«La Ballata di un amore italiano non nasce libro – spiega l’autore – ma testo teatrale per uno spettacolo che scrissi qualche tempo fa». (Ballata di un amore italiano, Davide Longo, Feltrinelli, pp. 111, euro 12). Longo, infatti, prima di romanziere, nasce come sceneggiatore di teatro e di programmi radiofonici. La sua ballata prende forma durante la frequentazione della scuola di scrittura Holden di Torino. Doveva essere portata in teatro, ma poi è diventata «radiodramma in cinque puntate» con tanto di voce di Natalino Balasso. Ma poi, lavorando e meditando più e più volte sul testo, tagliando e cucendo varie parti, ne è uscito fuori un rommanzo con l’ambizione di essere innovativo, perché alterna prosa e versi.
«Ballata di un amore italiano» di Daniele Longo. Nostalgia agrodolce di un paese oggi smarrito ma che ha conosciuto tempi migliori
Ho ritrovato, per puro caso, sbirciando tra i backup del computer, il primo articolo che ho scritto per ‘il manifesto’, il 31 dicembre 2011. Un momento prima, in sostanza, che il quotidiano fallisse e rinascesse con la nuova cooperativa ‘il nuovo manifesto’ la cui storia è nota ai più.
Un prosimetro? Non proprio. Semmai, un romanzo che vuole intervallare delle parti in prosa a delle parti in rima in cui Renata, protagonista della scena principale delle pagine, parla con se stessa o forse parla anche con qualcuno ma che non sta ad ascoltare. Un dialogo con se stessa, magari una confessione. Tutto si apre con delle prove, il sound check dell’orchestra che accompagnerà Checco, l’altro protagonista, e Renata per tutta la durata delle centosei pagine del libro. Le pagine scorrono in fretta, una dopo l’altra come le canzoni suonate dall’orchestra (a volte denominata con una punta di disprezzo «orchestrina»), brani che riportano i due protagonisti ai tempi lontani della loro gioventù. Passano i secondi, i minuti delle canzoni come i ricordi e allora via con la carrellata di «amarcord» che fa tornare Checco in decappottabile e Renata lasciata sola durante le nozze proprio dal novello sposo. Motivi di lavoro, perdonati, ma riaffiorano tutti, senza alcun rimpianto o nessun tipo di rimorso. C’è solo il ricordo di qualcosa che non c’è più. «Un altro giorno è andato / la sua musica ha finito/ quanto tempo ormai passato, passerà», scriveva il cantautore Francesco Guccini.
Longo percorre le canzoni di un’Italia che ha conosciuto tempi migliori, come l’amore di Checco e Renata che però a distanza di anni rimane solido perché hanno voglia di riscoprirsi. Lui che litiga con la famiglia di lei, la abbandona durante le nozze, ha ancora qualcosa da dire e, mentre la cantante dell’orchestra si destreggia tra un sol diesis e un la minore, Checco e Renata giocano a chi si ricordava più dettagli del primo giorno in cui si sono incontrati o com’erano vestiti alla festa di chicchessìa e via dicendo. Giocano a fare i ragazzi, forse lo sono ancora sotto la loro età anagrafica che si può solo percepire. Giocano a fare gli innamorati. Il tutto intervallato con momenti di riflessione in versi, momenti in cui l’autore taglia con l’accetta il tempo trascorso, la notte che Renata ha trascorso da sola a Capri perché Checco doveva tornare indietro. Alle canzoni, ai ricordi, al tempo trascorso, ai numerosi alcolici, si aggiunge il ballo, altrimenti che «ballata» sarebbe?
Ballando tornano indietro nel tempo, si rivedono giovani, attirando gli sguardi degli altri mentre ondeggiano tra una nota e l’altra. Ma a loro non importa.