«ma se vi fermaste a guardar con noi a parlar v’accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai».
«quando per strada noi passiam/voi vi voltate per guardar/vivete pure se vi va/ma non dovreste giudicar/ci vuole poco ad immaginar/quello che state per pensar».
Non essendo un testimone diretto di quegli anni (infausta classe ’92) mi limito ad interpretare l’insofferenza che traspare manifestamente dalla canzone. Insofferenza ma, insieme, presa di coscienza di una nuova morale che stava sviluppandosi in quegli anni, giusta o sbagliata che fosse, nelle cosiddette giovani generazioni.
Uno fra tutti: Achille Lauro.
Tralascio volutamente disquisizioni su Mahmood perché la reazione nella dilaniata opinione pubblica italiana (qualora ne esistesse ancora una) è stata duplice ma entrambe mi hanno provocato una violenta orticaria musicale, intellettuale, sociale, politica: i primi, afferenti alla sfera della sinistra radical-chic, parteggiano aprioristicamente per l’italo-egiziano affermando, in modo molto semplicistico e bambinesco è bravo, bene che abbia vinto anche se è chiaramente una bugia. I secondi, facendo parte della destra liberal-ma-anche-un-po’-salviniana-ognitantotendoilbraccio, inveiscono aprioristicamente perché è egiziano e, anzi, parteggiano per Ultimo per ripicca nazional-nazionalista. Anche questa, beninteso, reazione puramente fanciullesca.
Questa somiglianza si sostanzierebbe non tanto nella musica quanto con la volontà di ribellione al costume tradizionale della canzone italiana, semmai ancora ne esistesse una dato che il cantautorato come lo ha conosciuto il Belpaese è scomparso da tempo.
La realtà è che la cultura capitalistica (o, se volete, il feticismo delle merci) diffusa massmediaticamente, di cui la canzone di Lauro de Marinis ne è stracolma, è un sintomo di quello che è questa fintissima ribellione moderna allo status quo:
«Vestito bene Via del Corso […] No non c’è niente da capire/Ferrari bianco si Miami Vice»
passando oltre, ovviamente, al discutibile gusto di un Ferrari bianco.
La moderna “ribellione” si gioca tutta sui tratti propri di un’esclusione aprioristica del soggetto che vorrebbe lo stravolgimento: De Marinis, è vestito bene, in contrasto con il corpo tatuato; canta probabilmente senza sapere quali note stia producendo, eppure è sul palco di Sanremo.
Tutto questo per dire che, spesso, ci si trova di fronte a delle ribellioni ben controllate, che nulla hanno a che vedere con uno stravolgimento dello status quo: quella di Lauro sembra essere inserita in questo solco. Così come tutto il “movimento” della trap in Italia: l’estremizzazione del rap ostentando tutto quello che si fa in chiave criminal friendly.
Una trappola. Bella e buona.
In conclusione: si definisce la trap una «subcultura giovanile» che si «oppone alla tendenza culturale dominante»: una subcultura che, di fatto, ammette quella dominante del capitale e della monetizzazione di qualsiasi tipo di valore, sia esso umano, ambientale, musicale, materiale. E questo vale per ogni altra autodefinita subcultura: i centri sociali, ad esempio, definitisi subcultura, abbiamo visto la fine molto ben integrata al sistema che hanno fatto. Ben lungi dal disordine nel sistema che avrebbero voluto provocare, oggi esponenti di spicco di alcuni centri sociali si ritrovano ben acclimatati nelle direzioni di partiti tutt’altro che di sinistra (rivoluzionari, qualsiasi cosa voglia dire per costoro, manco a parlarne).
La trap sta tutta dentro questa dialettica dei nostri tempi che non distrugge e non trasforma nulla (scusaci Lavoisier) ma che peggiora una tendenza culturale che risente di un clima sociale ben poco edificante, estremizzando concetti e comportamenti che rimangono ben dentro il solco del consumo.