Il termine partigiano, letteralmente, indica colui che ‘prende parte’, ‘assume una posizione’ in contrapposizione di un’altra. Celebre, in tal senso, è lo scritto di Antonio Gramsci del 1917.
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.[…]Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
La Storia Contemporanea ha, poi, traslato il termine in quello di formazioni armate che combattono in un territorio occupato dal nemico. Giovedì 8 settembre sono stato alla Cerimonia della Consegna delle Medaglie della Liberazione che s’è svolta in Campidoglio, più precisamente alla Sala della Protomoteca.
Mi ero portato la macchina fotografica, oltre a monitorare quel che accadeva, per un reportage fotografico da inserire nel comunicato stampa dell’ANPI di Roma.
I fotografi stavano accalcati alla destra di chi riceveva le medaglie, consegnate ai partigiani da due componenti istituzionali, di cui uno — l’assessore alla cultura — faceva le veci del Sindaco. Scatto dopo scatto, inizio a chiacchierare con un signore alto e sorridente, con una camicia bianca un poco aperta sul petto: ha forse poco più di quarant’anni, è lì per suo padre, se non ricordo male, e finisce che ci presentiamo.
Ci stringiamo la mano, giornalista anche lui: «mi avrai visto in televisione».
La faccia non mi è nuova, tuttavia non riesco ad inquadrarlo. Continuiamo a scattare quando ci riveliamo di essere entrambi iscritti all’ANPI: «Io a Tor Bella Monaca», dico, «la sezione c’è da poco: neanche due anni». Scivoliamo sulla questione referendaria e sento che inizia col dire, un po’ stizzito: «Non riesco a capire perché l’ANPI debba trascinare tutti i suoi a votare per il No. Alla fine è una libera scelta».
Io, che ultimamente evito accuratamente i dibattiti sensibili dalle tematiche sensibili con chicchessìa, mi giro un po’ stupito distogliendo lo sguardo dalla macchina e dalle foto: «Come, ‘non riesco a capire’», dico, «l’ANPI deve prendere posizione. E deve prenderla per il ‘No’, non ci sono alternative a riguardo».
Il giornalista si gira verso di me e, un po’ accalorato — ma anche alteratosi leggermente data l’importanza del dibattito — mi fa: «Ma chi l’ha detto?! Ma questo lo dici tu! Mio padre vota Sì, è un partigiano: io voto sì! L’ANPI non può mica decidere per tutti, eh!».
Rimango un po’ basito e cerco di rispondergli a tono: «Ma, scusi, l’ANPI è un’associazione di partigiani. Partigiano è colui che ‘prende parte’, ‘parteggia’, ‘assume una posizione’. Perché l’ANPI non dovrebbe assumerla?».
Lui, ancora più risentito, continua a muovere la mano, stringendo la destra in un unico gesto, come quello che si fa ad un interlocutore per comunicargli che sta dicendo una cosa non vera, continua: «Ma perché è una cosa ideologica entrare in questo dibattito!»
Il dibattito si fa serrato: «Certamente è ideologica: l’impianto della modifica Costituzionale lo è, prima di ogni cosa», faccio io, evidentemente basito ed oggettivamente meravigliato dall’argomentazione (palesemente) fallace di un giornalista, iscritto all’ANPI.
«Ma assolutamente no: se fai così entri nel merito della riforma: l’ANPI mica deve entrare nel merito della questione! Così fai ideologia!», si ferma un attimo e poi riprende con lo sguardo verso la platea, risentito come prima «già mio padre ha ridato la tessera della CGIL, vediamo se pure io devo ridarne una e se sarà quella dell’ANPI».Ci salutiamo poco dopo, mi dice «Auguri, per tutto. Certo, per il referendum no, io spero che vinciamo noi».“Noi”.
Tornando a casa, nel lungo tragitto che mi separa tra il Campodoglio e casa, mi sono interrogato su quelle parole e su quel dialogo, sul perché mi sia iscritto all’ANPI e sul perché abbia deciso di intraprendere un preciso percorso di attivismo, parallelamente a quello militante in un’organizzazione politica e al lavoro giornalistico.
Il ragionamento era — per la verità — fin troppo banale, anche se ero ancora meravigliato da quello che aveva detto il giornalista: per quale motivo un iscritto ad un’associazione partigiana, quindi che opera una scelta scegliendo “una parte” per l’appunto, non dovrebbe entrare nel merito di una modifica costituzionale che investe la propria associazione in primo piano? Investe l’ANPI in primo piano per il semplice fatto che è l’organizzazione partigiana che ha racchiuso tutti i combattenti della guerra antifascista e della Resistenza fin dal 1945, prima delle varie scissioni del ’48 e del ’50 di FIVL e FIAP, e che, quindi, ha cacciato il nazifascismo dal proprio Paese e ha pagato col prezzo più alto l’ottenimento della democrazia.
L’ultimo punto, in effetti, è il fattore che più mi ha fatto riflettere sul carattere della de-ideologizzazione di ogni dibattito e dell’ipocrita tematica di possibilità di lavoro congiunto, nella contingenza di questa o quella fase, su determinati argomenti o tematiche comuni.
La divisione su un argomento centrale come quello della Costituzione non è fatto o questione secondaria: è, semmai, la più portante delle divisioni, come lo è quella quella sul modello di sviluppo del Paese e del Mondo; è impossibile affermare la propria condivisione nei confronti di una modifica Costituzionale pretendendo che l’associazione dei Partigiani d’Italia non prenda posizione.
Qualche anno fa, infatti, ho avuto modo di intervistare un antropologo culturale a proposito del post-ideologismo, mi disse testuali parole:
«Non si può parlare di post ideologico, come antropologo dico che non si può vivere senza ideologia: l’ideologia è la visione del mondo. Nella mia ottica antropologica, o anche gramsciana: non si può vivere in un mondo post ideologico, come non si può vivere in un mondo post culturale: noi siamo esseri umani e viviamo dentro un sistema di valori e dentro un connettivo sociale».
Mi rimbombavano in testa, infatti, le parole scritte da Gramsci: odio chi non parteggia.
Rimettendo a posto l’obiettivo e il computer nello zaino, prima di lasciare la Sala, ho avuto tempo per pensare, dato che la macchina l’avevo parcheggiata a Circo Massimo.
Molto, molto perplesso.