Davvero non c’è alternativa a Trump-Harris?

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Poco più di due milioni di voti. Due milioni, centocinquantanove mila e quarantanove è la cifra mostrata dall’Associated Press. Si tratta del bottino, se così si può dire, di tutti i third parties americani (terzi partiti) a spoglio ancora non chiuso in vari stati ma a vittoria repubblicana già certificata: avendo ottenuto la maggioranza dei grandi elettori al Congresso e avendo superato la soglia dei 270 necessari, Trump può gioire di fronte ai suoi elettori.

Le cifre racimolate dai terzi partiti statunitensi sembrano essere risibili in confronto allo strapotere espresso dalla diarchia repubblicana-democratica, roba da quinto quarto della politica: basti pensare che Jill Stein, candidata del Partito verde (Green party) e terza assoluta alle spalle di Kamala Harris, si è attestata su un misero 0,4%, pari a poco più di seicentoquaranta mila voti, in netto calo rispetto ai dati delle precedenti elezioni: nel 2016, ad esempio, gli ecologisti riuscivano a raggiungere il milione di voti a livello nazionale. Certo, i verdi riescono a sorpassare il terzo partito più popolare degli Stati uniti d’America, il Partito Libertario (Libertarian party), ma si tratta di una magrissima consolazione, data la percentuale di entrambi che prevede uno 0 prima della virgola.
Sembra essere ancora più lontano il 1996: l’anno in cui venne fondato il Reform Party of the Usa (tradotto, forse un po’ liberamente, Partito dei Riformatori degli Stati Uniti d’America) che raggiunse l’8,40% alle Presidenziali di quell’anno, che ebbe tra le proprie linee anche Donald Trump per un breve periodo di tempo, che nel 1998 riuscì a strappare il governo del Minnesota al blocco repubblicano-democratico e che nel giro di pochissimo tempo implose sotto il peso di scandali e mala gestione all’interno della stessa organizzazione politica.

Stavolta è andata nettamente male a tutti i terzi partiti, perfino ai libertari che pure nel 2016 erano riusciti a strappare più di quattro milioni di voti (3,28%) a livello nazionale e ad ottenere cifre ragguardevoli perlomeno in New Mexico e South Dakota (sfiorando la doppia cifra, il 10%, nel primo stato e attestandosi sul 6% nel secondo). La lunga crisi del Partito libertario si è mostrata drasticamente a seguito dei risultati elettorali: affidatisi alla candidatura di Chase Oliver, pur se a seguito di sette votazioni nella convention preposta, i libertari non hanno avuto la capacità di attestarsi come nuova forza che sosteneva di avere con sé una «nuova classe dirigente per gli Stati Uniti d’America». «Oltre 40 milioni di elettori della Gen Z sono pronti ad ascoltare un messaggio che non provenga dal sistema bipartitico», aveva dichiarato Oliver alla National public radio.

Ma, anche se pochi, i voti dei terzi partiti fanno gola ai grandi, per quella legge non scritta che tanto più si ha, quanto più si vorrebbe avere. Il 25 maggio [2024] Trump, facendo seguito alla legge di cui sopra, ha tenuto un discorso all’assemblea nazionale libertaria mantenendo lo ‘stile’ che lo contraddistingue, dichiarando: «Vincerete solo se sosterrete la mia campagna, altrimenti potete continuare a ottenere il vostro 3% ogni quattro anni». Pur se tra i fischi del pubblico, come ha testimoniato un articolo pubblicato nel maggio di quest’anno dalla National public radio, Trump ha fatto il suo show in casa libertaria continuando a spaccare le fazioni interne del partito, promettendo un libertario tra i ruoli di comando della nuova presidenza repubblicana. Così facendo, il partito non ha neanche lontanamente raggiunto il vituperato, da parte trumpiana, 3%.

Non solo i repubblicani hanno volutamente tarpato le ali ad ogni iniziativa che vedesse un’autonomia di organizzazione al di fuori della campagna pro-Trump, è stato così anche in casa democratica. A fine agosto l’iniziativa giudiziaria dei democratici di ricorso alla presenza di chi avrebbe potuto offuscare anche solo lontanamente l’immagine di Harris, ha avuto i suoi frutti: Cornel West (indipendente di sinistra) e Claudia de La Cruz (Socialismo e liberazione – PslParty for socialism and liberation) non hanno potuto partecipare con il proprio simbolo e hanno dovuto ricorrere al write-in nella campagna elettorale – ad esempio – nello stato della Georgia. La stessa candidata socialista, de La Cruz, rappresentava la forza politica che in agosto, a Detroit (Michigan), aveva interrotto con slogan pro Palestina l’evento di Kamala Harris che reagì stizzita: «Ogni opinione conta: amiamo la democrazia, ma ora sto parlando io! Se volete che Donald Trump vinca, ditelo [chiaramente]». Da quel momento in poi la strada del Psl per l’accesso al voto in determinati stati è stata completamente in salita. La candidatura dell’ambientalista Jill Stein, che – a tal proposito – ha indossato la kefiah per tutta la campagna elettorale, è stata il refugium peccatorum anche della variegata galassia della sinistra trotskysta statunitense, assente perfino in termini di write-in candidate. Ma tutto l’appoggio ricevuto non è servito a far raggiungere cifre migliori alla candidata Stein.

Cos’è il write-in?
Se un partito o movimento non è riuscito ad esser presente sulla scheda col proprio simbolo, sia per ragioni amministrativo-giudiziarie che per altre più prettamente politiche, il sistema elettorale statunitense prevede che l’elettore possa scrivere il nome del candidato che intende votare nello spazio preposto della scheda. Una possibilità non da poco, se ci fosse stata pari risonanza mediatica per ognuno dei candidati presidenti. Di fatto, a tutti gli altri candidati progressisti o indipendenti presenti in dieci o meno stati, il write-in non è servito a molto: non è stata solo la sinistra radicale ad essere stata esclusa (Socialist equality party, Socialist workers party, American solidarity party) ma anche gli ultra conservatori del Constitution party e del Prohibition party. Se i libertari hanno avuto accesso elettorale in 47 stati su 50 e i verdi in 38, pur essendo entrambi matematicamente già tagliati fuori dalla corsa presidenziale per ovvie ragioni matematiche, tutti gli altri candidati, nonostante il write-in, sono stati ben lungi dall’avere un minimo riconoscimento da parte dell’elettorato, avendo raccolto nel loro complesso, sommando tutte le candidature, lo 0,3% a livello nazionale.

Forse è una battaglia donchisciottesca, quella dei terzi partiti, ma tanto più vitale affinché il pluralismo americano non soccomba sotto i colpi della propaganda politica e del capitale a disposizione dei grandi gruppi finanziari, nonché dei miliardari che sostengono i due blocchi principali. Elon Musk, ad esempio, nell’ultima fase della campagna elettorale ha promesso (e realizzato) che avrebbe regalato 1 milione di dollari al giorno, fino al giorno delle elezioni, per coloro che «avrebbero firmato la petizione del suo Comitato di azione politica» riguardo modifiche costituzionali. Modifiche che si rivolgevano al secondo emendamento, ovvero alla libertà di detenzione di armi da fuoco. Eppure, nonostante alcuni autorevoli pareri raccolti dall’Associated Press in queste settimane abbiano parlato di iniziativa fuorilegge o ai limiti della legalità, Elon Musk ha potuto agire indisturbato grazie anche alla sua enorme influenza nel dibattito politico.

La polarizzazione dello scontro, in una campagna elettorale che ha lasciato ben poco spazio a qualsiasi candidato che non fosse Harris o Trump e i loro rispettivi insulti, promesse altisonanti, dichiarazioni sulla necessità estrema di votare per l’uno o per l’altro candidato senza disperdere il voto, ha rappresentato così la sublimazione del ‘fine utile’ del proprio diritto-dovere.

Nonostante le piazze dei sostenitori pro Palestina, in sostegno alle lotte dei lavoratori aeroportuali (vicenda Boeing) e in sostegno alle istanze ecologiste siano state sempre più partecipate dalla società civile americana nell’ultimo lustro, nonché talvolta guidate in grandi città proprio da uno di questi terzi partiti menzionati (Green party e Psl su tutti), la grande domanda di alternativa non ha trovato (né trova da decenni nella granulosità politica e sociale statunitense) una via di rappresentanza che possa trasformarsi anche in consenso elettorale.

E anche stavolta il copione elettorale è parso essere il medesimo di sempre.

Pubblicato su Atlante Editoriale atlanteditoriale.com

Profe

La biblioteca del Prof. Richard Macksey a Guilford, Baltimora.
La biblioteca del Prof(e). Richard Macksey a Guilford, Baltimora.

All’inizio c’erano le maestre dell’asilo che si facevano chiamare rigorosamente per nome, posto immediatamente dopo la qualifica: maestra Daniela, maestra Silvia, maestra Chiara e via dicendo. Gli si dava del tu quasi per legge: quel posto doveva essere l’estensione di un luogo familiare che avevi lasciato sul letto di casa poche ore prima.
«Scusa, maestra posso andare a bere?», e lei con un cenno della testa ti diceva che si, potevi andare, l’importante era utilizzare il tuo asciugamani con le iniziali cucite da tua madre ad hoc per evitare che il tuo andasse troppo in giro o che, peggio ancora, venisse scambiato con quello di altri.

Maestra era anche il modo con cui ci rivolgevamo alle elementari ma, già verso la quinta, si iniziava a dare del lei perché alle medie non c’erano più loro ma le professoresse. Il ruolo era lo stesso ma la figura si discostava leggermente: si faceva più imponente e più autoritaria. Quel lei conferiva distanza e vicinanza: la prima era tutta a vantaggio di chi stava «dall’altra parte della barricata», la seconda era – paradossalmente – a vantaggio del discente che iniziava a prendere le misure con il mondo oltre la maestra.

La professoressa era una sorta di übermaestra: sapeva tutto di te anche se non ti aveva mai visto e si sforzava a dirti che dovevi rivolgerti a lei con la terza singolare e con il verbo coniugato al congiuntivo. Se coniugavi male o pronunciavi un fantozziano vadifacci ti toccava la flessione del verbo.
Inflessibile: appena sentiva un tu, diceva: «scusa, come?!».
Meravigliosa era la professoressa Fosca che, appena sentiva uno studente della classe dire «dai» rivolgendosi a lei, scattava incalzandoti: «dai?!? DAI?!?». Il più creativo era chi rispondeva: «DIA, DIA!» oppure c’era chi si sentiva già in odor di medioevo rispondendo: «Scusi, scusi: suvvia!»

Capitava, però, che nella foga del voler rispondere, in quel frangente simile alla lotta fra oppressi chiamata “interrogazione dal posto”, il termine professoressa si abbreviasse in «pessoré!»: tutte le altre sillabe, evidentemente inutili, erano state sacrificate per poter estendere verso l’alto il braccio destro o sinistro con l’indice ben visibile. Più lo si alzava, più si era sicuri della risposta che si dava.
Capitava, però, che l’abbreviazione da pié-veloce (pessoré!) venisse attribuita anche agli unici due professori maschi del consiglio di classe: don Angel e Pernaselci di musica. Un’anomalia bella e buona. In quel caso l’accento sulla e finale non rappresentava l’invocazione al genere femminile dell’insegnante: jamais!
Era piuttosto un rafforzativo del professore in sé: come se l’espressione fosse “OH, PROFESSOREE”. Con quella immaginaria doppia e che evidentemente andava a caratterizzare l’interlocutore uomo con cui si voleva intrattenere una conversazione, pur limitata in ambito scolastico.

Con le superiori si dichiarava finita l’esperienza del pessoré: quel termine veniva abbandonato alla chiusura dei cancelli delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Varcare le porte del liceo significava abbracciare l’idea che la professoressa (donna) poteva anche essere un professore (uomo): non più un’anomalia. Allora il termine si abbreviava naturalmente in «prof». L’abbreviazione era una vera e propria ancora di salvezza: veniva accettata dall’insegnante, uomo o donna che fosse, ed era tanto sbrigativo quanto professionale: «hai sentito il prof. di greco?». Improvvisamente diventavamo tutti grandissimi perché utilizzavamo le abbreviazioni.

E così è stato anche nei primi anni di servizio dall’altra parte della barricata: «buongiorno prof», «salve prof», «ciao prof». Talvolta i più audaci ti chiamavano «professò», riprendendo l’abbreviazione che fu tipica del genere femminile riservata alla parte docente delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Qualche ragazzo di qualche scuola di periferia osa, ma solo verso la fine dell’anno e solo se c’è stato un buon rapporto, con un «ciao professò» mentre si accinge ad entrare in aula con lo zaino su entrambe le spalle, strascicando le suole delle scarpe grosse come carri armati (ma rigorosamente alla moda).

Qui a Bergamo è diverso. Non c’è il prof ma il profe. Con la o chiusa. Ed è una abbreviazione che calza a pennello sia in caso di insegnante uomo, sia in caso di insegnante donna. «Profe, buongiorno!», ti dicono. Lo scrivono anche nei messaggi di posta elettronica. Ma è una cosa che vale solo a Bergamo: in nessuna altra zona della Lombardia c’è il profe: è tipicamente bergamasco.

È strana, neh, una sorta di unicum delle valli bergamasche nel rapportarsi con l’insegnante.
Strana… Ma, proprio perché è così, è anche molto tenera.

007 – Meloni missione austerità

«L’Italia è tornata attrattiva per i grandi investimenti. Abbiamo conquistato nuovi mercati e scalato la classifica dell’export, salendo al quarto posto e scavalcando prima la Corea del Sud e poi il Giappone». Il messaggio inviato lunedì 28 ottobre [2024] all’assemblea dell’Unione degli industriali di Torino dalla Presidente del Consiglio dei Ministri parla chiaro: l’Italia a guida Meloni sta crescendo economicamente e socialmente parlando. Anche se, come ha ricordato la leader di Fratelli d’Italia all’evento-intervista [24 ottobre 2024] per gli ottanta anni del quotidiano Il Tempo: «Siamo in una fase economica non facile e le risorse sono poche».
Lo schema è semplice: Meloni vorrebbe accreditarsi meriti agli occhi della pubblica opinione riguardo la congiuntura «non facile» e la possibilità che l’uscita da tale fase sia possibile da destra. Pubblica opinione rappresentata, va detto, da una cerchia sempre più ristretta date le contrazioni periodiche della vendita di quotidiani e periodici, nonché degli ascolti televisivi di programmi d’informazione di prima serata.

«Abbiamo fatto una manovra che ricalca il lavoro delle precedenti due: in due anni di Governo ne abbiamo approvato già tre. Appena siamo arrivati al Governo abbiamo abbiamo varato la prima manovra e la strategia è sempre la stessa», ha ricordato Meloni nel corso della cerimonia romana del 24 ottobre.

Banche?
Stavolta però è diverso: dalle parti dell’esecutivo si è più volte detto che la manovra la ‘pagheranno le banche’, provando a soffiare sul tema della disaffezione generale che c’è nel Paese nei confronti degli istituti bancari, perlomeno quelli più grandi. La narrazione che viene presa in considerazione è quella dei sacrifici da affrontare come paese unito e dal rinnovato spirito nazionale, grazie al Governo Meloni. Narrazione, appunto. E anche in questo c’è un però significativo, che contraddice il punto in questione e va a distruggere la narrazione: «i 3,5 miliardi (in due anni) annunciati come “contributo” al Paese da parte del sistema bancario» non rappresentano «né una tassazione sugli extra-profitti realizzati nel biennio scorso (oltre 100 miliardi), né un prelievo “una tantum”, ma semplicemente un’anticipazione sulle future imposte, con esborso finale pari a zero per le banche coinvolte», ha affermato Marco Bersani, coordinatore di Attac Italia.

Tagli netti, zero investimenti
Nessun mistero, in effetti, per quel che è stato detto da più quotidiani italiani nel corso della settimana appena trascorsa: la sanità è il settore maggiormente colpito dai tagli e ignorato da sostegni di ci pure avrebbe estrema necessità. Non c’è novità in questo perché il Governo Meloni, avendo sottoscritto un piano di rientro del debito in 7 anni in sede europea, come Atlante aveva già ricordato, si trova con le proverbiali mani legate.
Detto in altre parole: se è presente una procedura di infrazione con l’Unione Europea per eccesso di deficit, superiore al 3% del Prodotto interno lordo (Pil), i tagli non possono che essere netti e spietati: «un taglio [costante] tra i 12 e i 13 miliardi all’anno», ricordava Bersani nell’intervista già citata.

A ciò si aggiunga lo scontro tra le associazioni dei comuni italiani che vede da una parte l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e dall’altra la Lega Ali (Lega autonomie locali): la prima approva e plaude alla manovra, la seconda condanna il taglio lineare ai servizi. Lo scontro tradisce una carsica frizione politica: la prima associazione è presieduta da un componente in quota Forza Italia, la seconda ha tra gli esponenti il sindaco di Roma Gualtieri (già ministro dell’economia durante il periodo del lockdown).

Non c’è crescita, a ben vedere, se si strutturano leggi di bilancio che non prevedono investimenti a lungo termine se non provvedimenti una tantum cari a qualsiasi governo che voglia far presa facile e immediata su un elettorato sempre più fluido e disilluso nei confronti della manifestazione della democrazia rappresentativa, così per come ha avuto modo di mostrarsi nell’ultimo trentennio.

È possibile offrire varie opinioni di una situazione in essere come la legge di bilancio ma la concretezza del fatto in sé è impietosa: si tratta di austerità. Meloni attacca i detrattori del Governo di destra-centro portando i numeri di investimenti alla sanità e i dati relativi all’occupazione, ma la parzialità dei numeri non consegna un quadro completo della situazione sfaccettata dello Stivale e il Paese reale vorrebbe solo stabilità e un sistema-Italia che possa funzionare, a prescindere dalle oscillazioni della borsa. Il piano per la crescita dell’Italia non è altro che la reiterata prosecuzione di quanto accade dal Governo Monti: i mercati approvano, l’occupazione sale (quella precaria, mal pagata, instabile), i bonus crescono di numero ad ogni anno solare, i voti salgono (perlomeno la percentuale di chi va a votare). Va tutto bene: basta saper scegliere con cura la pillola da ingerire.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale www.atlanteditoriale.com/austerita-meloni-non-cambia-la-linea-di-draghi-e-di-monti

Morales accusato di stupro ma in Bolivia la violenza sessuale è ovunque

«In Bolivia lo sfruttamento sessuale è praticamente endemico». Così come la violenza «che sia sessuale o dopo una partita di calcio», a parlare è don Riccardo Giavarini, Direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita [dall’aymara: ti voglio bene, sorellina] e nel lavoro quotidiano si occupa di sfruttamento ai danni di ragazze minori e adolescenti, di tratta e traffico. Bergamasco di Telgate, ordinato sacerdote a seguito della ripresa degli studi per il sacerdozio dopo la prematura scomparsa della moglie Berta (tra le fondatrice del Mas-Ipsp, impegnata nella tematica della liberazione della donna, poi uscitane per divergenze con la dirigenza), è a La Paz dal 1977. La Bolivia la conosce piuttosto bene. Raggiunto da Pressenza, ci risponde dalla sua abitazione alla periferia di El Alto.
Alla periferia della periferia del mondo.

Riccardo Giavarini

In queste settimane la stampa boliviana, internazionale e anche italiana (sebbene nel nostro paese la notizia non abbia avuto una grande eco), sta dando conto di uno scandalo che avrebbe coinvolto l’ex presidente boliviano Evo Morales, attualmente figura di spicco del Mas-Ipsp di cui ne è presidente e ufficiosamente candidato alle prossime elezioni presidenziali. Morales sarebbe accusato di stupro di una ragazza adolescente: un’accusa su cui una giudice di Tarija sta lavorando e per cui ci sarebbe stato il caso di un figlio nato da una unione con Morales. Le prove ci sarebbero e per questo questo è stato emesso un ordine di cattura nei confronti dell’ex presidente il quale non si è presentato all’udienza al tribunale di un pugno di giorni fa, preferendo un aureo isolamento nella regione del Chapare.

I casi di violenze sessuali, domestiche e di genere sono tuttavia in costante aumento in tutta la Bolivia: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi». Ci sono varie motivazioni, secondo Giavarini: «la prima è che manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità. Né in famiglia, né a scuola e né da parte istituzionale vengono veicolati messaggi ed esempi positivi» quindi «i ragazzi prendono alla leggera il rapporto uomo/donna e lo interpretano solo come occasione di ‘divertimento’». La relazione non è basata sul rispetto quanto, piuttosto, sulla volontà di dimostrare che esiste una disparità tra sessi. Una condizione così pervasiva tale da essere presente anche negli altri istituti penitenziari non minorili, ad esempio in quello di San Pedro (La Paz). «La seconda motivazione – continua il sacerdote – è quella legata al fattore culturale». In altre parole: «machismo e cultura dello stupro». Già quando nasce una bambina «si sente spesso dire da parte dei genitori “è solo una femmina”», come a voler sottintendere una sconfitta sociale.
Nella parte di mondo che abita Giavarini: «si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile come strumento di piacere maschile», si ragiona per «stereotipi diffusi» da più parti. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità, uguaglianza: «qui a El Alto le ragazzine popolano locali notturni: è una cosa naturale che loro siano lì disponibili a fornire prestazioni sessuali». Nei colloqui informali che conduce don Giavarini, nel contesto carcerario e nel settore di competenza della Fundacion Munacim Kullakita, è ravvedibile una pervasività della violenza domestica perpetrata dai mariti nei confronti delle mogli, più in generale da parte degli uomini.

Quella di Evo Morales sembra essere – purtroppo – solo la punta di un proverbiale iceberg di violenze e soprusi nei confronti delle persone e delle donne in particolare. «Le notizie di questi giorni parlano delle accuse rivolte a Morales ma – precisa Giavarini – qui in Bolivia stanno uscendo dati secondo cui non sarebbe accaduto solo un caso ascrivibile a questa tipologia di reato, anzi: più d’uno». Alcune deputate boliviane hanno accusato pubblicamente Evo Morales nel Palazzo rincarando sui suoi possibili rapporti con delle minorenni «addirittura facendo illazioni su contropartite sessuali in cambio di progetti e realizzazioni di opere presso comunità rurali o montane», da sempre più vicine all’ex Presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia.

Ma il silenzio assordante è quello delle Bartolinas, l’organizzazione femminile del Mas-Ipsp: «le donne del partito sono spaccate tanto quanto lo è l’organizzazione, che, per la verità, lo è da due anni a questa parte: le strenue sostenitrici di Morales continuano a incoraggiarlo mentre quelle pro Luis Arce lo accusano».
Una situazione piuttosto delirante.
Tanto più che Morales ora starebbe accusando la giustizia boliviana di persecuzione contro la sua persona e non si è mosso dal Chapare, la regione in cui si sente politicamente (e psicologicamente) più forte, sicuro e tutelato dalla federazione dei coltivatori di coca (i cocaleros, riuniti nella Seis federaciones del Tropico de Cochabamba) di cui è tutt’ora presidente. Sindrome dell’accerchiamento più volte manifestata da Morales nel corso degli ultimi 24 mesi.
Certo è che finché presidenti (o ex) o figure pubbliche di spicco nella società (siano esse di appartenenti a organizzazioni politiche di maggioranza o di opposizione), si mostrino come esponenti del più bieco machismo, significa che il problema è molto più imponente di quel che è emerso nel corso di questi giorni.
Il rischio di impunità per questi fatti, secondo Giavarini, è altissimo: «c’è da sviluppare un lavoro di rete che sia il più articolato possibile a tutti i livelli sociali, così come di interlocuzione con lo Stato» per far sì che si giunga «ad una seria consapevolezza riguardo i temi della tratta e dello sfruttamento sessuale non soltanto a seguito dell’onda mediatica di uno scandalo come questo ma tutti i giorni».

«Non vogliamo la cassa integrazione, vogliamo il lavoro»

Luigi Sorge. Fonte foto: profilo Facebook del Partito comunista dei lavoratori.

Luigi Sorge è Rsa della Fiom-Cgil presso lo stabilimento di Cassino (provincia di Frosinone).
«A Cassino c’è la stessa aria di tutti gli stabilimenti Stellantis in Italia», dice sconsolato, raggiunto da Atlante. «A Cassino dal primo ottobre i lavoratori sono tutti (2.500) in contratto di solidarietà (Cds). Ci sono molti di noi che lavorano tre giorni al mese e il resto dei giorni (e delle ore) è occupato dalla cassa integrazione». Taglio del salario per tutti ma non per i dirigenti: «a luglio hanno preso bonus di decine di migliaia di euro per obiettivi raggiunti sull’efficienza», tuona, ma nelle sue parole non c’è meraviglia: «che si chiamino Stellantis, che si chiami Fiat o Fca, i padroni e il capitalismo hanno questo volto».

Il disappunto di Sorge si percepisce a ogni sillaba: «il punto è che noi non abbiamo macchine nuove da costruire». Gli annunci roboanti di nuove vetture, le promesse del ritorno ad una produzione costante, le assicurazioni della proprietà attorno al ruolo strategico dell’Italia nella realizzazione di macchine Fiat/Stellantis valgono il tempo di un post su X o Instagram. La realtà dei fatti è ben altra: «Stiamo lavorando ancora sul piano industriale della presidenza Marchionne e in produzione abbiamo: Giulia, Stelvio e Grecale». Macchine costose, per poche tasche, i cui costi si aggirano tra i 50mila euro e i 140mila euro. «Entro il 2025 dovrebbero partire le produzioni dello Stelvio elettrico», ma il condizionale parrebbe essere d’obbligo, dato che una macchina non si produce in poco tempo e la produzione ha i suoi tempi.

S’è puntato tutto sull’auto di lusso, di fascia alta ma è una strategia che non ha pagato: «Nel 2010 eravamo 5.500 circa» e si parla di ulteriori esuberi «fino a 800», afferma sconsolato Sorge, «senza contare l’indotto», le ultime assunzioni (pre Covid) realizzate tramite agenzie di somministrazione (di cui una piccola parte stabilizzata con contratto da parte dell’azienda) e senza contare, infine, gli incentivi alle dimissioni incoraggiati dall’azienda. «Trent’anni fa – ricorda amaramente Sorge – quando entrai in questo stabilimento eravamo più di 7.500 lavoratori. Attraverso la produzione delle Tipo e delle Tempra siamo riusciti a toccare la cifra vertiginosa di 1.300 vetture al giorno, lavorando su tre turni». Oggi quel mondo appare ancor più lontano di quanto abbia solcato l’aratro del tempo.

Come può, uno stabilimento in queste condizioni, affrontare la questione della transizione declamata, voluta e imposta dall’Unione Europea? «Non abbiamo un piano industriale, questa è la verità. Stellantis vorrebbe continuare a trarre profitto dalla riorganizzazione e dalla razionalizzazione degli stabilimenti: Tavares, che concluderà il suo mandato nel 2026, doveva garantire la proprietà, gli azionisti e, ovviamente, lui stesso non producendo vetture, ma efficientando». E efficienza fa rima con razionalizzazione, tagli: è l’austerity industriale.

L’elettrico non cambierà la situazione di Cassino: «La produzione non sarà immediata e ci saranno ulteriori tagli al personale stimati del 30-40% dal momento che il motore e la meccanica relativa sparirà. Noi siamo a favore della transizione ma, a fronte di un ulteriore calo della manodopera, chiediamo la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore pagate 40, redistribuendo il lavoro che c’è. Non vogliamo la cassa integrazione, non chiediamo la cassa integrazione: vogliamo il lavoro e salari dignitosi che ci consentano di vivere, non di sopravvivere».

Sullo sciopero, sebbene convocato unitariamente dalle federazioni dei metalmeccanici dei sindacati confederali (Fiom-Cgil, Fim-Cisl, Uilm-Uil), Sorge non si sbilancia, ma auspica la più ampia partecipazione dei lavoratori: «Venerdì 18 potrebbe anche succedere che la Fca dichiari il senza lavoro». Il giorno prima dello sciopero la proprietà potrebbe comunicare ai lavoratori che il giorno successivo, cioè quello dello sciopero, potrebbe essere un ‘senza lavoro’: «È già successo», ammette Sorge, «la settimana scorsa, alle 8:00 di mattina, la Fiat ha mandato via degli operai perché non c’erano dei materiali che sarebbero serviti per la produzione giornaliera».

Ma il delegato è speranzoso: «È solo l’inizio. Difenderemo a qualunque costo ogni singolo posto di lavoro. Vogliamo costruire è una vertenza generale di Stellantis, automotive tutto e indotto; che oltrepassi i confini nazionali, investa i paesi europei (si veda la situazione della Volkswagen); che realizzi un fronte unico operaio e faccia tornare i lavoratori protagonisti del proprio futuro». Sperando che i lavoratori in Italia potranno ancora farlo, anche dopo.
Dopo l’eventuale approvazione in Senato del Decreto Sicurezza.

 

Parte dell’articolo scritto insieme ad Angela Galloro per «Atlante Editoriale» in vista della manifestazione del 18 ottobre [2024].

Da dove cominciare?

Più penso al fatto che mi piacerebbe raccontare qualcosa di queste prime settimane di scuola bergamasca, più cancello quello che stavo iniziando a scrivere. Più penso che vorrei – e dovrei – iniziare a pubblicare a riguardo, più mi blocco e non comincio nemmeno. Strana cosa la mia volontà: inversamente proporzionale alla necessità e soggetta ad un fattore di imprevedibilità notevole (quando si parla di articoli da scrivere, poi, non ne parliamo!).

C’è chi mi ha detto che aspetta un diario da parte mia, del tipo «Memorie di un professore nella bergamasca»; c’è chi mi ha proposto di continuare a raccogliere le affermazioni audaci di qualche studentessa/studente; c’è chi mi ha detto minaccioso: «non sai che posti sono quelli: ti tratteranno malissimo» volendomi preparare psicologicamente ad una sorta di leva militare un po’ fuori tempo massimo. Post litteram, verrebbe da dire.

In questi giorni, in cui penso di scrivere a riguardo ma non comincio mai, nella mia testa sembra di essere in uno di quei film di Nanni Moretti in cui il regista è anche il protagonista della pellicola ma il set è l’oggetto stesso dell’opera e dunque delle riprese. E chissà se quel film sarà mai proiettato: chissà se scriverò davvero un diario (come mi suggeriva di fare Ottaviano) o chissà se annoterò qua e là qualche affermazione audace o qualche abitudine quotidiana normale in questa parte d’Italia, considerata lunare dalla sponda non papalina del Tevere.

Foto tratta dal «Corriere della sera» del 19 marzo 2020 | © Corriere della sera.

Però un paio di cose, forse, potrei già dirle.
Ho preso servizio al liceo scientifico di Alzano Lombardo, in Val Seriana, in quella valle che un po’ tutta Italia ha imparato a conoscere e a saper collocare sulla cartina durante il periodo della propagazione del Covid.
O così credevo fosse. Alzano Lombardo e Nembro furono le due città più pronunciate dalla stampa tutta (televisioni, quotidiani, radio e quant’altro): quattro anni fa eravamo tutti impauriti perché provavamo a fare fronte ad una situazione che non sapevamo fronteggiare; eravamo chiusi in casa e avremmo voluto, invece, uscire e cercare uno sguardo amico nonostante le mascherine; eravamo in casa e il nostro sguardo si posava sui camion militari che trasportavano bare… dalle città di Alzano e Nembro.

Qualche giorno fa ho risentito – in modo del tutto casuale – due colleghi con cui ho condiviso un anno scolastico presso un istituto tecnico della periferia romana: ci aggiorniamo con rapidi messaggi per sapere se anche quest’anno avessimo avuto disguidi derivanti dal sistema di assegnazione automatico delle supplenze (il famigerato algoritmo). Rispondo loro, in due occasioni diverse, dicendo che per la prima volta ho preso servizio il 2 settembre da Gps (graduatorie provinciali di supplenza) e che ho l’incarico al 30 giugno ma non a Roma: ad Alzano, Alzano Lombardo. La reazione è stata «Ma ‘sto posto si chiama “Lombardo” perché sta in Lombardia?» e l’altro: «Ma Lombardia dove? Milano?». Provo a spiegare loro brevemente che si tratta di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, quel posto lì in cui non se la sono passata troppo bene durante il periodo del Covid. Nessuna reazione. Possibile che ci siamo già dimenticati tutto quello che è successo?

Per qualcuno forse l’atto volontario della dimenticanza rappresenta il necessario voltare pagina (positivamente parlando, si capisce); per altri (io credo di rientrare in questa seconda partizione) non è possibile dimenticare il colpo d’occhio delle strade vuote e il suono delle sirene spiegate delle ambulanze che rimbombavano per tutta Torre Maura, così come i nomi delle città di Alzano e Nembro.
Molti hanno già dimenticato ma qui nessuno lo ha fatto e quando ai ragazzi del liceo nomini la parola “Covid” o l’anno “2020” c’è qualcuno che muta sguardo: il viso diventa triste, lo sguardo subito annebbiato dalla foschia della mente e dei ricordi.

La seconda cosa è questa: una piacevole stavolta. Dopo aver notato qualche collega non molto incline alla minima socialità di condivisione degli spazi comuni (mi riferisco ai canonici e proverbiali buongiorno e buonasera), sono stato a pranzo con un collega in centro a Bergamo. Mi fa: «Se non conosci niente di Bergamo, andiamo a pranzo fuori questo sabato». Ci siamo andati sul serio, ci siamo sciolti nel parlare (forse qualche bicchiere di rosso ha aiutato) e siamo usciti dalla trattoria passandoci l’accendino, ridendo di alcune cose incomprensibili della scuola italiana, lasciando alle nostre spalle una settimana di impegni burocratici che non terminerà a breve.

E poi, ultima, c’è stata una studentessa che un giorno ha lasciato defluire tutta la classe che stava uscendo e, fermandosi sulla soglia della porta, mi fa: «Prófe, ma lei… Cioè… È venuto da Roma, fino a qui? Cioè… è venuto da Roma proprio qui ad Alzano? Proprio a questo liceo? Ma davvero? Ma posso chiederle perché lo ha scelto… se lo ha scelto?». L’ultima domanda sottintendeva un «ma non è che l’hanno mandata qui?». Le ho risposto schiettamente, ci siamo sorrisi, si è tranquillizzata ed è andata a prendere il tram per tornare a casa. Ho rimesso a posto i libri nello zaino e sono sceso giù al piano terra. Ma non sono andato al parcheggio delle auto: c’era una bicicletta rossa e nera che mi aspettava.

Magari non è un diario, però è già qualcosa.
L’inizio di qualcosa.

Privatizzazioni e autonomia: l’Italia sarà sempre più diseguale

Che il governo Meloni non se la stia passando bene, è un dato di fatto. Ma a dirlo sono i soliti detrattori della stampa di sinistra e di altri “attori sociali” che proprio non digeriscono il governo più a destra della storia della Repubblica. Sarà, ma intanto Giorgia Meloni deve far fronte ad una maggioranza tenuta insieme dai soli interessi individuali e ad una manovra che non consente troppi margini. Gli annunci di investimenti e le affermazioni legate alla fu berlusconiana «piena occupazione» hanno trovato di fronte a loro il muro del piano sottoscritto con l’Unione Europea. Tagli, privatizzazioni e sacrifici. La ricetta per trovare i soldi parrebbe essere sempre la stessa. Di questo, e di altro, ne abbiamo parlato con Marco Bersani, presidente di Attac Italia, la sezione italiana «della rete internazionale di opposizione e alternativa al neoliberismo costruita in questi anni dal movimento altermondialista».

Marco Bersani, già dirigente comunale dei servizi sociali, è supervisore pedagogico di cooperative sociali. Oltre ad essere stato uno dei principali animatori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e fra i promotori della campagna Stop Ttip Italia, è fra i soci fondatori di Cadtm Italia e fra i facilitatori del percorso di convergenza della Società della Cura. L’ultimo libro che ha scritto si intitola proprio La società della cura ed è stato pubblicato da Alegre.

Nel corso dell’assemblea di Confindustria, oltre a ribadire l’intesa con gli industriali, Meloni ha dichiarato più volte come mai nella storia d’Italia si sia verificata una condizione di occupazione lavorativa come nel suo governo. Come valuti questa dichiarazione e, più in generale, il discorso della Presidente del consiglio?
Beh, Meloni ha sostanzialmente espresso il manifesto delle sue intenzioni.

Quali sarebbero?
Grandi annunci e quasi zero sostanza. Va ricordato che l’Italia, avendo una procedura di infrazione con l’Ue per l’eccesso di deficit (cioè che ha un deficit superiore al 3% del Pil), ha sottoscritto un piano di rientro del debito di 7 anni che comporta un taglio della spesa pubblica di 84 miliardi in 7 anni. Vale a dire un taglio [costante] tra i 12 e i 13 miliardi all’anno.
Quando la Meloni dice faremo, diremo, attueremo” c’è da fare la proverbiale tara. Lo vedremo – stavolta davvero – con il Piano strutturale di bilancio (Psb) quale sarà la realtà dei fatti. A proposito dell’occupazione, trovandosi a braccetto col presidente di Confindustria, ha detto che la situazione è positiva. Se, però, si vanno a vedere i dati reali ci si accorge che si tratta perlopiù di occupazione precaria. A tal proposito vale la pena di ricordare che il disastro industriale dell’automotive (spacciato come crisi dell’auto elettrica, ma che in realtà rappresenta una crisi di investimenti nel Paese), prevederà un autunno di chiusure di fabbriche (sia di produzione diretta che dell’indotto) e cassa integrazione diffusa. Insomma, ben lontani dall’idea di essere in una situazione positiva.

A proposito di auto elettriche, sia Meloni che Confindustria hanno criticato il cosiddetto green deal così come in questi giorni dal ministro Urso.
Va specificato che il cosiddetto green deal dell’Ue, dal mio punto di vista, è assolutamente timido, non adeguato e fondato sull’ideologia che la crisi climatica ed ecologica si possa risolvere dando la conduzione della società all’economia. Di nuovo.

Ovvero?
Mi spiego meglio. L’idea alla base del green deal è quella per cui le leggi di mercato ci porteranno fuori dalla crisi economica. A me sembra sempre più evidente che non è quella la strada da seguire. Ebbene, Meloni asseconda Orsini sul pur timido green deal affermando che se la decarbonizzazione dovesse mettere in crisi il sistema industriale italiano, andrebbe rallentata la decarbonizzazione.

Cosa andrebbe fatto, allora?
Un serio piano di grandi investimenti sulla mobilità (nazionale e territoriale) di questo Paese per ragionare sulla riconversione in senso ecologico e sociale del modo di muoversi.

Servirebbe una prospettiva a lungo termine che, al momento il Governo non ha.
Esatto, lo sguardo è sempre corto. O meglio: si ha lo sguardo lungo quando il Governo pensa al dissenso e alla contestazione di piazza.

Ti riferisci al cosiddetto Decreto Sicurezza (DL 1660)?
Precisamente. Presidente e ministri sanno bene che i prossimi mesi saranno ancora più duri rispetto alla situazione attuale: aumento di mobilitazioni, manifestazioni e dimostrazioni, dunque si vuole approvare il DL di cui parlavi in tempi brevissimi. Un decreto liberticida e, in alcuni aspetti, perfino contro la Costituzione (che entrerà nel mirino – se così si può dire – della Corte Costituzionale): nei fatti prevede la impossibilità di manifestare. Di più: se ci si azzarda a protestare su alcuni temi (per le opere cosiddette strategiche), c’è il rischio di un processo penale e di carcerazioni. Ci si è inventati anche un nuovo reato che è quello della resistenza passiva: roba che neanche il Codice fascista del Ministro Rocco! Il governo potrà anche continuare a fare annunci ma ribadisco: la sostanza è prossima allo zero.

Prima tu accennavi al piano di rientro del debito: rientra in questa prospettiva la notizia di questi giorni per cui il Governo sta cercando acquirenti per la vendita di un ulteriore 15% di Poste Italiane?
Il ragionamento che sta alla base di quanto dici è riassumibile in sporchi, maledetti e subito”. Il governo deve far quadrare i conti e mette sul mercato pezzi strutturali di quel che rimane della proprietà pubblica. Anche sulle ferrovie si sta cominciando a ragionare sull’ingresso dei privati. E no, non sto parlando di quel che è già avvenuto con Italo. Parlo proprio del fatto che si inizi a sussurrare del fatto che RFI, dunque il sistema strutturale delle ferrovie, potrebbe essere messa sul mercato.

Dunque la risposta è sempre la stessa: privatizzazioni?
Siamo alle solite. La parola su di esse potrebbe già essere definitiva: ci sono quarant’anni di dimostrazione che le privatizzazioni non servono alla diminuzione del debito pubblico. Viene utilizzata la trappola artificiale del debito per porre sul mercato quel che prima era fuori mercato. Il vero dato di fatto è che la crisi strutturale del sistema in cui viviamo comporta che il capitalismo non può più permettersi che ci siano settori della società che non siano guidati dal mercato.

Ti riferisci all’acqua?
Parlo dei beni comuni (dunque acqua, elettrici, energia) e parlo dei grandi settori strutturali.
Le privatizzazioni che si stanno mettendo in atto non hanno più alcuna giustificazione da un punto di vista ideologico (cioè di una visione del mondo): sono semplicemente la rappresentazione di una volontà legata all’imminenza di far quadrare i conti, del qui ed ora. La prospettiva di lungo periodo è totalmente assente: vendiamo ulteriori pezzi di Stato, si dice, così da rientrare di qualche spesa. Io spero, davvero, che un giorno si possa fare un dibattito pubblico serio, fra tutti i soggetti della società, che affronti il problema delle privatizzazioni: sono un fallimento sotto tutti i punti di vista, tranne da quelli dei grandi interessi finanziari.

Parliamo dell’autonomia differenziata e dei lep: mi riferisco a quanto rivelato dal quotidiano il manifesto di una volontà di chiusura del dibattito da parte del ministro Calderoli.
Sì certo. Però, secondo me, va segnalato il fatto che proprio la scorsa settimana siano state consegnate un milione e duecentomila firme contro la legge sull’autonomia differenziata. La Lega già sostiene che sia stato un gioco troppo facile il fatto che si sia potuto firmare online: le sottoscrizioni raccolte ai banchetti sono state oltre 700.000 (settecentomila). Ben oltre le 500.000 richieste dalla legge e dunque quella proposta di referendum ce l’avrebbe fatta anche senza l’ausilio della firma digitale.

A tal proposito s’è già avviato un dibattito sulla possibilità che l’istituto del referendum perda di credibilità dato il ricorso alla firma digitale. Penso anche all’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera del 24 settembre.
La piattaforma elettronica però è stata messa a disposizione dal governo per i cittadini… Penso che l’esecutivo debba fare i conti con questo dato ma, anziché andare in quella direzione, fa le proverbiali fughe in avanti.

Ti riferisci al colloquio tra Calderoli e le regioni del nord per avviare il dibattito a riguardo?
La prima è questa, senza dubbio. In questo modo il ministro cercherebbe di far avanzare la devoluzione sulle competenze di settori dove non è necessario definire i livelli essenziali delle prestazioni. Contemporaneamente s’è convocato il comitato di esperti – che ha preso il nome di Clep – al fine di definire i livelli essenziali delle prestazioni. Lo stesso comitato sta conducendo un lavoro opaco e pare si stia orientando su un principio totalmente anticostituzionale per cui i lep dovranno tenere conto del costo della vita in ogni territorio.

Gabbie salariali?
Precisamente: da una parte si tornerà alle gabbie salariali. Dall’altra le diseguaglianze tra regioni (che già esistono) andranno ad aumentare. Un esempio? Se decido che il livello essenziale delle prestazioni degli assistenti sociali deve essere uno ogni diecimila abitanti, in Calabria (essendoci un costo della vita minore che in Lombardia) ne stabilisco uno ogni cinquantamila. Non ha alcun senso logico ma è la rappresentazione definitiva delle diseguaglianze tra nord e sud del Paese. Così come avverrà, anche all’interno della stessa regione, che ci sarà chi potrà permettersi determinati servizi e chi non potrà.

Famiglie al palo, lavoratori in sciopero. Il Governo è senza progetto

Ci mancava la ripresa dell’affaire legato al caso di Pasquale Striano (Guardia di Finanza, ora agli arresti domiciliari) e al ministro della difesa Guido Crosetto. I fronti aperti dell’esecutivo rischiano di diventare troppi per una maggioranza che è tenuta insieme solamente dalla volontà di potenza del futuro presidenzialismo à la Meloni. Per carità: a tenere, tiene. Ma per quanto ancora l’interesse personale riuscirà ad essere un mastice vincente? Dal piano strutturale di bilancio (nomenclatura che va a sostituire la nota d’aggiornamento al documento di economia e finanza) ai livelli essenziali delle prestazioni (Lep), dagli equilibri internazionali al nuovo rapporto Inps, l’esecutivo ha molto da fare. Ma per ora la carta stampata (così come i telegiornali di prima serata) si concentra sulle speculazioni a tinte rosa del viaggio statunitense di Meloni. O comunque tendenti alla supposizione (spesso tendenti al gossip), più che alla concreta attività di governo.

Si dirà che a volte anche la cronaca politica ammantata di rosa (o da una patina di paillettes) possa portare con sé una o più notizie, ma d’altra parte sulla grande stampa nazionale le questioni sociali tendono ad essere travolte da affari personali (la vicenda Boccia-Sangiuliano è l’esempio che vale per tutti) o dalle interpretazioni che scaturirebbero dalla lettura di accadimenti internazionali. In questi giorni più che in altri. Il viaggio di Giorgia Meloni a New York ne è un esempio. Il Corriere della Sera di mercoledì 25 settembre [2024] suggerirebbe al lettore un retroscena geopolitico legato alla preferenza di partecipazione della presidente del consiglio italiana all’Atlantic Council in cui «Elon Musk le ha consegnato il premio Global Citizen Awards». «Ha snobbato per il secondo anno di seguito la cena di gala di Biden con Zelensky ospite d’onore. Ed è partita in anticipo, schivando la partecipazione in presenza al vertice organizzato dalla Casa Bianca a sostegno dell’Ucraina», citando Monica Guerzoni dal Corriere del 25 settembre. Nella sua nota Massimo Franco rincara: «Giorgia Meloni torna da New York con un premio prestigioso e una posizione politica più equidistante nelle elezioni presidenziali». E che non si dica che le cene non contino!

Ultima cena?
Del premio e della cena di gala non sanno che farsene, però, i lavoratori e le parti sociali di Stellantis (ex Fiat) che hanno indetto uno sciopero il 18 ottobre e che i soldi di quella giornata lavorativa li perderanno. Loro, a differenza di Meloni, non ritireranno alcun premio. Le federazioni metalmeccaniche dei tre sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) torneranno a sfilare unite sulle medesime posizioni dopo circa trent’anni. «L’Europa, il Governo e Stellantis devono dare risposte», si legge nel comunicato congiunto delle tre organizzazioni, le quali chiedono «a Bruxelles e a Roma» l’approvazione di «un pacchetto straordinario di risorse per sostenere la transizione del settore attraverso investimenti in ricerca, sviluppo, progettazione, ammortizzatori sociali, formazione, riduzione dell’orario di lavoro, batterie e infrastrutture di ricarica». Investimenti che devono vedere «la partecipazione dei privati» a patto che siano concessi «alle aziende che garantiscano l’occupazione e il futuro degli stabilimenti».

Ma il Governo Meloni non ha una linea chiara a riguardo, eccezion fatta per la posizione di ritrattazione legata alla transizione energetica in sede europea. I sindacati chiedono garanzie ma al momento la dialettica è tutta sovrastrutturale e parrebbe di capire che se il Governo riuscisse a tenere la propria posizione a Bruxelles/Strasburgo, il risultato dovrebbe rappresentare positività per tutto il paese. Una sorta di beneficio a cascata (trickle-down) economico sociale che a ben vedere non si è mai verificato negli ultimi decenni.

Famiglie? Al momento solo annunci spot
«Il nodo cruciale è l’adattamento degli stipendi all’inflazione», risponde ad Atlante Paolo Moroni, responsabile della direzione politica dell’Associazione famiglie numerose. «Quello a cui stiamo assistendo è un peggioramento generalizzato della condizione familiare, specie per quel che riguarda il nostro ambito (le famiglie numerose). L’inflazione ha inciso moltissimo sui beni di prima necessità». Il cosiddetto carrello della spesa che proverbialmente si fa sempre più pesante: i nuclei familiari tutti hanno subito un impoverimento e l’aumento della voce dei beni di prima necessità nel bilancio domestico ne è un esempio.

«C’è stata una perdita del potere d’acquisto notevole: la leva fiscale-previdenziale non può da sola risolvere questa situazione, c’è bisogno anche di una [rinnovata] visione della contrattualistica del lavoro», ha aggiunto Moroni. Troppo precariato e salari bassi, specie tra gli under 35: lo dice anche il rapporto Inps.

Ma il Governo ancora una volta non sembra avere un progetto a lungo periodo: il tentativo di vendita di una quota del 15% di Poste Italiane ne è un esempio. Se la proverbiale, metaforica (e ormai lisa) coperta è sempre più corta, si prova a cedere un altro pezzo di Poste, ma poi si tornerà a maledire il momento in cui i soldi non basteranno e ci si dovrà inventare qualcos’altro che metta una pezza.
Sembra di rivedere Giulio Tremonti nell’imitazione interpretata da Corrado Guzzanti in cui il ministro – al fine di evitare il cetriolo globale – prova a vincere al flipper di un bar puntando i suoi ultimi centesimi di euro. Moneta mal digerita anche nella pronuncia del soggetto imitato. Solo che Guzzanti/Tremonti non riusciva mai a vincere e alla fine della scenetta veniva cacciato dal barista. E gli toccava stare fuori dalla porta.

Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della Presidente del Consiglio dei ministri all’utilizzo di missili a lungo raggio contro la Russia, cui pure la dichiarazione condita da avverbi e da intercalari (“chiaramente”, “ovviamente”, “semplicemente”), farebbe presagire ad un prendere tempo rispetto alla reale posizione che dovrà assumere il governo italiano.
Stiamo parlando della nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione Europea: all’italiano andrà il compito di «gestire i fondi del Pnrr insieme a Valdis Dombrovskis». Mancava l’ultimo nome e nella calcistica zona cesarini c’è stato l’accordo che ha sancito l’ingresso dell’unico componente Ecr (Conservatori e riformisti europei, gruppo a cui appartiene Fratelli d’Italia) nella Commissione. Il ministro italiano avrà anche la delega ai fondi di coesione e alle riforme. La lunga fase dialettica tra le due presidenti, Ursula Von der Leyen e Giorgia Meloni, si è conclusa con l’accoglimento da parte della prima al nome di Raffaele Fitto.

In questi giorni politica e stampa sembrano aver archiviato il caso Boccia-Sangiuliano proiettandosi sulla questione della composizione della nuova Commissione Europea, nuovamente a guida Von der Leyen (Partito popolare europeo). La maggioranza esulta e il governo plaude alla vittoria nettissima che sarebbe stata percepita come tale da tutta l’Italia, tuttavia il sistema-Paese (come si sarebbe detto un decennio fa) non beneficerà effettivamente della nomina di Fitto a Bruxelles/Strasburgo.
«Andiamo al dunque: al di là delle funzioni di coordinamento dei vicepresidenti che, per l’esperienza che ho io, sono chiacchiere e distintivo. Senza chiacchiere e distintivo avevamo Gentiloni all’economia. Adesso con chiacchiere e distintivo abbiamo “coesione e riforme”», a dichiararlo è stato Pier Luigi Bersani, componente della direzione nazionale del Partito democratico, nel corso della serata di ieri [17 settembre 2024], durante la trasmissione DiMartedì, condotta da Giovanni Floris. Chiacchiere e distintivo. E ora il dibattito – o quel che potrebbe definirsi tale – si è avviluppato sulla questione delle votazioni conseguenti: «Su Gentiloni cinque anni fa esprimemmo parere favorevole anche su indicazione dell’allora presidente di Ecr [Raffaele] Fitto. Confidiamo in un atteggiamento responsabile da parte della sinistra. Poi sta a loro. Certo, risponderanno del loro voto davanti al popolo italiano», tuona Nicola Procaccini al Corriere della Sera di ieri, 18 settembre [2024]. Come se il popolo italiano fosse davvero realmente consapevolmente informato su quanto accade a Bruxelles/Strasburgo, una delle istituzioni più blindate al mondo (con tanti saluti alla trasparenza e all’accessibilità pubblica). Ma le dichiarazioni roboanti sulla stampa lasciano il tempo che trovano, Italia od Europa che sia. Nel Belpaese i quotidiani ne sono la testimonianza concreta: non c’è una dichiarazione che sia di lungo respiro o che porti con sé un poco di dibattito che vada oltre l’immanenza di questo o quel fatto. Solo due giorni fa [16 settembre 2024], a proposito di gruppi e composizioni parlamentari, La Verità, attraverso la penna di Federico Novella, pubblicava un’intervista a tutta pagina ad Enrico Costa (deputato, già ministro negli esecutivi Renzi e Gentiloni). L’ex ministro ribadiva di aver lasciato Azione ma di non aver intenzione di ritornare in Forza Italia: «Non c’è nulla di ufficiale, farò le mie riflessioni. Ma con Forza Italia ho sempre avuto un confronto costruttivo». Neanche 48 ore dopo ed Enrico Costa effettua ufficialmente il ritorno nella formazione fondata da Silvio Berlusconi.

Nonostante la conquista ottenuta a Bruxelles/Strasburgo, il paese (quello vero, non quello dei comunicati stampa) langue. Non bastano gli annunci roboanti della Presidente Meloni all’assemblea di Confindustria riguardo l’occupazione («mai così tanti italiani avevano lavorato dall’Unità d’Italia oggi») talmente alti da non avere un termine di paragone: un esercito di decine di migliaia di insegnanti precari vincitori di concorso, abilitati e in attesa di abilitarsi (ovvero idonei dei nuovi concorsi Pnrr) sono in attesa di una cattedra e un’altra morte sul lavoro si aggiunge al già imponente numero di decessi. Stavolta si è trattato di un operaio di 34 anni che ha perso la vita schiacciato da una pressa in una fabbrica del varesotto, assunto non direttamente dall’azienda ma da «una cooperativa». Ma forse per il governo non conta: l’operaio era “solo” un uomo nato in Marocco. Non era mica italiano.

Politica in stallo: ci saranno i “Draghi viola”

Se la politica non si occupa di produrre proposte alla popolazione tutta (dunque saperle comunicare), indistintamente se essa comprenda anche elettrici ed elettori dei partiti della coalizione di governo, allora fa solo parlare di sé: un’azione subita e non praticata. Se alla politica si toglie la politica, resta un vuoto. Ma i vuoti in politica non esistono e il dibattito pubblico conseguente (che sia sano e non avvelenato o volutamente intorbidito) scade e diventa irrilevante. Risibile, perfino.

È la vicenda Sangiuliano-Boccia, ça va sans dire, ad aver tenuto sotto scacco la politica, la stampa, la comunicazione pubblica tutta: scontrini, ricevute, probabili nomine, foto che avrebbero potuto essere reali ma che potrebbero essere ritoccate, materiale che qualcuno avrebbe registrato (come verrà archiviato e da chi?), telefonate che sarebbero state ascoltate ma che nessuno è in grado di riferire (“parli lui/lei”, “lo chieda a lui/lei”). E poi, decine e decine di minuti di interviste su carta stampata, su canali di tv pubblica ed emittenti private ai personaggi di questa vicenda personale, politica, intima, indiscreta e tracimante allo stesso tempo. Il caso personale/politico Sangiuliano-Boccia è stato il vero protagonista della settimana politica che si è chiusa – così come di quella che si è aperta: la coalizione di centrodestra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, a cui ultimamente si aggiunge anche Noi Moderati) si è trovata di nuovo coesa e ritrovata sugli obiettivi comuni in vista dei prossimi appuntamenti. Coesa davanti a un piatto di pasta. Ravioli, per la precisione. Il Corriere della sera di martedì 10 settembre informa lettrici e lettori che i pentaviri (c’erano anche Lupi e Giorgetti oltre al trio Meloni-Tajani-Salvini) hanno consumato «mozzarella e ravioli di pesce». Un carboidrato e un latticino valgon bene una coalizione. Il pranzo è servito, stando al già citato retroscena di Monica Guerzoni, per «convincere gli italiani che il governo» sia «compatto e lavora serenamente, al di là delle tensioni quotidiani, degli scontri sulla Rai e sulle elezioni regionali e dei (presunti) complotti».
Eppure il Governo ha una manovra a cui badare: Giorgetti invoca la solita prudenza per non trovarsi di fronte l’ira funesta di Bruxelles/Strasburgo e la coperta sembra essere sempre corta. Talmente tanto che le stime di crescita sono ancora timidamente positive e il ministro Paolo Zangrillo ha ipotizzato, verbalizzandola, la ipotesi di far rimanere al lavoro i dipendenti pubblici fino ai settanta (70) anni. Su base volontaria, s’intende, e assumendo «trecentocinquanta mila giovani entro il 2025».

Ma tutto questo non basta. Servono i “Draghi viola”, come nel celebre cartone animato della Disney, ma con la D maiuscola. Serve la nuova “Agenda Draghi” a cui il Partito democratico già plaude, sebbene il rapporto Futuro della competitività europea presentato dal già presidente della Bce e Primo Ministro italiano, riporti chiaramente la necessità di un aumento degli investimenti nel settore della difesa. Il plauso del Pd giungerebbe prima ancora d’aver letto il documento, verrebbe da dire: sono pur sempre quattrocento pagine di «realismo capitalista». Se Tajani approva quanto detto da Draghi, Lupi gli fa eco; un’eco talmente forte che giunge ad abbracciare (e a fondersi) con quanto ribadito da Gentiloni e Letta (Enrico). D’altra parte, a proposito di realismo capitalista, se il settore dell’automotive e della transizione all’elettrico non decolla, il vuoto deve poter essere riempito da qualcos’altro: chip, difesa, intelligenza artificiale e via dicendo. L’importante è condire il tutto con un po’ di retorica chiamando in causa il Piano Marshall e la necessità di uno sviluppo coeso.
L’Italia può interpretare un ruolo fondamentale in questo nuovo assetto europeo: produzione ed esportazione di armamenti, un settore in cui il nostro paese riesce a dire la sua con autorevolezza.
Con buona pace della Costituzione.

Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/politica-in-stallo-ci-saranno-i-draghi-viola