L’immagine-testuale a corredo del post non è stata scelta a caso. Forse quello che ho scritto provocherà ire da parti di tante e tanti. Pazienza. L’intento non è quello di far adirare nessuno, piuttosto di ragionare insieme. E se, poniamo il caso, qualcuno a seguito di queste “riflessioni a voce alta” mi vorrà dire “non sono d’accordo con quanto hai scritto, ma vorrei che ne parlassimo insieme”, sarà per me motivo di felicità estrema. Detto questo, cominciamo.
Non vorrei accodarmi a quella fin troppo vasta schiera di persone che hanno analizzato con fin troppa sommarietà e supponenza i dati elettorali che le elezioni di domenica hanno consegnato al Paese.
Vorrei riflettere a voce alta con chi vorrà, quei quattro lettori soliti e non manzoniani, riguardo quello che è successo domenica. Perché una cosa va detta: nessuno ha ben compreso la portata del voto europeo del 26 maggio, men che meno io che sto ragionando a riguardo, fornendo un personale punto di vista ad una riflessione collettiva abusata di errori e dibattiti attorno a luoghi comuni.
Chi vota?
La questione del chi viene prima del che, tanto in questa quanto per quel che riguarda altre consultazioni elettorali: è andato a votare il 56,1% degli aventi diritto, dato in calo rispetto al 58,7% del 2014. Si avvicina sempre di più la soglia della metà che va a votare e l’altra metà che resta a guardare. Nessuna forza politica pare porsi questo problema che è principale. Valutare le europee di maggio, così come quelle del 2014, sulla base delle percentuali e non di voti effettivi equivale a giocare una partita di calcetto in cui una squadra gioca con 5 componenti e l’altra con 2 persone: la vittoria è certa, la sostanza del gioco assente. Se si dovesse ragionare sulla base dei voti, ogni percentuale avrebbe un consistente ribasso e solo pochissime forze politiche hanno prodotto analisi in tal senso.
Di batoste, incrementi e opinioni
La sinistra è certamente la lista che più di tutte ha subìto il colpo elettorale: un affondo dato prima di tutto ai dirigenti delle formazioni politiche che hanno composto il cartello in oggetto, sempre pronti a sommare le proprie forze, nonostante esse siano in forse, e il triste gioco di parole è decisamente voluto. Un dato che colpisce indirettamente anche me, benché non sia un attivista delle organizzazioni che ha dato vita alla lista, che ho vissuto la parte discendente della parentesi della sinistra comunista italiana da militante del Pdci: dal 26 maggio le “dirigenze” della sinistra non esistono più. Qualora ci siano e dovessero presentarsi, provocherebbero danni incalcolabili: citofonare Rifondazione, Diliberto, Pdci/Pci, Sinistra italiana, Vendola e chi più ne ha più ne metta. Così come per la lista Europa Verde: la mediaticità dei temi ambientali mai come adesso è stata così alta, eppure gli ambientalisti italiani hanno dato la prova di rappresentare il movimento più residuale e settario del continente. Ma questa è un’altra storia.
Tornando a La sinistra, la percezione nei confronti dell’elettore medio (non io dato che non li ho votati: coming out) è stata quella di un’organizzazione davvero posticcia e che non dovesse andare oltre il proverbiale periodo che intercorre fra la notte di Natale e Santo Stefano. Pare, a tal proposito, che si sia convocata un’assemblea a riguardo e immagino già come finirà.
Partito comunista. Qui la questione è più complicata. Voglio bene ai miei ex compagni, che recentemente hanno anche aperto una sezione a San Lorenzo, ma il discorso che fanno, secondo me, non sta in piedi. Certo, ammettono, c’è stato un incremento consistente del partito che è passato dallo 0,3% delle elezioni politiche allo 0,88% delle europee. Nessuno mette in dubbio un aumento di oltre centomila voti, tuttavia alle politiche la lista comunista non era presente in svariate regioni e, semmai si dovesse considerare quello avvenuto come un incremento, personalmente opterei per un discorso inverso analizzando le europee come “primo (vero) test a livello nazionale di presenza elettorale del partito”. Il che ridimensionerebbe la questione.
A questo si aggiunga che le elezioni scorse hanno consegnato un dato che né La sinistra, né il Pc, né tantomeno dalle parti di Pap (non presente sulla scheda elettorale) hanno avuto il coraggio di analizzare: il voto a sinistra è diventato un semplice voto d’opinione: l’elettorato zoccolo-duro del passato non esiste più. Sarebbe interessante che da tutte e tre le parti in causa si ragionasse su questo, magari producendo delle analisi a riguardo.
Che fare?
Fontamara e Vladimir Ilic, pregate per noi. Battute a parte. La situazione è decisamente tragica, benché c’è chi si ostini a trovare venature di «ottimismo della volontà». Parlando qua e là con qualche attivista e compagno sparso tra le varie organizzazioni della sinistra, sono rimasto decisamente basito riguardo la decisione di alcuni: “Non è rimasto più niente – dicono – tanto vale entrare all’interno del Pd costituendo una corrente organizzata”. Non solo si tratterebbe di una sconfitta storica e l’abbandono della posizione che faticosamente si è mantenuto nel corso degli anni, ma di una sconfitta ideologica di proporzioni bibliche. Abiurare al proprio credo politico per abbracciarne un altro di colore e segno decisamente opposto e ostile solamente perché, non c’è più null’altro di meglio, si traduce nell’anti-azione politica necessaria in questa fase. E ci (pluralis maiestatis) fa capire che non solo la mancanza di alternativa prodotta in questi anni (alternativa reale, beninteso, non gli arcobaleni e le rivoluzioni civili) ha prodotto sfaceli politici, ma ne ha generati anche di psicologici a partire da l’altro ieri. Si arriverà ad una polarizzazione de facto che il bipolarismo aveva solo sognato e che ora si sta concretizzando senza che si sia mosso un dito: un duopolio “destre”-Pd perché “non c’è di meglio”. Ma c’è anche un altro punto da toccare. Il vero che fare: la prassi. Si deve arrivare ad una consapevolezza nuova, tra i poveri resti dell’extraparlamentarismo a sinistra, di modo che solo costruendo un cambiamento a partire da noi stessi, ritrovando le motivazioni che ci hanno spinto tempo fa alla militanza e all’azione, di fronte all’inanità generale, si riesca a generare una coscienza rinnovata. Una consapevolezza che ritrovi l’azione a partire dalla fontanella del quartiere e che arrivi a dare una prospettiva di lungo periodo: non sto parlando di grandi cose o discorsi astrusi, ma piuttosto di un necessario radicamento territoriale che deve avere la precedenza su qualsiasi altra azione.
Credo, ma è una mia opinione da quattro soldi, che solo così potremmo davvero uscirne.
Semmai ci riusciremo.
P.s. (almeno una gioia: l’immagine sottostante parla da sé: ciao +Europa, non ci mancherai)