Articolo apparso su ilmanifesto del 19 maggio 2012
Dieci autori del mondo politico e culturale per raccontare il lavoro al giorno d’oggi, dieci racconti per mostrare cosa vuol dire «lavoro» in Italia e in Europa. Argomento controverso, discusso ma mai compreso pienamente dalla classe politica attuale che ha portato il mondo del lavoro alla situazione di stato comatoso e vegetativo, dal punto di vista politico, in cui versa in questo momento. Imperversa il lavoro nero ed affanna il lavoro regolarmente denunciato, annaspa il lavoro a tempo «indeterminato» ed è sempre più in voga il contratto «a tempo» o addirittura il lavoro senza retribuzione. Leggendo il volume collettivo Lavoro Vivo (Edizioni Alegre, pp. 192, euro 14) colpiscono in particolare i racconti di Carlo Lucarelli, Gianfranco Bettin e Stefano Tassinari, lo scrittore e intellettuale militante morto la scorsa settimana. Tassinari scrive del «ricordo amaro di un’assenza» (il titolo del suo racconto) e dell’attesa di un’espressione che non vorrebbe sentire «non c’è più niente da fare», quasi da film. Un padre che se ne sta seduto a fianco al letto del figlio, pieno di fili, tubi, cavi e mascherine, un padre che ripensa al perchè il figlio si era deciso ad entrare in cantiere: «per seguire quel maledetto esempio» ovvero quello dei suoi genitori che studiavano e si pagavano gli studi. Ci vuole troppo tempo per montare un’impalcatura, bisogna impiegare poco tempo per finire il lavoro e quindi niente casco perchè «non c’è bisogno di protezioni se uno sa fare bene il suo mestiere», come dice l’ingegner Bevazzi, nel racconto di Carlo Lucarelli. Spietato Lucarelli nel raccontare ciò che succede al protagonista, alla moglie e a Domenico, ex-fidanzato della moglie defunto a causa di un incidente sul lavoro. Vengono in mente le parole della canzone «Era bello il mio ragazzo» di Anna Identici, a leggere questi racconti, vengono in mente le situazioni: «Sono grande ormai lo vedi prendo il posto di mio padre/ son capace a lavorare/ non ti devi preoccupare/ Era stanco il mio ragazzo in quel letto di ospedale/ma mi disse: “Non fa niente, solo un piccolo incidente/quando si lavora sodo non c’e’ soldi da buttare/non puoi metter troppa cura per far su l’impalcatura”. /Era bello il mio ragazzo col vestito della festa/ l’ ho sentito tutto mio, mentre gli dicevo addio». «Devo dirti una cosa», questo il titolo del racconto di Lucarelli, è una storia che si dipana pagina dopo pagina, mentre sale l’ansia: un sindacalsita giovanissimo si sta occupando di morti bianche e riprende in mano il caso di Domenico, l’ex-fidanzato della moglie del protagonista. Lo esamina: è un caso strano, sembra quasi che Domenico, o «lo Scirò» come lo chiama il giovane sindacalista dandogli il cognome, sia morto su quella Vespa perchè c’era stato appositamente messo. Era andato a casa del protagonista di cui Lucarelli non fornisce il nome e dalla moglie Maria che al solo sentire il nome «Domenico Scirò» non ha capito niente e quando il marito è poi rientrato a casa gli aveva detto che era passato «un ragazzo del sindacato» che aveva «parlato per mezz’ora ma non ho sentito niente». Maria, sommersa dai ricordi e dalle parole del praticante-sindacalista non riesce ad essere serena. Qui scatta la codardia e la viltà che vuole mettere in luce Lucarelli: l’attuale marito aveva visto la morte di Domenico in cantiere. Bevazzi, il padroncino, lo prende da parte e dice di caricare lo Scirò sulla Vespa. Passa una vita intera davanti gli occhi del marito di Maria in quel momento: «Secondo giorno. Diciannove anni. Perdere il lavoro. È già morto». Accoglie le parole del padrone. Sono passati tanti anni ma quando è troppo e la misura è colma torna a casa tremando, piangendo e, mentre inserisce la chiave nella toppa della porta di casa, pensa a cosa dire e a cosa ha tenuto nascosto per anni, solo per quel sorriso che lo ha fatto e lo sta facendo innamorare a distanza di tempo: «Maria…..Devo dirti una cosa». Tenere in un angolo la verità per proseguire con la vita «normale» certo, è un pensiero nobile, ma non se poi tutto rema contro il proprio intento. Il lavoro dei manovali, degli edili che cadono dalle impalcature perchè «ci vuole troppo tempo per montarle» è simile al lavoro nero dei «bangla» a Marghera descritto da Bettin. Uomini venuti da paesi lontani, che si piantano chiodi nei palmi delle mani o che vengono ritrovati morti dalla Polizia a mare o nei canali di scolo senza identità. È un nuovo esercito marchiato a sangue da una nuova concezione del lavoro, che lo scrittore non ama e che denuncia: il lavoro non è più sinonimo di dignità; puoi perderlo p se accade l’irreparabile, è pur sempre una morte senza identità. La morte di un «x» qualunque.
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