo la morte di Pasolini, mentre si passava fra le mani delle copie di giornali che riportavano la notizia.
La stradina tortuosa finiva, sostanzialmente, col campo dell’Aces Casal Barriera: parcheggio la macchina in uno sterrato alle pendici di una sorta di incavatura che copriva il sole, non che ce ne fosse molto dal momento che si era in febbraio e che la partita si disputava nel pomeriggio. Quando mi sono presentato alla redazione del ‘Corriere’ non ero abituato né al dibattito calcistico né alla cronaca sportiva, sebbene mi interessassi di nicchismo e anche di quello nell’ambito calcistico, andando a sviscerare e cercare di porre l’attenzione su quei campionati che agli dei più sono talmente inutili che non sono degni neanche di uno sguardo, come quello delle Isole FarØer o, meglio ancora, in Groenlandia (a tutti coloro i quali stanno aggrottando le ciglia e avvicinandosi allo schermo a seguito della lettura dell’ultima nazione citata: sì, in Groenlandia si gioca anche a calcio).
Certo è che col passare dei mesi, magari ancora pochi, ho fatto sì che l’andare a vedere gare di squadre meno blasonate, magari già in lotta per la salvezza nel girone di ritorno, fosse una costante determinante per il lavoro che andavo facendo. Così come il principio dell’allontanamento dalle categorie giovanili per quelle puramente dilettantistiche dall’Eccellenza in giù, con un particolare interesse per Prima, Seconda, Terza Categoria e alle nuove forme di organizzazione di società sportive, come l’azionariato popolare et similia. Insomma, quella partita il Casal Barriera la perse 3 a 0: scontro fra cenerentole, praticamente, in cui la Spes Montesacro, giallonera come l’Asd Ardita, aveva mostrato un carattere e un gioco fino a quel momento sopito, verrebbe da dire.
In un contesto quasi surreale, in cui i rumori dei clacsons, delle sirene di polizia e ambulanze neanche erano percepiti, il timido sole veniva coperto da un costone di una collina alle pendici della quale l’Usai sembrava fosse stato scavato. Poi, il ritorno: riprendere la stradina, quella del signore marsicano di cui sopra, è stato decisamente più facile. Tornare ad accettare il fatto che non ci fosse più l’eco di chi stava sugli spalti ma la rabbia e lo stridio delle gomme sull’asfalto, un po’ meno.