"Facebookizzazione" del dibattito politico. Le 'big brother' c'est moi

La mia home page di Facebook stamattina mi ha proposto questo nuovo progetto made in Zuckerberg: Facebook Politics. Ovvero: «una guida per usare Facebook al fine di interagire con gli elettori e creare la tua community on line».  La cosa è sufficientemente inquietante, dal mio personalissimo punto di vista. È in atto la massiccia facebookizzazione della politica, molto più di quella avvenuta nell’ultimo decennio:  una multinazionale, che certamente evade tutto quel che è possibile evadere in termini di tassazione dato che ha la sede a Dublino (bellissima l’Irlanda, ma è un paradiso fiscale), impone parametri per organizzazioni politiche e per “la trasparenza delle elezioni”.
Ovviamente questo si intreccia a doppio filo con la questione delle notizie finte, le “fake news“, cosiddette, che hanno più volte fatto notizia nel dibattito politico-culturale italiano, anche recentemente. Il controllo delle notizie da parte di Facebook è preoccupante, parlare di fake news significa poter dire di avere modo (di essere in grado) di distinguere quelle notizie fake (finte) da altre non fake. Di conseguenza essendo a conoscenza chi dice la verità e chi non la dice, anche se questo genera un risvolto che si potrebbe ben immaginare: chiunque dica di conoscere la verità su di un fatto, in realtà, lo dice a scopo politico, la verità oggettiva, nella nostra società così pervasa da informazione, stimoli e consumi, praticamente non esiste. Soprattutto se a parlare di fake news sono Facebook o i grandi gruppi editoriali che si fondono l’un l’altro per galleggiare nel mercato editoriale e affermare, sostanzialmente, le stesse cose. 
Gli uni (Facebook e le multinazionali ad essa affini) affermano la propria contrarietà attorno al tema per generare profitto e ergersi a paladini dell’informazione, creando da un lato dissenso e dall’altra consenso, giustificando le proprie scelte con ogni mezzo a disposizione.
Gli altri (grande distribuzione editoriale) perché spesso sono essi stessi contenitori di notizie non confermate e fornite perché si ha la necessità bisogno di tappare quel dato buco nella data pagina, oppure creando un caso mediatico (anch’esso dai risvolti tutti politici) perché il taglio che si è dato alla tale notizia andrebbe conto a questa o quell’altra forza politica sulla cresta dell’onda. 
Avere modo di riconoscere le notizie fake e le non-fake, è un compito arduo e chi si spende in tal senso sta sicuramente adoperandosi per un impegno molto nobile, il problema è che non si dovrebbe lasciare mani libera agli uni e agli altri sopra citati, anche se già glielo si è permesso da molto tempo.
Se gente normale, diciamo meglio: “l’elettore medio”, ritiene che andare su “ilfattoquotidaino” equivalga al “fattoquotidiano” perché il logo è più o meno simile, il problema si pone esattamente per chi condivide link del Giomale anziché quelli del Giornale, magari cliccando anche sui banner che affermano di far perdere peso in venti giorni con limone e curcuma.
Come dire: è uno sporco affare che sta (facendo finta) di combattere chi ha generato tale affare. La metafora del capitalismo: ti vende un problema ma poi ti vende anche la soluzione. 
Non solo: ma chi ha generato tale affare possiede anche le mani libere per decidere chi è fake e chi non lo è, così com’è successo per il Venezuela. Non appena l’autoproclamato presidente Juan Guaidò è stato riconosciuto dagli Usa, ogni social network gli ha apposto a fianco al nome la “nuvoletta” azzurra che indica che si sta trattando di un profilo verificato e che diffonde informazioni di interesse nazionale, sottraendola a quello del legittimo Presidente Nicolas Maduro.
Non curandosi (o, al contrario, facendolo deliberatamente) del fatto che dal profilo di Juan Guaidò venivano veicolate immagini, foto, video che producevano fake news sul Venezuela.

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