«Il torto del soldato è la sconfitta. La vittoria gli giustifica tutto.
Gli Alleati hanno commesso contro la Germania crimini di guerra assolti
dal trionfo». Se vinco io i miei crimini sono giustificati dall’aver
vinto, se perdo mi si ritorce contro ogni cosa. Così dice il padre della
ragazza, voce narrante della seconda parte del romanzo di Erri de Luca
Il torto del soldato (Feltrinelli, pp. 96, euro 11). Un piccolo, grande
romanzo che ruota attorno a un rapporto di affetto filiale scosso però
dalla Storia che irrompe nella vita apparentemente normale di un anziano
uomo e della sua figlia, che decide di prendersi cura di lui, non
volendo però conoscere il passato nazista del padre. Per lei, infatti,
la gravità dei crimini commessi dal genitore non mette in ombra
l’affetto e l’amore che sente per lui.
La ragazza vuole solo scrivere
una storia personale, che nel suo svolgersi qualche volta si
interrompe: digressioni, riflessioni intime che si chiudono con un
«chiedo scusa della digressione» molto poco formale. Come scrive nelle
prime righe che introducono la seconda parte del volume, reale inizio
della vicenda, sono in realtà una tenerissima confessione: «Scrivere per
me è calzare scarpe con i tacchi a spillo. Vado piano, ondeggio e mi
stanco presto. So che m’interromperò spesso».
Nel libro si parla di
come è stata soffocata la rivolta nel ghetto di Varsavia e di come i
nazisti chiamassero «puro» ogni pezzo di territorio dopo aver cacciato,
ucciso, sterminato gli abitanti ebrei. Ma brani interi sono dedicati
alle pratiche correnti, ordinarie dell’oppressione nazista. In questo
romanzo, tuttavia, Erri De Luca ha voluto porre sotto la lente di
ingrandimento l’ossessione per la sconfitta del criminale di guerra
sfuggito alla cattura e divenuto un postino che, nel suo ultimo giorno
di lavoro, riceve in regalo il libro della kabbalà ebraica. Quella sarà
la sua ossessione: cercare attraverso quel volume le ragioni della
sconfitta tedesca. Possiede occhi solo per la kabbalà e testa solo per
poter affermare che il suo torto è stato di essere sconfitto,
concludendo sempre i suoi ragionamenti con un «è la pura verità» che
lascia poco spazio a obiezioni.
Nel ripercorre il suo rapporto col
padre, la ragazza fa appello alla memoria e evoca molti episodi della
sua infanzia, tra cui una vacanza ad Ischia, dove ha incontrato un
ragazzo sordo-muto molto più grande di lei che però le ha insegnato a
nuotare. Era tenero, quel ragazzo, possedeva una dolcezza rara per la
quale si distingueva da ogni altro essere umano. Proprio quel ragazzo
che le sfiorava la pancia per farla mantenere a galla ad Ischia, aveva
ritrovato, o meglio, crede di averlo ritrovato in Trentino, dove era
andata per un’altra normalissima vacanza. Non sapeva che
quell’appuntamento con il giovane era stato prescritto al padre dalla
kabbalà.
Ha ritrovato il viso, il sorriso e i gesti di quel ragazzo
in un signore molto più grande di lei. Aveva notato che possedeva dei
fogli scritti in yiddish; anche il padre ci aveva fatto caso e si era
irrigidito. «Non mi prenderanno vivo. Ne hanno catturati mille di noi,
ma non farò la fine di una foglia d’autunno che si arrende», pensa tra
sé e sé il padre, che crede di essere stato scoperto da quell’uomo
quando aveva pronunciato la èmet, «uno di loro».
Usciti di fretta,
padre e figlia se ne vanno in macchina. Ma il vecchio nazista continua a
ripetere di non volere essere catturato; lei invece vuole ancora vivere
e così si butta dal finestrino della macchina mentre l’anziano padre
plana con la sua macchina sui verdi campi del Trentino come fosse un
aeroplano. Da quel momento in poi, la storia è riavvolta come un nastro.
Il filo conduttore saranno quei fogli scritti in yiddish, che
scandiscono una quotidianità sul filo della memoria. E del dolore.
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